Sullo scaffale. “Orientalismo eretico” di Luca Caminati

Uscito nel 2007, Orientalismo eretico di Luca Caminati è una rilettura dell’opera cinematografica e dell’ideologia di Pier Paolo Pasolini alla luce del suo rapporto con l’Oriente. Attraverso l’analisi dei documentari indiani e africani meno noti fino ad arrivare a Edipo re, lo studio di Caminati mette a confronto critica testuale, teoria postcoloniale, filmologia e cultural studies, prendendo a “campione” l’artista che più di ogni altro aveva visto e previsto la necessità del confronto con l’altro e l’altrove. Già nei primi anni sessanta Pasolini, all’interno della sua ricerca personale e politica, intuiva la necessità di confrontarsi con la tradizione orientalista da un lato e con la concreta analisi dei problemi socioeconomici del Terzo Mondo dall’altro.
In Sopralluoghi in Palestina (1963-64) e Appunti per un poema sul Terzo Mondo Pasolini sperimenta una nuova tecnica di indagine della realtà, che potremmo chiamare artistico – etnografica. Per la ricerca delle location palestinesi de Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini si fece accompagnare da un cameraman e due sacerdoti con cui era in dialogo da anni, produsse molto materiale che, una volta tornato a Roma, montò con la sua voce fuoricampo e parti di conversazione con don Andrea Piroddi Carraro, facendone una sorta di diario di viaggio ricco di riflessioni sulla natura del sacro.

Copertina Orientalismo
La pratica filmica degli “appunti” ha la funzione di permettere a Pasolini il diretto intervento rivoluzionario, superando i comuni stilemi del cinema, preferendo la forza dei contenuti al rigore stilistico, di cui – evidentemente – queste opere non sono particolarmente ricche. La tecnica degli “appunti”, nota Caminati, permette così a Pasolini di imporre uno sguardo sul Terzo Mondo senza perdere il contatto con la realtà del soggetto rappresentato (gli appunti vanno quindi interpretati secondo l’idea di una pedagogia rivoluzionaria).
Allo stesso modo, gli Appunti e i Sopralluoghi sono incrocio tra varie convenzioni filmiche: non solo fra due monti, quello scritto e quello visuale (come teorizzato in La sceneggiatura come “struttura che vuole essere altra struttura”) ma forme vicine all’«opera aperta» (U. Eco). Per Pasolini si tratta di una poetica del “da farsi”: «sono opere che devono essere portate a termine dall’interprete nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente» (ancora Eco) Opere non “incompiute”, ma dalla struttura fluida, aperte come è aperto un dibattito, la cui soluzione derivi dalla partecipazione attiva e cosciente del pubblico (in una visione marxista e rivoluzionaria).
Nel ’68 sarà la volta di Appunti per un film sull’India, presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia, in cui è forte la tensione tra i registri artistico e documentaristico all’insegna della contaminazione visiva: un pastiche in cui realtà e commento sulla realtà si fondono, tramite la tecnica del montaggio dialettico alla Ejzenstejn: gli Appunti si salvano dalla banalità di un poema romantico grazie a un forte impulso metalinguistico, creando al contrario un cinema fortemente razionale e intellettuale.
Pasolini costruirà con gli Appunti un film sul film, in cui i due film si inseguono, si intrecciano. I due stili si sovrappongo, documentario e prove per la location, come nella quarta scena, in cui Pasolini intervista un vero maharajah e sua moglie: la coppia rappresenta la mediocrità della nuova borghesia indiana, che Pasolini disprezza, intrappolata in una tensione verso l’Europa e la volontà di restare attaccati alla tradizione. Alla mediocrità borghese Pasolini contrapporrà la bellezza e la realtà di un giovane preso per la strada, affermando che vorrebbe lui per il personaggio del marajah.
L’esperimento indiano verrà riprodotto l’anno seguente in un contesto africano, con la realizzazione degli Appunti per un’Orestiade africana (1969) ideati durante la lavorazione di Medea, in viaggio fra Uganda e Tanzania alla ricerca del set per un nuovo progetto: un’Orestiade da Eschilo da girarsi in Africa, sfruttando le analogie tra la scoperta della democrazia fatta dalla civiltà arcaica greca e la scoperta della democrazia della società tribale africana.
Il lungometraggio non vedrà mai luce, ma resterà questo documentario RAI presentato alla mostra del cinema di Venezia del 1973. L’opera è composta da tre parti fluide che si intersecano e si avvicendano tra loro: nella prima vediamo la ricerca di personaggi e location da parte di Pasolini in Africa, nella seconda la prima parte viene commentata e visionata da un gruppo di studenti africani dell’università di Roma, nella terza Pasolini sperimenta una tragedia greca a Roma usando cantanti jazz africani. Pasolini aggiunge inoltre in sede di montaggio immagini tratte da reportage sulle guerre civili africane.
L’attenzione etnografica si sposterà in secondo piano nei lungometraggi. Apparentemente il più terzomondista dei film di Pasolini, Il fiore delle Mille e una notte, si perde nel gusto per il fabulare, la decorazione ricercata ed esotica, finendo per essere un esperimento narrativo “chiuso”. Il film è girato in fretta e in furia (soli due mesi con mezzo mondo come location): il sentimento che lascia nello spettatore è un passo indietro rispetto alla pedagogia rivoluzionaria che animava le opere “da farsi” e l’Edipo, ad esempio.
La vera nota d’interesse del film è il rifiuto della prospettiva, nel tentativo di riprodurre lo stile delle miniature indiane, andando contro le norme della prospettiva occidentale quattrocentesca attraverso l’uso di lenti appiattenti e altre procedure di messa in scena. Più interessante del film è la sceneggiatura, molto diversa dal risultato filmico, che parte con una masturbazione collettiva di quattro ragazzi in jeans e maglietta alla periferia del Cairo: le visioni a occhi aperti dei ragazzi eccitati sono le storie delle Mille e una notte, vi è da parte di Pasolini la scelta di moltiplicare Sheherazade trasformandola in quattro sottoproletari arabi, con una geniale inversione sociale e di genere. Pasolini sostituisce all’immagine della donna un’immagine di forte significato sociale e politico: la bella Sheherazade ha una nuova coscienza di classe e una nuova concezione del sesso.