Bacon e Pasolini: un incontro fra incomunicabili
di Lorenzo Curti, aprile 2013
L’incontro e l’influenza reciproca producono il proliferare dell’arte, gli artisti si contaminano attraverso la convergenza poetica e più spesso è mediante la divergenza. A volte anche gli incontri mancati segnano un vuoto, un’assenza e intorno ad essa si può sviluppare una comunanza che va ben oltre le semplici influenze che inevitabilmente si creano fra gli artisti. Piuttosto questa comunanza si trasforma in un percepire, un vedere la realtà circostante sotto le apparenze con lo stesso sguardo perforante che diviene la fonte irrinunciabile della creazione artistica.
Possiamo dunque chiederci cosa lega due autori che presentano delle così particolari analogie e delle così profonde differenze come Pier Paolo Pasolini e Francis Bacon. Questa è la domanda che possiamo porci guardando la celebre scena di Teorema in cui l’Ospite e Pietro, il figlio, osservano un libro riportante alcuni dipinti di Francis Bacon. Questi pochi secondi di film sono decisamente importanti nella comprensione del destino di Pietro e della radicale modifica che l’arrivo dell’Ospite porterà nella sua vita.

La scena si svolge nella camera (essenziale e luminosa) di Pietro e i due personaggi sono seduti sopra il letto. I due sfogliano le pagine di un volume monografico su Bacon in un’atmosfera di totale silenzio, dove sembra che Pasolini abbia dato unicamente ai quadri il compito di comunicare attraverso le bocche distorte dei soggetti baconiani che sembrano urlare dai fogli del libro in una contrazione nevrotica. Nell’apparente ordine (apparente perché è un ordine già disgregato e pronto a franare) della camera, dove i colori sereni dominano incontrastati, i quadri intervengono con violenza impressionante in maniera quasi ossimorica. Le opere che Pasolini ha scelto che emergessero, bestiali e crudeli, dal libro, come evocate da un mondo Altro, sono ad esempio uno dei tanti Studi da Velázquez su Papa Innocenzo XIII, i Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, Two Figures (del 1953). Come non può essere casuale la scelta di Bacon all’interno di Teorema non lo è nemmeno quella di queste opere. Il fatto che Pasolini scelga di puntare l’attenzione su soggetti religiosi completamente deformati, negativamente drammatizzati e privati della loro sacralità (come lo stesso Bacon dichiara: Per quanto riguarda i Papi la religione non c’entra assolutamente; sono piuttosto frutto di un’ossessione per le riproduzioni fotografiche del ritratto di Papa Innocenzo X di Velázquez) e su una scena di sesso omosessuale, anch’essa quasi spaventosa, è dovuto a esigenze di tipo narrativo. I soggetti religiosi (per loro essenza eterni e incorruttibili) disfatti sembrano preludere alla crisi della realtà borghese della famiglia di Teorema, anch’essa apparentemente incorruttibile e eterna, mentre la scena omosessuale non è altro che una riproposizione in chiave artistica e drammatica del rapporto già consumato fra i due giovani, il segno di un erotismo fortemente presente nella vicenda e in sé, la stessa scelta delle opere di Bacon fa da premonizione al futuro da pittore d’avanguardia del giovane borghese.

Comprendiamo subito l’importanza fondamentale che ricopre il tema del corpo nell’opera baconiana, dove il corpo, la pura Figura (per usare i termini di Deleuze, che è inevitabile punto di riferimento quando si parla di Bacon) viene deliberatamente e ineluttabilmente deformata, con una violenza che pugnala lo sguardo del fruitore inerte. E anche in Teorema il corpo, con tutte le connotazioni che esso assume, in particolare quella erotica, è assoluto protagonista della narrazione. Come i corpi di Bacon sono le Figure centrali inserite in un Contorno e in uno Sfondo, che sono tipicamente gli interni, (vd. Logica della Sensazione di Deleuze) allo stesso modo i familiari di Teorema sono dei corpi (addirittura spesso fanno l’impressione di essere delle silhouette) inserite in un contorno che è quello cinematografico della villa borghese, alienante nella sua perfezione, dove anche il giardino è un interno, uno spazio chiuso.
