Dimenticare Pasolini. Per non guardarsi allo specchio, di Andrea Meccia

Dimenticare Pasolini.
Per non guardarsi allo specchio

di Andrea Meccia

2 novembre 2010, Agorà Vox – www.agoravox.it

Dopo la strage del 4 agosto Italo Calvino scrisse: «Il piano eversivo fascista è certo un pericolo, ma più insidiosa e concreta, perché già in atto, è l’instaurazione di un antistato che conviva stabilmente con la nostra democrazia corrodendo i vertici del potere con il ricatto, con le stragi e con i regolamenti di conti». Pier Paolo Pasolini prese posizione dura e netta addirittura dalle colonne del «Corriere della Sera», il giornale della borghesia milanese. Il 14 novembre del 1974 scrisse un famoso articolo intitolato Che cos’è questo golpe? Pasolini esordiva scrivendo: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe. […] Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e Bologna dei primi mesi del 1974». Parole di fuoco che colpiscono ancora oggi per la loro carica rabbiosa e viscerale. Pasolini nell’articolo snocciolava ipotesi che al momento sembravano incomprensibili e che solo una commissione parlamentare (la Commissione Stragi) è riuscita a decifrare decenni dopo.
Pasolini proseguiva l’articolo scrivendo: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede […], di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme fatti i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere». Da dove nasceva tanta sicurezza e forza nel poter scrivere su un quotidiano conservatore parole taglienti e destabilizzanti nel clima di una guerra civile sotto gli occhi sempre attenti di Usa ed Urss verso l’Italia? Quando Pasolini fu ucciso, negli ambienti omosessuali romani calò una atmosfera tesa, tinta di paura e omertà. Girava anche voce che negli ultimi tempi Pasolini facesse troppe domande ai ragazzi di vita. Si interessava solo al loro lavoro, ai rapporti con i loro protettori, alla mutazione antropologica o cercava qualcosa di diverso? Il presidente della commissione stragi farà intuire che probabilmente nelle randagie e disperate notti vissute da Pasolini nel mondo degli emarginati romani, in quegli anni ai confini con la galassia della destra eversiva neofascista, Pier Paolo conducesse le sue personali indagini verso una verità che ancora oggi possiamo solo ipotizzare.
Il 28 agosto del 1975 sulle pagine del settimanale «Il Mondo» Pasolini arrivò addirittura a processare la Democrazia Cristiana con un celebre articolo, accusando apertamente uomini potenti del partito come Andreotti, Fanfani e Rumor e preoccupandosi di sottolineare la rispettabilità di Moro e Zaccagnini, altrettanto illustri esponenti democristiani. Pasolini li accusava di «indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, collaborazione con la Cia, uso illegale di enti come il Sid (Servizio informazioni difesa dello Stato italiano, n.d.r.), responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di colpirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani, responsabilità dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass-media, corresponsabilità della stupidità delittuosa della televisione».
Pochi giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, il politologo Giorgio Galli scriverà un articolo dal titolo Non era questo il processo voluto da Pasolini. Nel novembre del 1974 Pasolini e altri amici furono circondati da un gruppo di fascisti che gli urlavano «checca, frocio». Pochi mesi prima della terribile notte tra l’1 e il 2 novembre a Pasolini era stato estorto del denaro da due ragazzi di vita, che minacciavano di gettarlo nel Tevere. Quando fu ucciso Pasolini aveva finito di girare Salò o le 120 giornate di Sodoma e lavorava al romanzo uscito postumo Petrolio. Il nucleo tematico attorno cui ruotavano queste due opere erano il potere, il potere ambientato nella Repubblica di Salò e il potere legato al petrolio, all’oro nero, paradigma dello sviluppo delle società capitalistiche occidentali. Pasolini cercava attraverso quel romanzo di far luce sui meccanismi di potere interni all’Eni, azienda allora statale che si occupava di risorse energetiche.
Il presidente dell’Eni Enrico Mattei, brillante manager di Stato inviso alle società produttrici di greggio americane, era morto in un misterioso incidente aereo nel 1962. Fanfani definirà la morte di Mattei «un atto terroristico». Nel 1972 il regista Francesco Rosi, l’esponente più importante del cinema di impegno civile e di ricostruzione storica in Italia, girò Il caso Mattei, film bellissimo che cerca di far luce sull’attività di Mattei e sulla sua misteriosa morte. Ad aiutarlo nella ricerca di indiscrezioni sulle ultime ore trascorse da Mattei in Sicilia utili alla sceneggiatura, Rosi coinvolse un giornalista di Palermo che si chiamava Mauro De Mauro. Nel settembre del 1970 De Mauro scomparirà e il suo corpo non verrà mai ritrovato. Nel gergo mafioso siciliano, questo metodo di sparizione si chiama lupara bianca. Questa è la tesi propugnata in Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica pista alle origini delle stragi di Stato, scritto da Giuseppe Lo Bianco e Sandro Rizza, Edizioni Chiarelettere. Insomma Pasolini negli ultimi tempi della sua vita era ossessionato dai meccanismi perversi del potere italiano e conduceva una vita privata sempre più pericolosa. Forse possedeva informazioni che scottavano e comunque era riuscito a ricostruire il quadro economico-politico-criminale in cui si stava consumando il sanguinoso teorema della strategia della tensione. L’indignazione, le geniali intuizioni, la tensione morale altissima, il coraggio di scrivere e denunciare, le posizioni provocatorie e controcorrente facevano di Pasolini un personaggio scomodo nel panorama politico italiano. Lo scrittore omosessuale Mario Mieli, morto suicida nel 1983, scriverà: «Credo che Pasolini sia stato ucciso da uno o più marchettari. Quello che è certo è che Pasolini è stato ammazzato in quella situazione perché soltanto gli omosessuali possono trovarsi in situazioni del genere. Perciò il discorso sulla sessualità relativa a questo assassinio politico lo facciamo noi, i froci». (Elementi di critica omosessuale, Einaudi, 1977). Il già citato Giorgio Galli scriverà che non è possibile non analizzare il suo omicidio inserendolo come un tassello del complicato e insanguinato quadro politico di quegli anni (Un delitto politico, in AAVV, Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo, Kaos Edizioni, 1992). Nel 1995 il regista Marco Tullio Giordana girerà un film inchiesta dall’esplicativo titolo Pasolini – Un delitto italiano.