Pasolini, teatri di narrazione. Saviano, passaggi di testimone, di Gerardo Guccini

Pasolini, teatri di narrazione. Saviano, passaggi di testimone
di Gerardo Guccini

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1 – Una voce che parla ancora
Se anche non avesse scritto il Manifesto per un nuovo teatro e alcuni fra i drammi più rappresentati e significativi del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini sarebbe comunque presente nelle opere e nella cultura dell’innovazione teatrale. Le ragioni del suo radicamento risaltano con particolare evidenza dalla sofferta iniziazione alla testimonianza che Roberto Saviano descrive nel penultimo capitolo di Gomorra, spiegando la scelta che lo ha portato a scrivere il libro.
Il brano fa comprendere perché la voce di Pasolini continui a parlare nitida ed esigente agli scrittori, agli intellettuali e ai teatranti che trasmettono conoscenze del reale acquisite per via d’esperienza, e consegnano quindi ai propri lettori o spettatori opere/sonda che li introducono all’esplorazione delle cose e di se stessi in quanto membri consapevoli della collettività umana.
La parola di Pasolini restituisce chi la pronuncia, vale a dire l’identità dell’autore, che, rapportandosi da persona a persona con gli interlocutori venuti dopo, si rigenera attraverso dialoghi interiori fatti di concordanze, di rispecchiamenti, di pensieri completati o intuiti nel passaggio dall’una all’altra mente. Il rituale riportato dalle pagine di Gomorra mostra una faccia di questo rapporto. Qui, la voce dell’interlocutore presente e quella dell’interlocutore assente si sovrappongono,dicendo parole che non solo procedono le une dalle altre e sono in parte uguali, ma attestano la stessa tensione etica, la stessa volontà di intervenire e non permettere che le cose, una volta conosciute, restino uguali a prima. Saviano dunque si immedesima nelle idee di Pasolini, o meglio nel loro procedere da un’esistenza che ne viene a sua volta segnata. Quest’iniziazione alla testimonianza, pur non facendo menzione al teatro pasoliniano, ne realizza l’essenza di «rito culturale». A Casarsa, ripetendo di fronte alle tombe di Pasolini e della madre il celebre articolo di denuncia civile apparso sul «Corriera della Sera» il 14 novembre 1974 («Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…»), Saviano avverte nelle idee dell’autore intrecci di parole ed esistenza, che trasformano in interlocutore chi sente d’esserne il destinatario e dialoga con loro.

2 – L’io narrante di Gomorra
Gomorra compenetra le forme del romanzo e quelle dell’inchiesta secondo tecniche di composizione che passano al lettore conoscenze del reale, evitando, però, svolgimenti lineari e pienamente esplicati. In altri termini, Saviano innesta la vocazione originaria della scrittura, che lancia nella realtà la forza delle parole, ad una personalità assolutamente contemporanea, abituata, cioè, a pensare per immagini, a congetturare attraverso montaggi, a recepire per frammenti, a considerare la discontinuità, l’assenza, l’interruzione delle presenza e l’omissione del senso, qualità proprie alle fenomenologie dell’esistente.
L’unità che Saviano infrange per trovare una forma duttile e trasformabile, che veicoli le strutture, la storia, i singoli profili e il mondo psichico del «sistema» camorristico, è proprio quella dell’io narrante.
Scelta in qualche modo obbligata. Narrando un’antropologia vissuta, Saviano non sceglie infatti, a differenza dell’antropologo o del reporter, determinate realtà da avvicinare, indagare e descrivere, ma decide di affrontare e conoscere attraverso le sue molteplici articolazioni la realtà in cui si trova di già immerso. La sua denuncia d’una economia fondata sull’orrore, che non solo viola le disposizioni del vivere civile, ma, quel che è peggio, tende a sostituirle, si intreccia a imbarazzanti dichiarazioni di vicinanza. Parte di una società segnata dalla connivenza e dall’omertà, l’autore non si dichiara immune dai mali che indaga e che, proprio perciò, può testimoniare al lettore. Questa posizione di osservatore incardinato all’argomento, di antropologo iscritto nella comunità indagata, colloca a monte di Gomorra e, invisibile a lato delle sue narrazioni, un fluido ‘romanzo di formazione’ dove si svolgono transizioni fra letteratura e realtà, scoperte, assunzioni di responsabilità, incontri, indagini documentarie e inchieste accanite, elementi tutti che Saviano, con scrupoloso senso della forma, rifiuta di narrare distesamente per non fare di se stesso un protagonista contrapposto al mondo antropologico del «sistema». Vale a dire, l’eroe del romanzo. Piuttosto, la sua preoccupazione è quella di spiegare la propria posizione rispetto agli eventi narrati, mostrando dove e come li vede, e dichiarando l’impatto emozionale ed etico di tali osservazioni. Gli undici capitoli di Gomorra esplorano ognuno una diversa diramazione del “sistema” camorristico. Collocandosi all’interno dei traffici con la Cina e l’alta moda, della sociologia del mondo criminale o dello smaltimento dei rifiuti, l’io narrante si presenta, di volta in volta, come infiltrato in veste di manovale, come reporter senza testate di riferimento, come parente di affiliati; lo vediamo trasportare casse inseguendo i rapporti fra criminalità e industria, mettere il registratore su tavole di pizzeria dove mangiano giovani affiliati, giungere in moto sui luoghi del delitto. Nessuno di questi accenni si sviluppa però in una narrazione sulle attività giornalistiche, sulla rete degli informatori (che non era d’altronde possibile indicare), sui mestieri svolti, sicché l’io narrante risulta talmente poco descritto e connotato in senso diegetico da poter essere, nota Wu Ming 1, addirittura sostituito:

