“Mille e una Callas” (Quodlibet, 2016) , un libro per la “Divina” Medea amata da Pasolini

L’uscita per Quodlibet (2016) del libro Mille e una Callas. Voci e studi, curato da Luca Aversano e Jacopo Pellegrini, dà il destro a Andrea Cortellessa  per un brillante viaggio nel “mito” della Divina, di cui ricercare le ragioni in prospettiva storica non meno che del costume. Mito disperato di separazione tra corpo e voce (ma anche  nella  stessa ugola “mostruosa”) su cui pose l’accento anche il Pasolini poeta nei versi che nella raccolta Trasumanar e organizzar compongono una sorta di canzoniere a sé in dedica all’amica Maria, mitica Medea e creatura di un amore impossibile .
L’articolo di Cortellessa, già uscito in versione più breve il 3 gennaio 2017 su “La Stampa”, è stato ripreso in forma integrale l’11 gennaio sul sito www.leparoleelecose.it.  

Maria Callas, da un vuoto nel cosmo
di Andrea Cortellessa
 

www.leparoleelecose.it – 11 gennaio 2017

Si sa: quando la fama di un artista cresce di proporzioni, o meglio salta di piano, sino ad assurgere allo status di “mito”, schermo di proiezione universale, si danno due possibili atteggiamenti. O quel mito lo si cavalca, impunemente, lo si alimenta e se ne resta insieme vittime, finendo per cancellare la sostanza stessa di quell’arte, ridotta a mero sfondo della leggenda biografica; oppure lo si “demistifica” – come andava di moda dire una volta – ricorrendo agli strumenti della filologia, della critica, dello spoglio documentario. E con ciò, spesso, lo si ricopre di polvere. Rappresentava una sfida ardua, dunque, il gran libro che su Maria Callas – in vista del quarantennale della morte, il prossimo settembre – hanno curato Luca Aversano e Jacopo Pellegrini (Mille e una Callas. Voci e studi, Quodlibet, pp. 640): che ad apertura di pagina strabocca di passione fanatica e tuttavia, al contempo, s’impronta al più zelante rigore (si segnala, fra i tanti documentatissimi contributi, la preziosa bibliografia ragionata offerta da Pellegrini nelle non poche pagine conclusive del già non esile volume). Soprattutto indicando una terza via. Studiare – per l’appunto cogli strumenti della ricerca – come si sia formato, quel mito, e cosa significhi: quale esigenza profonda colmi, cioè, nell’immaginario collettivo.
Facendo dovuta parentesi della messe di raffinate analisi musicologiche (Pellegrini ci mostra per esempio, con robustezza storicistica che a torto s’immaginava discosta dalla callidità di scrittura che gli è propria, come l’esplosione “italiana” della Callas – dopo l’“archeologia” greca di Anna Maria Cecilia Sophia Kalogeropolou: sulla quale finalmente, ora, si può sapere di più – s’intrecci colla Rossini Reinaissance: episodio forse decisivo, non solo in ambito musicale, nell’evolvere del gusto secondonovecentesco), è dunque alla seconda parte del volume – che tanti contributi dedica alla “mitologia”, appunto – che ci si rivolge golosi. Qui troviamo i ricordi di amici, complici, testimoni illustri (come quello, purtroppo postumo, di Paolo Poli; e poi quelli di Piero Tosi, Franca Valeri, fra gli altri bellissimo quello di William Weaver).

Maria Callas
Maria Callas

E poi i saggi degli studiosi di cinema, letteratura, teatro, danza, moda, televisione eccetera. Di grande interesse, fra le altre, la riflessione di Giorgio Biancorosso sulla funzione decisiva, nella mitopoiesi, del repertorio discografico; Stefania Parigi, poi, illustra da par suo la collaborazione con Pier Paolo Pasolini alla Medea cinematografica del ‘69 (l’anno dopo, da un aereo delle «Olympic Airways», la Callas scrive a PPP un biglietto – reso noto nel 2011 dalla bella mostra al Vieusseux Pasolini. Dal Laboratorio, a cura di Antonella Giordano e Franco Zabagli – che suona: «Caro, ti scrivo dalle nuvole. Sembra proprio un tappeto bello, soffice da poterci camminare sopra. Per dove? – mah?»; l’anno ancora seguente risponderà Pasolini, in Trasumanar e organizzar, parlando di un «vuoto nel cosmo» dal quale proveniva la voce dell’amica; nemmeno sette anni dopo né l’una né l’altro, entrambi poco più che cinquantenni, sarebbero più stati di questo mondo).
In tutti i campi si registra – secondo un bon mot, a quanto pare, dovuto a Franco Zeffirelli (per parte sua autore, nel 2002, di un non memorabile Callas forever) – un «a.C.» e un «d.C.»: dopo l’epifania di Callas, cioè, più nulla è stato lo stesso. Il mito letterario, per esempio, è quanto mai nutrito. Agli abbastanza indecenti biopics più o meno romanzati (pure utili da ripercorrere, peraltro, in qualità di sintomi: lo fa Paolo Bono) fanno da contraltare presenze tanto più discrete quanto più rilevanti, da Ingeborg Bachmann ad Antonio Moresco passando per Eric-Emmanuel Schmitt. La più gravida di futuro restando però, probabilmente, la funzione di “innesco” che nell’Anonimo lombardo, primo e maggiore romanzo di Alberto Arbasino, svolge l’appunto “mitica” Medea scaligera diretta, nel ’53, dal giovane Bernstein  (e non manca, a suggello d’una lunga fedeltà, un memoir dello stesso Arbasino: al quale si deve pure il titolo del volume, parafrasi del grande Giorgio Vigolo).

