Due libri recenti per Giorgio Caproni, il poeta “minatore” amico di Pasolini

Due libri recenti ricordano e studiano la figura e l’opera in versi di Giorgio Caproni,  poeta amico di Pasolini. Si tratta del libretto Sulla poesia (Lib. Italo Svevo, Trieste), in cui lo stesso Caproni esprime la sua concezione poetica, e del saggio di Elisa Donzelli Caproni e gli altri (Marsilio, 2016), attenta ricostruzione dei rapporti tra il poeta livornese e gli scrittori, non solo italiani, del suo tempo. 

Caproni, il poeta minatore: il nuovo libro fra conferenza e saggio
di Renato Minore

http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it – agosto 2017

Giorgio Caproni. Foto di Dino Ignani
Giorgio Caproni. Foto di Dino Ignani

«Batte profondo un tamburo. Sono arrivato al muro che viene detto futuro?». E’ difficile, in pratica impossibile, parafrasare il “senso”, o i “sensi”, di questi versi, tra gli ultimi di Giorgio Caproni, il poeta che ha vissuto una certa risonanza mediatica poiché una sua poesia è stata scelta da commentare nell’ultimo esame di maturità. Ma che valore ha la parafrasi della poesia? Leggiamo quello che pensava Caproni nel suo ultimo libro appena uscito Sulla poesia, recentissima iniziativa editoriale della Italo Svevo di Trieste, legata alla Gaffi di Roma, che ha pubblicato la conferenza del 1982 nella collana “Piccola biblioteca di letteratura inutile”. Le parole caproniane furono registrate su magnetofono da un attore e artista, Pietro Tondi, che circolava per reading, serate letterarie, quando proprio non entrava nelle case dei poeti stessi, e incideva ossessivamente su nastro, per salvare una memoria di eventi eccezionali che altrimenti sarebbero dimenticati per sempre.
A proposito della Divina Commedia, Caproni si dichiara ostile a ogni forma di interpretazione, di versione in prosa: Dante può essere letto anche soltanto come musica, era la sua idea fissa. Vale anche per lui, la sua poesia non è musicale, essa stessa è musica. Per questa ragione, resta solare e immediata, autentico dono rivelato istantaneamente, nella trasparenza di una dizione che fa collimare (fu Pasolini il primo a rivelarlo) con la linea necessariamente semplice del tono esclamativo il suo complesso modo di trasposizione sulla pagina, quasi di conoscenza della realtà.
A quel giudizio, Caproni teneva in modo particolare come del resto teneva all’amicizia con Pasolini, da lui tanto diverso se non opposto. Implicitamente lo conferma quando gli capitò di dire in una vera e propria dichiarazione di poetica: «La vita non è una cosa chiara, ma si può dire con parole chiare, anche sotto l’apparenza della leggerezza, della cantatina».
Faticò a imporsi Caproni per quello che poi si è rivelato, uno dei nostri massimi poeti del Novecento, senza mai venir meno a una necessità centrale, cioè «cantare e narrare insieme e, poi, narrare e continuare a cantare». Una linea all’apparenza troppo semplice, antinovecentista, la dimensione sociale è sentita fuori della storia e come privatizzata. Ma capita che lo scorrere carsico e difficilmente percettibile di una falda acquifera diventi l’essenziale alimento di una grande fiumana: così è stato per Caproni, dall’epoca in cui sembrava appartato cantore di un piccolo universo di mare e di vento alla successiva e tardiva glorificazione come poeta del silenzio di Dio.

Giogio Caproni e Pasolini
Giogio Caproni e Pasolini

La continuità tra le due immagini è appunto il dono, la rivelazione. Ma le vie con cui la poesia può abbagliare sono davvero infinite. Credo di non essere stato il solo ad aver scoperto Giorgio Caproni negli anni Sessanta, grazie a un incredibile “evento” televisivo, quello che gli diede la prima risonanza mediatica. Proprio nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo di un Sanremo (a quel tempo si poteva rischiare con l’audience, la trasmissione era Incontri con i poeti– purtroppo perduta negli archivi Rai – curata da Enzo Siciliano e presentata da Geno Pampaloni), apparve un omino timido timido che leggeva i versi dedicati alla madre, la più disarmante e intrigata situazione edipica della nostra poesia novecentesca: «Come scendeva fina e giovane/ le scale Annina! Mordendosi la catenina d’oro,/ usciva via, lasciando nel buio una scia di cipria, che non finiva».
Con i fruscii, i colpi di tosse, le esitazioni della diretta, quel poeta, quello straordinario poeta parlava con lo stesso candore di Genova e Livorno, le due sue città; ma, più di lui, parlavano i suoi versi di «chiari mattini della nostalgia», di latterie e di bar, di addii nella luce di giorni  trasparenti. Nella voce di Caproni s’intuiva la forza di convincimenti tenaci, una maschera di poeta che era gesto, suono, ragione. Lo straordinario (l’essenza stessa della poesia caproniana) era che tutto riusciva, immediatamente, a “passare”, anche attraverso la tv. Con rime e metri tradizionali, quell’“antico” poeta apparve tanto più “moderno” dei suoi colleghi più giovani, fin d’allora contagiati dal computer.
Per lui (leggiamo ora nella preziosa conversazione salvata da Pietro Tordi) il poeta è un “minatore” che si cala nelle gallerie dell’anima, oltre le differenze delle individualità, per giungere a quei «nodi di luce comuni a tutti». Inutile sottolineare il “puro narcisismo”, insistere sulle piccole miserie della propria biografia. Piuttosto, meglio inabissarsi in se stessi, verso la zona più profonda in cui «io è noi», dove dalla singolarità si passa alla pluralità: «la funzione sociale, civile della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo». Un vero protagonista della poesia europea del Novecento, Giorgio Caproni, come dimostra il saggio di Elisa Donzelli Caproni e gli altri (Marsilio, 2016) che raccoglie i risultati di un intenso lavoro di ricerca condotto all’interno di archivi italiani e stranieri.
È un libro sulla poesia di Giorgio Caproni ed è un libro su altri scrittori, artisti e intellettuali testimoni della eredità culturale di uno dei protagonisti della poesia. Altri protagonisti non solo italiani poiché sin da giovanissimo Caproni ebbe a che fare con contesti che superavano i confini nazionali. Da un lato grandi voci della poesia italiana: Mario Luzi, Vittorio Sereni, ma anche Libero Bigiaretti, Mario Mafai, Diego Valeri, Margherita Guidacci il cui dialogo con il poeta livornese viene scoperto o riletto alla luce delle carte ritrovate. Dall’altro, scrittori e intellettuali europei che, anche grazie all’esperienza di traduzione compiuta da Caproni, hanno giocato un ruolo decisivo nella definizione di grandi temi della poesia moderna: Pierre J. Jouve, Antonio Machado, Federico G. Lorca, René Char, Maurice Blanchot.
È nella biblioteca privata del poeta, e non solo qui, che Elisa Donzelli individua una serie di letture compiute nel tempo e spesso incentrate sulla figura della Bestia. Libri letti, riletti, dedicati, annotati, mostrano come uno dei motivi dominanti dell’ultimo Caproni (e della riflessione sul linguaggio in genere) affondi le sue radici in un passato lontano; perché fin dal 1935 Giorgio Caproni la Bestia l’aveva scoperta, tenuta d’occhio, studiata attraverso la voce e i libri degli altri.
Un saggio davvero fondamentale quello della Donzelli per comprendere la materia e la sostanza di quel versi che sono stati dati da commentare ai giovanissimi di questi anni e che sorprendevano e incantavano gli spettatori televisivi di cinquanta anni fa.