Sullo scaffale. PPP e la Roma “paradiso” del dopoguerra in un libro di Stefano Malatesta

Una vita fatta di incontri, scoperte, viaggi, amicizie. E di generosità. Ecco la Roma che non c’è più, quella che poteva competere con Parigi, quella che era  uscita dal fascismo ed era  assetata di vita, al traino della locomotiva del cinema. È la capitale perduta di anni formidabili in cui visse anche Pasolini, insieme a schiere di artisti, cineasti e attori in cerca di fama. In pagine intrise di malinconia ironica, in cui l’aneddoto diventa letteratura, ce la racconta la penna acuta del giornalista Stefano Malatesta, autore del libro Quando Roma era un paradiso, sul quale pubblichiamo due recensioni. (af) 

"Quando Roma era un paradiso" di Stefano Malatesta. Copertina
“Quando Roma era un paradiso” di Stefano Malatesta. Copertina

Quando Roma era un paradiso”, nei ricordi di Stefano Malatesta
di Gennaro Malgieri

www.blitzquotidiano.it – 9 agosto 2016

Può sembrare strano, perfino eccessivo, eppure Roma in un tempo non lontano sembrava (o era davvero) un paradiso. Usciva dalla guerra, dalla miseria, dall’occupazione; era stata attraversata da armate straniere, profanata da barbari, lordata da eccidi di indicibile crudeltà.
Ma dalla sua povertà aveva saputo tirarsi fuori e diventare appunto una città di vitale bellezza, splendida e seducente come sempre, incantatrice e trasgressiva, divertente e bizzarra. Era il set della “festa mobile” animata da cinematografari italiani e stranieri, parvenu e geni, cialtroni e galantuomini, miserabili e aristocratici. E tra loro si muovevano, accanto a scrittori e giornalisti capaci di raccontare la rinascita di una nazione martoriata, donne splendide e mantidi se non religiose, religiosamente comunque dedite al piacere.
Gli anni Cinquanta segnarono la nascita della Hollywood sul Tevere, e quel che si muoveva in quel dedalo di viuzze e di bar, erano eccessi letterari e timide prove d’autore destinate a diventare attrattive per registi e attori di tutto il mondo, oltre che per artisti di ogni genere che in quel teatro di antichità e modernità si perdevano volentieri come in una fiaba senza un finale.
Roma sembrava a chiunque, probabilmente anche a chi ci viveva da una vita, un’immensa trattoria, dai Castelli a Piazza del Popolo, allungandosi fino ad Ostia dove s’incontravano tutti, emergenti e aspiranti, decadenti e decaduti, attori senza avvenire e stelline del firmamento cinematografico che di lì a poco avrebbero conquistato il mondo della celluloide.
Tutti s’incontravano a Roma, crocevia di ambizioni e di gioie finalmente in grado di manifestarsi. E di quel coloratissimo universo, di fronte al quale perfino quello parigino scompariva, Stefano Malatesta, giornalista di lunghissimo corso, è oggi il narratore che lo fa rivivere in un libro dolcemente nostalgico, ironico e accattivante: Quando Roma era un paradiso, pubblicato da Skira (pp.138).
In esso rivivono Fellini e Pasolini, Rossellini e la Magnani, Orson Welles e Truman Capote, Cary Grant e Audrey Hepburn, Maurizio Arena e Titti di Savoia. È la Roma dell’adolescenza di Malatesta, senza dubbio. Ma è anche il palcoscenico sul quale si muove un’umanità variopinta, osservato con gli occhi indagatori di un “vecchio ragazzo” (oggi) che si nutriva delle immagini di quel rutilante mondo segnato da una voluttà di vivere senza limiti.
Scorrono tra i ricordi di Malatesta i protagonisti di una stagione irripetibile a lui particolarmente cari, alcuni dimenticati o relegati nella soffitta dove solitamente si ripongono materiali inservibili: Pico Cellini e Plinio De Martiis, il Puma e Tano Festa, Giorgio Franchetti e Gino de Dominicis, Eric Hebborn e Germano Lombardi, Kounellis e Sebastian Matta; soprattutto Valentino Zeichen, il poeta morto solo, povero ed emarginato agli inizi del luglio scorso. A lui Malatesta dedica righe affettuose, scanzonate e commoventi.
La Roma della Dolce vita e la Roma-Ricotta di Pasolini convivono in questo libro di memorie senza forzature, con naturalezza, rappresentando un’epoca nella quale era possibile veder fiorire speranze che nessuno immaginava dovessero prima o poi appassire. Ad osservarla oggi, a percorrerne le strade, ad indugiare davanti ai suoi monumenti, Roma non assomiglia per niente a quel “paradiso” che Malatesta ci ha raccontato. È rimasto un set, indubbiamente. Ma vi si gira un film dell’orrore firmato da molti registi che tutti noi siamo costretti a guardare, pagando peraltro un biglietto costosissimo.

