Intervista a Francesco Ricci, autore di “Pier Paolo, un figlio, un fratello”

Francesco Ricci, docente e scrittore,  racconta in una intervista a Tiziana Nocentini le ragioni profonde che lo hanno spinto a scrivere il monologo Pier Paolo, un figlio, un fratello (Nuova Immagine Editrice, 2016), che scava nel tormento interiore del giovane poeta di Casarsa, uomo “fragile” segnato dall’amore assoluto per la madre e dalla scomparsa tragica del fratello Guido.  

Una lettura da non perdere: “Pier Paolo, un figlio, un fratello” di Francesco Ricci
di Tiziana Nocentini

www.arezzonotizie.it – 9 agosto 2016

Che cosa ha spinto un docente di letteratura italiana a dedicare un volume a Pasolini?
La ragione è duplice. Da un lato, Pasolini è la figura di intellettuale che sento più vicina a me, per il suo essere “eretico”, “corsaro”, “dissonante”, mai pacificante né pacificato. Dall’altro, Pasolini è stato uno dei maggiori artisti del Novecento, che ha lasciato una traccia profondissima come poeta, come narratore, come regista, come critico letterario. La grandezza di Pasolini, infatti, non è legata soltanto agli esordi friulani di Poesie a Casarsa, come qualche studioso ci ha voluto far credere, ma anche a Ragazzi di vita, a Le ceneri di Gramsci, ad Amado mio, scritto nel 1948 e, al pari di Petrolio, pubblicato postumo, a Descrizioni di descrizioni, oltre che a film come Accattone e Il Vangelo secondo Matteo.

"Pier Paolo, un figlio, un fratello" di Francesco Ricci. Copertina
“Pier Paolo, un figlio, un fratello” di Francesco Ricci. Copertina

Nel titolo compaiono le parole figlio, fratello. Una nuova immagine di Pasolini, inedita. Per quale motivo ha voluto porre attenzione su questi aspetti?
Vede, una delle “figure umane” che amo di più è sicuramente quella della madre col figlio, in pittura, in letteratura, ma anche nella vita quotidiana. Mi capita spesso, infatti, di camminare per la strada e di arrestarmi all’improvviso per contemplare una mamma che tiene per mano un bambino. Ricordo che, quando mi trovavo a Gerusalemme, questa figura era divenuta per me quasi un’ossessione. Per quanto concerne Pasolini, era da tempo che gli giravo intorno. Sentivo che si stava avvicinando il momento di scrivere un libro interamente dedicato a lui. Non avevo in animo, però, di scrivere un saggio. Capitoli di saggi critici glieli avevo già dedicati, sia in Un inverno in versi sia in Da ogni dove e in nessun luogo. Stavolta, invece, desideravo muovermi su un terreno diverso, quello delle cosiddette “scritture di frontiera”, quelle scritture, cioè, che si situano a metà strada tra il romanzo e la biografia, l’inchiesta, l’articolo di giornale, il saggio. Dopo la visione del bellissimo film di David Grieco, La macchinazione, mi convinsi che avrei dovuto strutturare Pier Paolo, un figlio, un fratello come un monologo immaginario (scritto, però, a partire da un ricco materiale documentario, costituito da liriche, romanzi, lettere, diari, interviste), pensato nel corso del viaggio da Casarsa a Roma, che Pasolini realmente compì il 28 gennaio del 1950. A quel punto mi venne quasi naturale recuperare tanto la “figura” della madre col figlio quanto quella, che non mi è meno cara, della coppia di fratelli. Oltretutto, certi nodi esistenziali di Pasolini, che si sono poi tradotti anche in scelte di stile, possono essere compresi, a mio avviso, unicamente se si tiene presente la natura del legame che lo unì alla madre, Susanna, e al fratello, Guido.

Dal libro emerge la fragilità di Pier Paolo Pasolini ma anche il suo grande amore per la madre. Perché ha voluto evidenziare questi elementi?
Pasolini non fu soltanto un uomo “buono, candido e aspro”, come lo definì Gianni Borgna nell’orazione funebre tenuta a Campo de’ Fiori il 5 novembre 1975, ma anche un uomo fragile, per molti aspetti fragile. Il suo amore per la madre, amore assoluto, totalizzante, a me ha sempre ricordato una fragilità – quella dello scrittore – che si prende cura, che si fa carico di un’altra fragilità – quella della madre – già segnata dal trascorrere del tempo e, soprattutto, dalla perdita di un figlio, Guido, ucciso appena diciannovenne dai partigiani filotitini. Credo che oggi ci sia molto bisogno di non nascondere, specie ai più giovani, la fragilità, di ricordare loro che essa costituisce uno dei principali tratti costitutivi dell’essere umano. La verità non risiede, non può risiedere, nell’uomo di successo, sicuro di sé, che consegue sempre gli obiettivi prefissati, che non conosce tormenti o dubbi, che non ritorna mai sopra i suoi passi. La verità, piuttosto, è nell’errore e nella volontà di superare l’errore, nella caduta, e nello sforzo per rialzare chi cade, si tratti di noi stessi o di un’altra persona. Siamo tutti creature di un giorno, come ci ricorda la saggezza degli antichi, e anche per questo dobbiamo aiutarci a vicenda. La fragilità, la caducità ci appartengono e ci definiscono. Riconoscerlo è la condizione indispensabile per arginare l’egoismo e l’individualismo esasperato della nostra società.

Pasolini, uomo tormentato e fuori dagli schemi, è una figura molto attuale che suscita sempre interesse. A suo giudizio dove lo possiamo trovare nel quotidiano che ognuno di noi affronta? Quanto ha influito la figura di Pasolini nella sua formazione e nella sua crescita?
Io ho conosciuto Pasolini piuttosto tardi. Quando lui è morto, infatti, avevo solamente dieci anni. Certo, ricordo bene, in quell’occasione, il dolore di mio padre, che ha sempre amato di Pasolini soprattutto Ragazzi di vita e gli Scritti corsari. Ma né alla scuola media né al liceo classico lessi una sola pagina dello scrittore bolognese. L’incontro con l’opera di Pasolini fu successivo, avvenne ai tempi dell’Università e fu l’inizio di una lunga storia d’amore. Tra i tanti insegnamenti che ho ricevuto, rileggendo integralmente la sua opera, mi piace ricordarne almeno tre: l’idea che non si debba mai scendere a compromessi col potere, col potere del Palazzo; la convinzione che il nome di intellettuale vada riservato soltanto a chi ha il coraggio ogni volta di metterci la faccia, lasciandosi guidare dall’amore per la verità (e non dal tornaconto personale) ed evitando atteggiamenti servili e cortigiani; la certezza, da ultimo, che progresso e sviluppo sono parole che schiudono orizzonti molto lontani fra di loro. 

Francesco Ricci
Francesco Ricci