l’io narrante di Gomorra è l’autore, ma non soltanto e non sempre. L’autore […] ha esercitato la libertà di “dare dell’io a qualcun altro”, di collocarsi dietro gli occhi di diversi “io” che raccontano storie di camorra. Non “io è un altro” (“je est un autre”, come scrisse Rimbaud), bensì “anche un altro è io” (“un autre aussi est je”). L’io che racconta dell’economia cinese in Campania non è lo stesso che racconta delle pecore spaccate a metà dai colpi di prova del “tubo” (il fucile fai-da-te usato dal “Sistema”), e così via. È sempre “Roberto Saviano” a raccontare, ma “Roberto Saviano” è una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro […] [1].

Gomorra connette queste espressionistiche peripezie dello sguardo a serrati racconti cronologicamente ordinati, che documentano le saghe delle famiglie camorristiche, l’evolversi dei sistemi economici e i rapporti con le istituzioni. Quando, però, l’io narrante riferisce quello che ha visto e di cui è stato personalmente testimone, le sue relazioni, proprio perché l’io non è sempre lo stesso, individuano eventi che non è possibile disporre all’interno d’un tempo unitario. Da un capo all’altro del libro, quello che viene descritto in un capitolo potrebbe essere avvenuto, in molti casi, prima o dopo o contemporaneamente a quello che viene descritto nel capitolo successivo. I due criteri della conseguenzialità temporale – e cioè la continuità biografica dell’io narrante e quella diegetica della vicenda – saltano infatti entrambi a fronte di un’antropologia vissuta che non si struttura per episodi, ma per argomenti. Svolgendoli, Saviano alterna dimensioni temporali di ampiezza storica e vertiginose focalizzazioni, cogliendo, ad esempio, l’attimo in cui una pallottola vagante distrugge i pensieri e le percezioni d’una bellissima quattordicenne che ha la sventura di trovarsi, per strada, nelle ore del passeggio, nelle vicinanze d’un attentato.