Questa scena non è l’unica in cui Pasolini cita espressamente Bacon, ma anche nella sceneggiatura di Uccellacci e uccellini il pittore inglese viene ripreso dal poeta e diviene presto il pittore moderno preferito dal poeta:
Entrano nella villa con i cani (Villa Generone). “Ninetto dunque si rassegna: e gira intorno gli occhi stupiti. Vede così dal basso all’alto: – Delle pareti coperte di quadri astratti e informali: forse anche un Bacon. – I mobili antichi, con suppellettili comprate di prima mano a Kano o a Palmira. Poi entra nella stanza l’ingegnere (…).
Addirittura ci racconta Laura Betti che nel 1972, mentre Pasolini girava I racconti di Canterbury in Inghilterra, i due artisti si incontrarono durante una visita del poeta nello studio del pittore, ma, poiché Pasolini non conosceva l’inglese e Bacon non conosceva l’italiano, fu impossibile ogni dialogo. Un incontro fra incomunicabili.
Andremo qui a vedere delle analogie fra la visione del corpo pasoliniana e quella baconiana pur premettendo le essenziali divergenze fra le poetiche dei due autori, senza le quali sarebbe impossibile una reale comprensione. Quella di Pasolini infatti discende da un’ideologia marxista storicista che quindi prevede l’esigenza della narrazione e della necessità comunicativa (spesso consapevolmente e dolorosamente disattesa), mentre quella di Bacon discende da una visione tutta personale individualista e fatalista (in Bacon regna il Caso) che al contrario devasta la narrazione e il contenuto di questa trasformando l’oggetto artistico da protagonista di un dramma, di un’illustrazione a pura Figura.
In Teorema, che è il dramma del fallimento, della sconfitta della borghesia, il corpo diviene veicolo della rivelazione del sacro attraverso il sesso che l’ospite divino (dionisiaco e ebraico allo stesso tempo) dona a tutti i familiari. Ma lo stesso sesso che è uno strumento rivelatorio-rivoluzionario, una volta che l’ospite si dilegua per oscuri motivi, diviene il peso che modifica “baconianamente” i personaggi del dramma (nell’anima e nel corpo), che privati della loro precedente identità e della possibilità di una nuova redenzione si buttano nella disperata ricerca dell’amato ospite, che termina addirittura nello stato catalettico (che rievoca inevitabilmente il mondo beckettiano che ha la sua massima rappresentazione in Malone Muore) di Odetta, la figlia. Fa eccezione solo la serva, Emilia, che incontra la Grazia della santità, che si rivela però una drammatica condanna.
Indubbiamente un parallelo che dobbiamo tracciare tra i due artisti è quello del Grido. Il grido è una presenza costante in tutta l’opera di Francis Bacon, in cui un imperativo era sicuramente “dipingere il grido anziché l’orrore”, rendendo così visibile attraverso il manifesto l’invisibile, il sentimento, in una sorta di epifania. Basti dunque pensare ai già citati “Papi” di Bacon e anche ai suoi Tre Studi per una Crocifissione dove esseri osceni gridano dalla tela. Non può che venire alla mente l’ultima scena di Teorema dove Carlo, il padre, completamente nudo, in una sorta di terra desolata, pregnantemente eliotiana, grida disperatamente fino all’interruzione improvvisa del film, come se l’urlo, ben più angosciante di quello munchiano, rimanesse sospeso, come eternamente rappresentato sulla tela della nostra memoria, privato di ogni spiegazione chiara ed evidente. Nell’omonimo romanzo, scritto contemporaneamente al film, Pasolini lascia ai suoi versi il compito di porre “una fine” alla vicenda, in cui si pone il problema di cosa significhi questo urlo, quasi svuotato di ogni possibile significato, se non quello della sua infinità:
È impossibile dire che razza di urlo
sia il mio: è vero che è terribile
– tanto da sfigurarmi i lineamenti
rendendoli simili alle fauci di una bestia –
ma è anche, in qualche modo, gioioso,
tanto da ridurmi come un bambino.
È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno
o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo.
È un urlo che vuoi far sapere,
in questo luogo disabitato, che io esisto,
oppure, che non soltanto esisto,
ma che so. È un urlo
in cui in fondo all’ansia
si sente qualche vile accento di speranza;
oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa
questo mio urlo voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.