Maria Callas in "Medea" di Pasolini. Foto di Mimmo Cattarinich
Maria Callas in “Medea” di Pasolini. Foto di Mimmo Cattarinich

Ma ci sono, poi, le tante poesie dedicate alla Callas dal Pasolini di Trasumanar e organizzar. Belle non si posson dire, ma – come spesso gli “articoli in versi” del loro autore – molto ci fanno capire. In quella che s’intitola Timor di me?, per esempio, PPP allude al «corpo separato»: forse vero traît d’union, nell’amore impossibile fra i due. Separato fu il corpo della Callas, che sacrificò la propria voce alla riscoperta – tramite una folle, pubblicizzatissima dieta, ossessionata dal modello spettrale dell’Audrey Hepburn di Vacanze romane … – del proprio fisico. Quella corporeità che, da un certo momento in avanti, si prese il proscenio: non solo nella vita ma, in primo luogo, nell’arte: con una “seconda maniera” di travolgente attorialità in cui, teste Arbasino, «le sue Norme, le sue Medee indimenticabili, parevano uscire fiammeggianti e dannate e altere da testi tedeschi terribili, che indubbiamente lei non aveva mai letto. E questo è vero genio» (impagabile la polemica del ’55 – ricostruita in modo scoppiettante da Franco Serpa – sul vulcanico incedere di Medea al vecchio Costanzi di Roma, che vide contrapposti da un lato Beniamino Dal Fabbro e il conservatore critico del “ Tempo”, Guido Pannain – «Medea è donna e maga, non una Mènade» –, dall’altro Mario Praz ed Ettore Paratore – sic! –, soggiogati da quel risveglio del «dionisiaco sotto la superficie levigata della Grecia apollinea» – per dirla con Franco Ruffini). Quella disperata vitalità («Ella cantò, come una disperata, non risparmiandosi, / capace di morire, malgrado lo studio e i calcoli»: Pasolini) si disperava, soprattutto, per l’essere così precocemente abbandonata dal proprio formidabile strumento sonoro (pateticamente irresistibile l’immagine – cavalcata senza pietà da Zeffirelli – di Maria al tramonto che, seppellita nel buen retiro parigino, ossessiva riascolta – con nostalgia da Krapp beckettiano – i fiammeggianti bootlegs delle sue prorompenti performance d’antan).
Ma “separata”, in un certo senso, era sin dall’inizio quella stessa sua voce impareggiabile: capace di cambiare timbro quando saliva nel «cielo» angelico dei sovracuti provenendo dagli espressionistici inferi del registro basso. Voce «enciclopedica», la definisce Marco Beghelli (mutuando una definizione data, a suo tempo, di quella non meno mitica di Giuditta Pasta): un contralto e un soprano in “mostruosa” coabitazione nell’«alchimia di registri» (Giorgio Vigolo) della medesima ugola. Topico il paragone avicolo, per i grandi cantanti; ma un paio di volte (una in un a parte dell’Eleganza è frigida) Goffredo Parise, scarsissimo melomane ma attento sempre alle forme ricche e varie della bellezza teratologica, lo ha impiegato – rievocando il Barbiere alla Scala del ‘56, in occasione del quale poté osservare da vicino il “mostro” in azione – in termini di darwiniana «anatomia meccanica, fisica» (All’ascolto, «Playboy», ottobre 1980):

I miei occhi erano letteralmente ipnotizzati dai movimenti del petto, della gola, delle labbra della Callas. Al tempo stesso, ma in subordine, il mio udito era attratto dai suoi suoni che uscivano dalle labbra. Molto spesso mi è capitato di essere attratto, in un modo simile, dallo spettacolo di un canarino che canta: petto, becco, ugola. Ora la Callas, simile a un canarino prodigioso e gigantesco muoveva il petto allo stesso modo: gonfiava e sgonfiava con grazia il collo e dal petto, o meglio da tutto l’apparato gastropolmonare, e trachea e laringe che purtroppo non potevo vedere ma che avrei dato non so cosa per poter vedere all’interno come un laringoiatra col suo specchietto, da tutti quei movimenti, ripeto, di rigonfiamento e sgonfiamento, di tensione, a bocca aperta ma con labbra mobili, uscivano suoni in forma di parola. Essendo completamente all’oscuro delle regole anatomico-canore ero pieno di meraviglia nel sentire che uscivano suoni in forma di parola quando le labbra non si chiudevano mai, né si socchiudevano, ma, sempre aperte come il becco di un canarino, emettevano suoni e gorgheggi acutissimi in forma di parola. Ricordo che pensai a un ventriloquo, che il fenomeno doveva essere in qualche modo simile. Ero in uno stato di fortissima tensione che durò tutto il tempo dei suoi gorgheggi. Quasi mi veniva da atteggiare il ventre, il petto, i polmoni, le labbra come lei faceva trascinato da una irresistibile forza-mimetica. Naturalmente i miei movimenti risultavano afoni, quasi mi potessi appropriare, mediante la pura meccanica e in forma soltanto intellettuale, dei suoi suoni, dei suoi gorgheggi. Il fenomeno durò quanto l’opera e mi lasciò spossato. Fu Eros? Certamente no; fu anatomia meccanica, fisica, ornitologia, forse perfino filosofia che però era la traduzione di una forte tensione erotica.

Forse proprio a questa “erotica” mostruosità, a questa doppiezza da sirena, si deve il perdurante culto feroce che da sempre le tributa – vero mito camp – l’universo gay (assai bene illustrato, nel libro, da Marco Emanuele). «Mai eguale a se stessa», la definì nel ’55 Eugenio Montale: vera bellezza cangiante, come quella da lui tradotta da Hopkins, la sua luce oscura ha illuminato un secolo.

*Foto di copertina: Elio Ciol, Casarsa della Delizia, 1969