“Vui di rosada” di Tonuti Spagnol, una recensione di Ugo Perugini

Pubblichiamo volentieri lo scritto con cui Ugo Perugini recensisce Vui di rosada, l’antologia poetica di Tonuti Spagnol edita nel 2015 dalla Società Filologica Friulana insieme al Centro Studi Pasolini e al Comune di Casarsa. Il volume, prefato da Sergio Clarotto, raccoglie una selezione dei versi in friulano e in italiano composti lungo l’arco dell’esistenza da Spagnol, che fu allievo nella libera scuola di Versuta avviata durante la guerra  da Pasolini e fu educato dal quel maestro indimenticabile allo scavo interiore e alla ricerca della parola poetica. Quanto quella lezione sia stata decisiva lo dimostrano i suoi testi, soprattutto friulani,  in cui Perugini coglie un’autentica voce lirica, tanto limpida e ingenua per dono naturale quanto tramata di raffinati echi pascoliani.
Un grazie all’autore per il consenso alla diffusione della sua lettura critica.  

“Vui di rosada. In recuart di Pier Paolo Pasolini” di Tonuti Spagnol
una recensione di Ugo Perugini

Secondo Pier Paolo Pasolini, Tonuti Spagnol era un poeta autentico. Immaginiamo l’emozione e lo stupore del grande intellettuale di fronte alle prove di questo ragazzino che riusciva a cogliere con semplicità e immediatezza, usando la lingua friulana, la bellezza della natura del suo paese, le prime emozioni, i sentimenti in sboccio, di una vita semplice e povera in mezzo ai campi.
Pasolini è molto sincero con Tonuti. «Non è un caso di precocità, è tutt’altro che un enfant prodige» ma ha un dono. Quello di una vena poetica autentica e limpida. Per capire un po’ di più il motivo di questa sua attenzione verso questo giovane, semplice e modesto, bisogna, secondo me, considerare che in quel periodo Pasolini stava preparando la sua tesi di laurea da fuori corso su Giovanni Pascoli. Il “pascolismo” lo interessava soprattutto dal punto di vista della teoria dell’estetica. Un’estetica che egli sentiva molto vicino alla sua.
Emozioni, biografia, dolore per una solitudine sofferta (lo stesso Pasolini parla di un esasperante disagio dovuto alla sua solitudine impenetrabile, in  Antologia della lirica pascoliana. Introduzione, 1945) grazie al linguaggio poetico potevano convertirsi in poesia, cioè qualcosa di nettamente superiore rispetto alla nuda parola. Lui crede che la poesia, e quella di Pascoli in particolare, fatta anche di assonanze, allitterazioni, echi, suggestioni, abbia un valore salvifico, possa riuscire a trascendere la realtà, spesso cruda e desolata.
Se l’essere poeti è cogliere, senza sovrastrutture, la meraviglia di essere al mondo, Pascoli ne è un esempio emblematico soprattutto nell’approccio fanciullesco e stupito che egli rappresenta (ricordiamo le pagine del Fanciullino). Pascoli è contrario a certa poesia che si regge sull’imitazione, povera di spontaneità. La sua ricerca è indirizzata verso una raccolta di piccole percezioni, di emozioni, frammenti, spunti, come di una persona che voglia ancora restare legato al mondo interiore infantile, tenero e indifeso, slegato dalla realtà.
Pasolini legge Pascoli e vi si immedesima. La sua solitudine (che è solitudine di uomo e di affetti) diventava, come scriverà a Silvana Mauri, «concentrazione assoluta di sé, su un’unghia di sé». E Pasolini non esita a entrare, studiando il Pascoli, nel suo meccanismo costruttivo poetico, cerca di scoprirne la musicalità, il valore mistico, la capacità del suono delle vocali. In Pascoli coglie lo “stato poetico” costante (scriverà: «tutta la poesia gira come un vortice d’aria intorno a quell’io che siede invisibile e solo»). Poco conta che poi la tesi finale percorra altre strade che criticano un certo pascolismo ingenuo ed eccessivamente estetico.
L’iniziazione che aveva avuto contribuì non poco a fargli cogliere il valore autentico di quel modo di fare poesia,  e scoprire quella di Spagnol, «un caso specialissimo», gli sarà sembrato un vero dono della natura. Finalmente il poetare, liberato da ogni paludamento intellettuale, diventava veramente l’equivalente del fare e lì Pasolini poteva ritrovare lo spirito autentico  che cercava.
E la lingua friulana era il terreno più adatto “vivo, schietto, genuino” per far nascere quel fiore profumato. Lo dice bene il poeta Zanzotto: «Le sue (di Spagnol) sono poesie di una straordinaria limpidezza, è la crescita di un fiore spontaneo». Tonuti resta poeta anche quando lascerà la lingua friulana per scrivere in italiano. Dovunque si trovi, il suo intimo linguaggio con la natura non lo abbandonerà mai. Ormai gli è entrato nel corpo, nell’anima, insieme alla nostalgia struggente per la sua terra.