FINE
Dunque quest’urlo, come quelli di Bacon, modifica completamente il corpo del personaggio, già indelebilmente segnato dal rapporto con l’Ospite, rendendolo quasi animalesco, bestiale (“tanto da sfigurarmi i lineamenti / rendendoli simili alle fauci di una bestia”). Non possiamo non riprendere comunque anche la figura di Odetta, che nella sua catalessi, nel suo stato patologico, sembra ricordare almeno per analogia i corpi “isterici” di Bacon, come li definisce Deleuze, in cui si perde la funzionalità delle membra e dei sistemi percettivi nelle sensazioni che tramutano e modificano l’ordine corporale. In questo senso, anche il corpo di Odetta diviene il canale svuotato dalla sensazione, che nel caso specifico è la sensazione dell’assenza, della privazione.
Ma le analogie non si limitano qui e possono essere estese un po’ a tutta la produzione pasoliniana, con la prudenza dovuta alle evidenti differenze culturali, poetiche e ideologiche esistenti fra questi due artisti. Un punto in comune, per il quale ci aiuta sempre Deleuze, è quello della “carne macellata” (viande in francese) di Bacon, presente manifestamente ad esempio nel ritratto del Papa con le carcasse sventrate. Questo tema della “macellazione” si inserisce peraltro nel percorso, comune a entrambi, della rappresentazione della crocifissione.

Operazioni di contrasto tra interni borghesi e metamorfosi del corpo dell’individuo sono presenti anche nel Teatro di Parola pasoliniano, in particolar modo in Porcile e in Orgia, opere che affrontano la decostruzione dell’individualità borghese. In Orgia due personaggi, un uomo e una donna, per la loro precedente storia piccolo borghese definibili come “normali”, creano un universo sadomasochistico e di morte, macellandosi vicendevolmente con gli strumenti della violenza verbale, corporale e sessuale. In Porcile, sia nella sua forma teatrale che nella trasposizione cinematografica, la contrapposizione fra la realtà borghese, rappresentata dall’istituzione della famiglia, dell’economia neocapitalista e dalla meravigliosa villa nel film, si oppongono nettamente all’informità , alla continua mutevolezza, allo sfuggire di Julian ai confini del suo ruolo sociale. Questi è il giovane figlio di un industriale tedesco che “non sa obbedire né disobbedire” e che in un continuo drammatico gioco schernisce le cose che gli stanno attorno e perfino Ida, la “sessantottina” che lo ama. Julian verrà divorato, macellato da coloro a cui dedicava il suo amore segreto: i porci, contemporaneamente e ambiguamente simboli della crudeltà della carnefice morale borghese e degli impulsi bestiali inconsci del giovane. Nella trasposizione cinematografica si inserisce in parallelo la vicenda, ambientata nel 1500, di due cannibali che sulle pendici dell’Etna dopo svariate efferatezze vengono condannati. E’ evidente come anche in questo caso assuma un valore importante la macellazione della carne che diviene addirittura perpetrata dall’uomo stesso nel sadismo cannibale. Da notare peraltro che anche Julian come Odetta in Teorema vive l’esperienza della catalessi.

Ne La ricotta, uno dei primi cortometraggi di Pasolini, si opera una delle più grottesche parodie della crocifissione: il protagonista, Stracci, un uomo del sottoproletariato urbano romano, deve interpretare, in un film girato a Roma da un regista straniero (interpretato non a caso da Orson Welles), il ruolo del ladrone che viene redento durante la crocefissione. Grottescamente e paradossalmente Stracci muore proprio sulla croce a causa di un’indigestione. Stracci diviene così, oltre a una contemporanea rappresentazione della figura di Cristo, anche l’immagine della carne macellata, ingrassata violentemente, come si ingrassano le oche per fare il foie gras, dalla tensione consumistica dei personaggi borghesi (che sono coloro che permettono a Stracci quella perversa grande abbuffata che lo porterà alla morte, divenendo così uno spettacolo inatteso). Certo è evidentemente presente in questa “macellazione” perversa di questa Passione l’elemento marxista e la critica sociale, elementi invece assenti in Bacon. Ma per il pittore inglese, sempre secondo Deleuze, “la carne macellata è la zona comune all’uomo e alla bestia, la loro zona di indiscernibilità; essa è quel fatto, quel particolare stato in cui il pittore si identifica con l’oggetto del proprio orrore e della propria compassione”. Non si può a questo punto non notare che anche i macellati di Pasolini subiscono una trasformazione animalesca, divengono subumani, ne La ricotta Stracci viene rappresentato nell’esasperazione triviale di uno degli istinti e dei bisogni primari dell’uomo, che diviene, degradato e disumanizzato, bestiale.
