In edicola con “l’Espresso” tutto il cinema di PPP

Per la prima volta esce in edicola la filmografia completa di Pasolini. E’ questa l’importante iniziativa promossa dal Gruppo editoriale “l’Espresso”-“la Repubblica” che pubblica in una imperdibile collana di 19 Dvd  la ricca produzione cinematografica del grande poeta-cineasta, scomparso quaranta anni fa. La prima uscita è avvenuta il 14 dicembre 2015 con il film Accattone, straordinario esordio alla regia, che per l’occasione è accompagnato dalla testimonianza inedita di Dacia Maraini. Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio e tanti altri nomi illustri della cultura e dello spettacolo commenteranno le successive uscite a cadenza settimanale, che si concluderanno il 18 aprile 2016 con il docufilm La voce di Pasolini di Mario Sesti e Matteo Cerami.
Sul cinema di Pasolini pubblichiamo una analisi sintetica di Emiliano Morreale, docente all’Università di Torino e conservatore alla Cineteca Nazionale.

Pasolini in presa diretta
di Emiliano Morreale

http://espresso.repubblica.it – 16 dicembre 2015

Pier Paolo Pasolini è stato celebrato per i quarant’anni della morte in mille maniere, ricordando tante facce della sua attività di artista e di intellettuale. Eppure, se la sua memoria rimane oggi così viva (pure in forme ambigue, forse anche per esorcizzare la forza scandalosa delle sue parole e delle sue opere), è soprattutto per due aspetti.
Da un lato, il profetico saggista degli ultimi anni, quello di Scritti corsari, Lettere luterane ma anche Descrizioni di descrizioni. Dall’altro, l’inventore di un cinema potente e riconoscibile,  specie nei capolavori degli anni ’60, e a cominciare proprio dal suo folgorante primo film. Accattone è uno dei grandi esordi del cinema italiano e della storia del cinema. Il ventenne Bernardo Bertolucci, aiuto regista sul set, scriverà decenni dopo: «Dalla mia prima volta sul set vero di un film vero, mi aspettavo di tutto, ma non di assistere alla nascita del cinema».
Quel film infatti reinventa la grammatica del cinema, recupera uno stile primitivo e coltissimo, fitto di riferimenti alla pittura quattrocentesca (Masaccio anzitutto) e tendente a quello che lui stesso definiva «naturalismo espressionistico».

Pasolini sul set di "Accattone" (1961).
Pasolini sul set di “Accattone”. A destra, Bernardo Bertolucci (1961).

Pasolini si era avvicinato per tappe al cinema: come comparsa, sceneggiatore, attore. In quegli anni, sono in molti gli scrittori che sperimentano il cinema. Ma per lui non si tratterà di una parentesi: anzi, proprio lì raggiungerà alcuni dei vertici della propria arte, e la sua importanza nella storia del cinema sarà enorme.
Tra i grandi registi, infatti, non molti hanno il privilegio di inventare un mondo o uno sguardo nuovi. Questi pochissimi, a volte, diventano aggettivi: in Italia Rossellini, Fellini e appunto Pasolini. Nei decenni, l’etichetta di “pasoliniano” sarà affibbiata ai registi più diversi, a cominciare da tutti i cantori di periferie. Non solo in Italia (da Claudio Caligari a Ciprì e Maresco), ma anche per molti registi del Terzo Mondo, per i quali un film come Il Vangelo secondo Matteo fu subito familiare e ispiratore.
Il cinema renderà Pasolini molto più ricco, famoso e odiato, ma soprattutto diventerà il polo d’attrazione di tutta la sua opera, il momento in cui il suo confronto con la realtà trova un fulcro. Il dialetto friulano e il mimetismo romanesco dei romanzi, i tentativi di imitare i procedimenti cinematografici in certi racconti: tutto questo precipita in Accattone e nei film successivi. «Il cinema mi offriva, grazie alla sua analogia (…) con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo»: così ricorderà il regista.
Si può dividere il cinema di Pasolini in alcune fasi: all’apice del boom, i primi film in bianco e nero sul sottoproletariato romano (da Accattone a La ricotta); a metà degli anni ’60, una fase in cui i luoghi e i moduli di quel cinema sono piegati a nuove esigenze (dal Vangelo secondo Matteo a Uccellacci e uccellini, agli episodi con Totò); a cavallo del ’68, il confronto col mito e col simbolo; infine la Trilogia della vita, seguita e ribaltata da Salò.
Si tratta ovviamente di una semplificazione, perché, ad esempio, nei primi anni c’erano progetti sull’Africa contemporanea (Il padre selvaggio), documentari di montaggio (La rabbia) o film-inchiesta (Comizi d’amore).
Ma in ogni caso Pasolini si muove dalla forza epica con cui vengono sacralizzati i sottoproletari e le borgate verso il film-saggio di Uccellacci e uccellini e verso sublimi episodi come Che cosa sono le nuvole?. Poi si allontana dal mondo delle borgate per cercare il sacro e la realtà nel Terzo Mondo, con la rilettura di miti greci dislocati in Italia ma anche in Turchia, Siria, Marocco (Edipo re, Medea), o affrontando la borghesia, ma con i moduli del grottesco o della parabola (Teorema, Porcile).
La cosiddetta “trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte) è l’ultimo disperato tentativo di trovare forme di umanità residua in un mondo pre-borghese e di allargare le frontiere di quel che si può mostrare sullo schermo, con un’esibizione dei corpi che incapperà ancora una volta nelle maglie della censura e della magistratura.
Un copione già noto: in pratica tutti i film di Pasolini avevano avuto problemi giudiziari e di censura, fin da Accattone (per il quale viene in pratica introdotto in Italia il divieto ai minori di 18 ani). Questo conflitto con il potere e le istituzioni più retrive, e il confronto quasi agonistico con pubblico e critica, deriva anche da tratto fondamentale della figura pasoliniana: la pedagogia. Pasolini è stato anzitutto un maestro, provocatore e polemico, inseparabile dal rapporto con un pubblico di volta in volta diversamente vissuto e immaginato.
Pasolini è un regista insieme teorico e istintivo. In alcuni scritti degli anni ’60 accompagna i suoi film con alcuni concetti fondamentali: la distinzione tra cinema di prosa e cinema di poesia, o il concetto di cinema come “lingua scritta della realtà”. Per lui l’elemento di base del cinema non è l’inquadratura, ma proprio i singoli elementi di realtà che la compongono: i corpi, i luoghi, le azioni. Questo implica una fiducia nella capacità del cinema di condurre a una realtà sacrale, quella naturale e pre-borghese: una sua realtà che contiene di per sé una forza di rivelazione e di opposizione. Man mano, però, questa fiducia verrà meno e oscillerà in varie forme, dal partito preso quasi ideologico della Trilogia a Salò, che è ormai la terribile negazione di una realtà naturale, salvifica, incorrotta.
La grande stagione del Pasolini regista termina secondo molti con il ’68; la stagione del Pasolini romanziere era terminata ancora prima, a parte il tormentato abbozzo di Petrolio. In quella fase però il Pasolini critico della società raggiunge il massimo di lucidità e di urgenza. E oggi è impossibile guardare a tutto il suo cinema senza aver presente, col senno di poi, le sue riflessioni degli ultimi anni.
Qualche settimana prima dell’omicidio, la televisione trasmette Accattone. E il regista commenta raggelato: «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta una popolazione. (…) Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la “grandiosa metropoli plebea”, avrei avuto l’impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. (…) Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo».
L’articolo è dell’8 ottobre, qualche settimana prima del suo omicidio.