“Calderón” di PPP secondo Tiezzi. Riflessioni di Carlo Lei

La recente riproposta scenica al Teatro di Roma della tragedia Calderón, a cura della compagnia Lombardi/Tiezzi, ha stimolato il critico Carlo Lei ad alcune interessanti riflessioni sulla testualità drammaturgica pasoliniana, che, pur nella ridondanza verbale e in qualche punta di rigidezza dimostrativa, trova in Calderón uno dei vertici più alti.

Il palco di Pasolini. Considerazioni dal “Calderón” di Tiezzi
di Carlo Lei

www.klpteatro.it – 4 maggio 2016

Continua la lunga e fertile stagione pasoliniana al Teatro di Roma, con un Calderón di mano della compagnia Lombardi/Tiezzi, in scena fino all’8 maggio 2016. Uno spettacolo prima di tutto bello a vedersi, in cui si continua a sentire forte l’impronta di un teatro di mestiere nel senso più alto, di solidità, di sicuro dominio dei mezzi e di capace comunicativa.
Come è noto, Calderón fu l’unica opera teatrale di Pasolini a essere pubblicata l’autore in vita, da Garzanti nel ’73, come primo volume di una – più vagheggiata che progettata – opera omnia dei testi da palcoscenico. Il mostruoso novembre del ’75 troncò, fra le altre cose, anche questa.
La trama è abbastanza semplice da ricordare per sommi capi. Ambientata nella Spagna post-guerra civile e ispirata al celebre La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca scritta nel 1635, vede una donna, Rosaura, risvegliarsi per tre volte (quattro, puntualizzò Pasolini di fronte all’incomprensione di molti critici) in condizioni diverse, priva della memoria del suo passato, e della certezza se stia sognando o meno.
Inizialmente è una donna ricca di famiglia alto-borghese, poi una sottoproletaria, una piccolo-borghese; infine si ritrova in un lager.

Sandro Lombardi in "Calderòn", regia di Federico Tiezzi (2016)
Sandro Lombardi in “Calderòn”, regia di Federico Tiezzi (2016)