Non è lontana da questa trasformazione (che in Bacon non assume però necessariamente il significato di degradazione, quanto invece quello di un destino infelicemente condiviso fra animali e umani) l’ultima grande opera cinematografica del poeta, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Qui la macellazione operata dai gerarchi fascisti, simboli del nuovo potere consumista, su delle giovani vittime, che porta alla loro totale disumanizzazione, viene esemplificata nella scena dove essi vengono obbligati a mangiare per terra come cani, dunque diventando corpi bestiali e privi di identità e umanità.
Stranamente l’opera che pare assomigliare maggiormente a un quadro di Bacon nell’opus pasoliniano, forse perché vagamente beckettiana, è il racconto Gas, presente nella raccolta Alì dagli occhi azzurri. In questo brevissimo racconto sono presenti dei non personaggi come Virgili, un carcerato pedofilo privo di coscienza liberato da Regina Coeli dall’amico François Villon (come il poeta), romantica ma squallida figura. Il tutto si costruisce su un contrasto che sembra ricordare quello fra gli sfondi astrattamente geometrici e i personaggi contorti di Bacon. A questi figuri, cui si aggiunge come terzo personaggio la strada orribile della periferia, fertile come il letame, con il suo puzzo vitale di gas, si oppone la patinata e astratta realtà democristiana della Roma potente, del foro illuminato “cinematograficamente” e quindi irrealmente.
Se Villon si staglia nella sua delinquenza contro questa realtà quasi romanticamente, ma vanamente, è allo stesso tempo però nella beckettiana attesa di una prostituta che non arriverà mai, delusione questa che lo porterà a dire che “l’occasione perduta lo divorava, la puttana, proprio perché una delle migliaia, col suo stupido tradimento gli dava il senso del tradimento di tutta l’esistenza”. Virgili, invece, che cammina in uno stato quasi di incoscienza, viene divorato da un lupo mannaro (ritorna qui dunque il tema già sottolineato della metamorfosi animalesca dell’umano). La carcassa viene ritrovata da Villon poco dopo la sua morte. Bisogna prima di tutto notare che questi delinquenti, questi uomini di vita, non sono qui rappresentati da Pasolini come suo solito in maniera attiva, anche se spesso con risultati autodistruttivi, ma sono totalmente privi di volontà, incapaci di reagire. E la sorte di Virgili, che diviene carne macellata, a causa della sua diversità, divorato dalla borghesia, dal potere democristiano citato all’inizio del racconto rappresenta proprio la condanna del destino e della società che gli impone la devastazione del suo corpo. Le forze politiche e sociali vengono peraltro rappresentate qui in maniera diabolica e animalesca, attraverso lo strumento del licantropo. Del volto disfatto di Virgili rimane però un punto di riferimento che ci fa comprendere che quello è un volto, nonostante l’iniziale difficoltà a riconoscerlo come tale, ed è l’occhio, peraltro detentore della coscienza, nella morte, dell’essere un delinquente. L’occhio è spesso testimone ultimo della permanenza della Testa anche nei quadri di Bacon. Le parole di Nadia Fusini nel suo saggio Beckett & Bacon sembrano qui calzanti:
E una incerta, traumatizzante somiglianza umana aleggia da una forma sinistra, inquietante – una mostruosa metamorfica creatura tratto per tratto agghiacciante. L’occhio, ad esempio, galleggia a una distanza improbabile. Ma guarda, e lo sguardo è penetrante, preciso. Testimonia senz’altro che il sistema nervoso ancora funziona, nonostante pressioni tanto potenti sembrino aver sfasciato la faccia.
Dunque Bacon e Pasolini sono due artisti, che nella loro complessiva distanza, per molti versi profondissima, e in concezioni dell’arte totalmente diversa (per il pittore priva di fine e soggetta al Caso e per il poeta invece intimamente finalistica), attingono a temi molto simili, quelli più inconsci, più vividi, più fervidi nello spirito del sadismo e del masochismo che inevitabilmente lega questi due autori. Temi, che nel grido e nella carne macellata, che con la loro violenza modificano ineluttabilmente il centralissimo corpo, raggiungono un livello tale per il quale si può parlare di un “sentire” comune, di un percepire le cose della realtà su percorsi che divengono incidenti anche se provenienti da retroterra così radicalmente lontani.