"Vui di rosada" di Tonuti Spagnol. Copertina
“Vui di rosada” di Tonuti Spagnol. Copertina

L’uscita del volume di poesie Vui di rosada di Tonuti Spagnol, a cura di Sergio Clarotto, cui si deve una approfondita prefazione, è un avvenimento importante. Leggere le poesie di Tonuti, per chi, come me, non conosce il friulano, è difficile. Eppure, da subito mi sono reso conto che dovevo provare a leggerle ad alta voce. Anche in un modo non perfetto che forse avrebbe fatto sorridere i madrelingua. Solo cogliendo l’autenticità dei suoni è possibile, infatti, scoprire il fascino e la musicalità di quelle note.
E allora mi sono messo a raccogliere, qua e là, proprio come se passeggiassi in un prato fiorito, alcuni dei versi più significativi del poeta. Eccezionalmente pregni nella loro icastica e suadente immediatezza. «La me zoventut in tai ciaviei» (Al lustri di luna): con questa semplice frase, ci appare lui, ragazzetto, che se ne va di notte vagando per i campi con uno smarrimento che dura un attimo e la certezza, folle e inebriante, di avere dentro di sé la gioventù rappresentata da quella chioma folta di cui va fiero.
In Vea di Muart c’è un inizio folgorante, che in pochi versi coglie la presenza ineluttabile della morte, della predestinazione che azzera qualsiasi differenza («Di chis’cius dis /nonu a si nas/di chis’cius dis/nonu a si mour») dal momento che la vita nel suo dipanarsi quasi non riesce a percepire le età delle persone, immerse in un trascorrere del tempo, sempre uguale a se stesso, dentro un mondo sconsolato («ta un mont rumit»).
Certi termini, difficili da tradurre, se non con un giro di parole, mostrano la ricchezza ermetica e sonora al tempo stesso del dialetto: ad esempio, «Sidina sidina» (piano piano, silenziosamente), come nella dolcissima ode Al nas il dì. Altri versi appaiono eccezionalmente onomatopeici, al punto da replicare con sottigliezze vibratili le gocce che cadono rimbalzando sulla pietra della famosa fontana di Versuta  che spegne la sete: «ti distudis la seit/da li fadiis di dis patis», dalle fatiche dei giorni patiti. Il battere delle “esse” finali richiamano il gocciolare lento ma insistente dell’acqua.
Il poeta spesso mostra smarrimento («i mi sint pierdut»), incertezza, incapacità di confrontarsi con il futuro e si immagina come «na flama sbavida» (una fiamma scolorita) con il «cour vueit» (cuore vuoto), ascoltando «cricà li stelis» (stridere le stelle). E’ un sentimento che però mai sfocia in un dolore. L’estasi che la natura gli regala e anche quella certa malinconia che lo pervade non viene respinta, al contrario risulta gradevole, come dimostra il verso «mi giolt duti/li solitudinis/de la sera tardiva». Ridere e piangere, godere e dolersi, rappresentano la vita. E lui, la riconosce appunto come dono della natura, non la respinge affatto: «No ai mai vivut cussì/no ai tant ridut/o pur plansut/coma un frut/che tant al siga». Come non ricordare in questi versi il Fanciullino di Pascoli?
Anche utilizzando la lingua italiana Spagnol non cambia il suo approccio alla vita. «Non so se i miei vent’anni/sono un grido/questa sera/o un riso/lontanissimo». E’ sempre lui che scruta il cielo come da ragazzo: «ogni notte nel cielo,/sogno i segni del mio passato». Le assonanze che il suo dialetto non gli offre più sono recuperate attraverso il gusto per certe allitterazioni. Per descrivere i sentimenti più intimi ricorre sempre a immagini della natura che coglie con attenzione e amore. «Rimango appeso e nascosto/sul ramo/come un passero inseguito/da un rapace». E scopriamo che Spagnol è stato anche un lettore di poesie. Come non ritrovare certi echi in questi versi «stendevi la mano/fredda e inaridita» nella poesia A Michele?
Anche l’amore, il sentimento che egli nutre per la donna, mutua costantemente immagini dalla natura. E’ il solo modo per Tonuti per sentirsi autentico: «il tuo risveglio/il tuo viso di polline/occhi di fiore». E ancora «e come ape irritata/sbattuta dal vento/da zolla in zolla/si disseta nell’unica corolla/mi ristoro/nella tua innocente fedeltà».
Nella descrizione della natura entra in seguito in modo prepotente il mare. Nella Mia pace: «Se luce né pace avrò/andrò errando/tra boschi e mare/lungo la pianura…». In Silenzio e pace: «Tu come il mare/calma e ribelle/mi desto a te vicino/sotto il cielo terso/d’azzurro intriso…». Così pure in Momenti: «Vieni attonito son perduto/e accorcia la mia vita/vieni dal mare muto/senza più baci/senza più suoni…». E in Momenti attesi: «io e te vicini/ascoltiamo la dolce musica / delle onde».
Qualche richiamo a certi scritti pasoliniani ci porta la descrizione della bellezza delle lucciole in Immagini: «…ma quando la luna/manda sprazzi di luce/ti rivedi all’improvviso/a piedi nudi/rincorrere le lucciole/lungo i prati verdi…». Nelle poesie in lingua italiana, Spagnol si prova a delineare con i suoi versi le figure di alcune persone, radicate per così dire nel contesto della natura, come Nonna Maria, Bruno il pescatore o Cesarino con la sua «barca antica», piena di simboli, anch’essi consentanei a contesti naturali come il mare.
Nelle ultime poesie A mia moglie, la vena poetica si stempera, è giusto dirlo, ma restano come immagini suggestive ed evocative alcuni squarci che ci riportano al Tonuti ragazzo, come nella poesia Notte: «Sento ridere/ridere sempre più forte/e più lontano./ Non so se i miei vent’anni/sono un grido/questa sera/o un riso/lontanissimo». Un giovane che si è fatto sempre più ardito, come nell’ode Dialogo: «Bocca fresca di rugiada/mi si bruciano le labbra/se non ti bacio».
E ci piace proprio finire con questa parola magica, amata da Pasolini e da Tonuti, rugiada che nella bella lingua friulana acquista suoni e sfumature decisamente più ricche e poetiche e diventa rosada. Che, oltretutto, si trova anche nel titolo della bella silloge di Spagnol, edita dalla Società Filologica Friulana.