La regia di Federico Tiezzi, sfumando in scena lo iato fra terza e quarta parte, tende a identificare gli ultimi due momenti, forse a suggerire che lager ed esistenza piccolo-borghese possano in qualche modo sottendere qualcosa di comune. «La nevrotica – secondo le parole dello stesso autore- la quale si adatta alle varie fasi» viene di volta in volta invecchiata un po’, e dunque interpretata da un’attrice diversa: un’evoluzione di corpo e linguaggio scenico.
L’idea, che potrebbe sembrare traditrice, è invece riuscita poiché nonostante la variazione di costumi, contesti e persino dello stile recitativo, la continuità della vicenda non è rotta. La mantengono unitaria le tre pareti di livida ardesia che uniformano il contesto, il contenitore, la scatola (cranica?) dentro cui si alternano gli stati di coscienza e incoscienza.
Così la vita di Rosaura attraversa non il semplice corso di una vita, ma le epoche storiche. Lo sottolineano soprattutto i costumi, che a partire da un Seicento rilavorato di brillante nero e madreperla da Giovanna Buzzi e Lisa Rufini, e valorizzato dall’illuminazione così puntuale da sembrare perfetta di Gianni Pollini, giungono fino a un’epoca a grandi linee contemporanea.
La messinscena procede, parola per parola, aderente a un testo non breve, non semplice, non sempre esente da quella che oggi qualcuno potrebbe chiamare verbosità – ma non vogliamo star qui a discutere con leggerezza la “qualità” dell’opera pasoliniana…
Certo però in un anno benedetto, per una volta, dalla pratica delle ricorrenze con una qualità e quantità di testi del nostro, che hanno occupato e occupano i palchi di Roma, lavoro dopo lavoro si va chiarendo l’effettivo stato di vitalità dell’opera drammaturgica del poeta di Casarsa. Dell’opera drammaturgica in scena, specificamente, non solo su pagina – e non si mettano troppo in allarme i pasoliniani 2015/2016.
Questo Calderón può esserci utile allo scopo, se lo prendiamo in analisi nel dettaglio.
La forza della produzione romana sembra stia nei suoi elementi spettacolari; la sua debolezza in quelli letterari – e si perdoni l’eccessivo eclettismo teorico, ma per “letterari” non bisogna leggere “poetici”. Niente di nuovo.
La regia, la recitazione e tutta la messinscena, persino nei suoi elementi più minuti e pratici di scenotecnica, illuminotecnica, costume e macchineria, sanno incarnare perfettamente la sorpresa e la disperazione, il susseguirsi degli eventi e lo sviluppo del discorso scenico. Ma perdono invece di vivezza e forza, diventando quasi impotenti, quando onestamente e anche temerariamente il regista non vuole adoperarli per colmare lo spazio vuoto, vuoto in senso teatrale, che si riscontra quando il testo si sofferma sui distinguo teorici, sulle definizioni tecnico politiche di classe sociale, sull’autoposizionamento tassonomico ribattuto e talvolta ridondante dei personaggi, nel panorama di un’analisi secondo Marx.
Ancora: il palco brucia nell’ironia, specie in quella più cattiva (come nel personaggio del prete e in quello dell’intellettuale di sinistra filisteo e bohémien), si trasfigura nel lirismo di certi passaggi di poesia (il monologo finale di Rosaura, sorta di prefigurazione onirica speculare a quello che avvia il finale di Porcile), fa volteggiare su di sé con estro e genio gli strumenti teatrali nel lento affiorare di concetti e immagini (ovunque l’autore si sia accontentato dell’intuizione e abbia rifiutato la dichiarazione). Ma langue in altri momenti.
Tre altre considerazioni. La prima: sarebbe una tentazione troppo facile quella di adeguare il giudizio sul Pasolini drammaturgo a quello di chi provò a isolare il Brecht politico – o meglio la politica in Brecht, cioè la politica di Brecht – dal Brecht drammaturgo, arrischiandosi a epurare quello da questo. L’operazione non ha retto e non reggerebbe, perché, se in Brecht la politica era lo scheletro dell’invenzione, in Pasolini potremmo dire che ne è la muscolatura.
La seconda: è ancora troppo giovane la polemica innescata da chi ha bollato come “senza stile” e anticinematografico il cinema di Pasolini, tentando forse inconsapevolmente di aprire una discussione su linguaggi e poesia che avrebbe potuto essere terreno interessante, e che invece si è risolta in cagnara, come forse ci meritiamo.
La terza, che lega le prime due: non si tratta oggi di condannare come “datata” l’analisi marxista della società, giacché è tutto da dimostrare in sede teorica che sia così. Si tratta piuttosto di tornare a chiedersi se i più ‘convenienti’ mezzi di traduzione artistica di una simile analisi siano veramente quelli della dichiarazione esplicita, razionale, colma in Pier Paolo di un disinteresse che a volte adombra imprudentemente l’intellettualismo. O se non siano piuttosto preferibili quelli della sottigliezza e della sfumatura – Brecht, sempre lui, preferiva i primi, o almeno alcuni fra essi.
È difficile a dirsi, veramente difficile, giacché dalla sfumatura al sentimentalismo il passo si è dimostrato troppe volte pericolosamente breve.
Forse, speriamo, da qualche parte si apre una terza via, una vena vergine e inesplorata, a cui i drammaturghi di oggi stanno per attingere.
A fine recita, comunque, rimane l’impressione che il Calderón sia un grande testo, forse ottimisticamente prolisso, che la regia avrebbe magari anche potuto sfoltire e che invece ha deciso di mantenere pressoché intatto nelle due ore e mezza abbondanti di recita senza intervallo, con la parte più dottrinaria fatalmente concentrata verso il finale, nell’estenuante duetto tra Rosaura e il giovane Enrique (che ci ricollega circolarmente all’inizio del testo) e in quello tra Basilio e il medico Manuel, negli ultimi stasimi e monologhi di Basilio, sostenuti dal pur efficace Sandro Lombardi.
Come si diceva, non siamo certo qui a discutere della “qualità” del testo di un autore a cui, se pure si può attribuire una sua particolare retorica, essa ha cittadinanza nell’emisfero opposto a quello dell’ermetismo inteso come esperienza poetica misterica, iniziatica e sapienziale.
Pasolini non nascose né si nascose mai, ed è forse per questo che resta ancora con noi, fuori, dove è sempre stato, nel mondo.

[idea]Info[/idea]
Calderón
di Pier Paolo Pasolini
regia Federico Tiezzi
drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
con (in ordine di apparizione):
Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Ivan Alovisio, Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Andrea Volpetti, Debora Zuin
e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini
luci Gianni Pollini
movimenti coreografici Raffaella Giordano
canto Francesca Della Monica
assistente alla regia Giovanni Scandella
la canzone “Ahi desesperadamente” è stata appositamente musicata da Matteo d’Amico

durata: 2h 30’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 27 aprile 2016