Sul set di "Mamma Roma" (1962)
Sul set di “Mamma Roma” (1962)

Malatesta e la sua Roma “finita in un buco nero”
di Chiara Beria di Argentine

www.lastampa.it – 14 febbraio 2016

C’era una volta Roma, altro che le squallide vicende di Affittopoli. «Salvo d’Angelo, produttore di Fabiola, diretto da Alessandro Blasetti e costato una follia», narra Stefano Malatesta, «era riuscito ad affittare non si sa come Castel Sant’Angelo, dove aveva sistemato il suo studio. Guidava una grande macchina bianca, vestiva solo con abiti bianchi e qualcuno lo scambiava per il papa».
E ancora. In quella città, che dopo l’adunate mussoliniane, la guerra e l’estrema indigenza si scopriva antifascista e assai amerikana («In brevissimo tempo sparirono le insegne più vistose del regime… dalle parti di piazza Venezia erano comparsi immensi cartelloni che dicevano “Welcome” ma lungo il corso altri manifesti di benvenuto presi dal deposito sbagliato dicevano in carattere gotico “Willkommen”»),  i paraculi non erano quei furbastri capitolini da trita aneddotica nordista. «Paraculo», spiega Malatesta, «viene dalle imbottiture dei calzoni che le mamme previdenti preparavano ai loro figlioli, ragazzini di quattordici quindici anni e già distinti ladruncoli, specializzati nel furto con salto dei camion stracarichi di merci».
Nell’altro secolo in quella meravigliosa capitale d’Italia senza mafia, supertraffico, guano e sushi («Roma era ancora padrona delle sue piazze, le fontane, i parchi, i lungoteveri ombrosi, le trattorie con i pergolati») in via Margutta e dintorni si ritrovavano folle d’artisti: «Nemmeno nella Parigi dei tempi d’oro c’erano stati 4 mila pittori che lavorassero contemporaneamente».
Non solo. Ai molti, nostri grandi registi – «Rossellini, Visconti, De Sica, Fellini loro erano i cineasti… poi c’erano i cinematografari, personaggi immortalati dalla celebre battuta di Ennio Flaiano: “Si fa il film, certo, certissimo, anzi probabile” – si erano aggiunti celebri star e autori stranieri». C’erano Orson Welles, Tennessee Williams, Truman Capote e Gore Vidal che abitava in via di Torre Argentina; nei bar di via Veneto si sbronzavano Humphrey Bogart e John Huston; Clark Gable si faceva fare le camicie da Battistoni e Cary Grant le cravatte da Franceschini». La moglie del leader comunista che di nascosto ordinava vestiti da Cappucci, il noto critico che rubò della coca a Schifano, qualche poeta e molti vitelloni. Ha scelto come titolo una frase dell’artista Cy Twombly – Quando Roma era un paradiso– il giornalista e scrittore Stefano Malatesta per il suo nuovo libro, edito da Skira, scritto con rara ironia e ricco di affascinanti e divertenti ricordi in tempi di banali slogan sulla decadenza della capitale. «La Roma di oggi sembra così lontana e diversa da quella di ieri da far pensare che era una Roma inventata. Quasi una leggenda metropolitana. Ho scritto questo libro proprio per dire prima di tutto a me stesso che non l’ho sognata», dice Malatesta, romano da generazioni che non ha mai amato certi palazzi (L’armata Caltagirone, è un suo saggio di successo sulla stirpe di potenti costruttori). Tra i fondatori del quotidiano “la Repubblica”, Stefano Malatesta aveva presto saputo conquistare il suo direttore, Eugenio Scalfari. «Lui diceva che avrebbe voluto scrivere come me. In realtà, ho imparato tutto da lui, anche che per narrare bisogna usare del sex appeal! Quando morì Berlinguer scrissi il commento, ma stare in Parlamento mi faceva vomitare. Scalfari si convinse e ci mandò Paolo Mieli. Così, per 20 magnifici anni ho fatto l’inviato in tutto il mondo», sorride Stefano che con i suoi bei libri di viaggio ha vinto tra i tanti premi anche il Chatwin. Infiniti deserti e selve amazzoniche.
Infine, Roma. Dice Malatesta: «Tutte le città cambiano ma Roma è scomparsa. E’ come se fosse finita in un buco nero. I colpevoli? Fare dei nomi è troppo semplice. Non solo Roma ma tante nostre città così ricche di storia e capolavori non hanno amministratori all’altezza. Diamo la colpa al Fato!». Di certo, il destino ha colpito duro Malatesta. «La mia malattia? Dicono che sono un eroe. Io l’ignoro», risponde Stefano da tempo anche stimato pittore. «Però quando dalla finestra guardo chi fa la mia passeggiata (detesto il termine trekking) preferita a Roma, da Trastevere a Villa Pamphili, ammetto che provo un po’ d’invidia».

[info_box title=”Stefano Malatesta” image=”” animate=””](Roma, 1940) è un giornalista, scrittore e pittore italiano. Laureato in Scienze politiche, ha svolto la professione di giornalista di nera, documentarista e inviato di guerra, seguendo  anche il golpe di Pinochet in Cile per “Panorama” e la guerra tra Iran e Iraq per “la Repubblica”. È stato direttore artistico del Festival della Letteratura di Viaggio ( 24-27 settembre 2009) ed è pittore: nel 2007 le sue opere furono esposte a Roma nella mostra Femmine e Paesaggi. Ha vinto il premio Chatwin («per le sue doti di grande narratore capace di interpretare l’anima di luoghi e paesaggi»).
Tra i suoi libri, Il napoletano che domò gli afghani (2002), Il Grande Mare di Sabbia (2006), La pescatrice del Platani e altri imprevisti siciliani (2011), tutti pubblicati da Neri Pozza.[/info_box]