3 – Ritorno a Pasolini
Vi è però un momento in cui l’io narrante racconta l’episodio da cui procede Gomorra, segnando un nitido post quem oltre il quale il lettore viene invitato a collocare la stesura del libro e l’impegno dello scrittore a misurarsi con la realtà attraverso la parola. Ed è qui – in questo snodo nevralgico – che incontriamo il nome di Pasolini. Ricordandolo e quasi sovrapponendosi a lui, Saviano occupa il centro della scena senza per questo fare di sé un protagonista delle vicende narrate. Il ritorno a Pasolini, alle sue parole e al suo esempio, non s’inquadra infatti in una successione di fatti biografici. E cioè, non descrive la storia personale dell’io narrante, ma l’impulso da cui nasce del libro.
Parlando di Casarsa e Pasolini, Saviano racconta la scelta di vivere la letteratura facendone uno strumento d’azione civile. L’episodio cade, verso la metà del libro, nel capitolo Cemento armato, che affronta la speculazione edilizia, il monopolio dei Casalesi, le morti sul lavoro. Saviano ricorda, qui, la fine di Francesco Iacomino: quando questi cade dall’impalcatura tutti si allontanano; chi resta non lo soccorre, ma lo trascina a morire lontano per evitare che l’inchiesta risalga al cantiere. Questa penetrazione del male nelle tenere fibre dei rapporti quotidiani scuote l’io narrante, che parla di sé al lettore:

la morte di Iacomino mi innestò una rabbia di quelle che assomigliano più a un attacco d’asma piuttosto che a una smania nervosa. Avrei voluto fare come il protagonista de La vita agra di Luciano Bianciardi che arriva a Milano con la volontà di far saltare il Pirellone per vendicare i quarantotto minatori di Ribolla, massacrati da un’esplosione in miniera, nel maggio 1954, nel pozzo Camorra [2].

A questo punto interviene il ricordo di Pasolini:

appena entrai nella crisi asmatica di rabbia mi rimbombò nelle orecchio l’Io so di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva fino all’assillo [3].

Lo scritto a cui si fa riferimento è il famoso articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 14 novembre 1974 («Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…») [4].
Erano gli anni di piombo in cui le cosiddette “stragi di stato” trascinavano la storia del paese in spirali di sanguinosa violenza. Pasolini reagì alle mancate individuazioni dei responsabili, che impedivano alla memoria collettiva di elaborare il lutto, concependo lo straordinario gesto d’una testimonianza senza dati, senza nomi, senza contenuti specifici; d’una testimonianza, insomma, che introduceva nel dibattito pubblico la sua figura del testimone. La posta in gioco era altissima. Il fatto che i responsabili d’una fase oscura della storia civile potessero venire riconosciuti, pensati e testimoniati, non bastava certamente a fare giustizia, ma forniva comunque l’esempio d’un atteggiamento di consapevolezza e attesa, che non rinunciava né al diritto a conoscere né alla speranza nella giustizia.
Pasolini indicava ad una opinione pubblica frastornata e divisa che manifestare il senso degli eventi è un atto necessario e storicamente efficace.

4 – L’ “io” testimoniale da Pasolini a Saviano
A Casarsa, Saviano, con ancora in testa il martellante Io so pasoliniano, dispone le potenzialità della propria scrittura in un’analoga prospettiva d’intervento:

Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione. […] mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulle possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se […] era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l’affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura [5].

Pasolini, quindi, come antidoto allo svuotamento postmoderno della parola (della quale gli autori hanno imparato a vergognarsi), come ricerca d’una scrittura che trasmetta la sostanza del reale, come esempio d’un ripristinato equilibrio fra la forza conoscitiva della mente e quella della violenza. La visita a Casarsa si risolve con un passaggio di testimone:

Mi sembrò d’essere meno solo, e lì iniziai a biascicare la mia rabbia, con i pugni stretti sino a far entrare le unghie nella carne del palmo. Iniziai ad articolare il mio io so, l’io so del mio tempo [6].

È la genesi mitica di Gomorra. L’io so di Saviano, che integra la testimonianza pasoliniana con l’essenziale elemento delle «prove». Mentre Pasolini, non avendo prove, dice di sapere nomi che non pronuncia, Saviano «h[a] le prove» e fa i nomi. L’io so del primo si diffonde per contagio e trova rifugio nelle coscienze individuali. Quello del secondo s’intreccia a procedimenti giudiziari che sviluppano le vicende narrate al di là del libro:

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove [7].

Il «rito civile» di Casarsa traduce in termini mitopoietici un evento reale. Nel 2005, «Nuovi Argomenti», la rivista che fu di Pasolini, aveva deciso di ricordare il trentennale della morte dello scrittore, pubblicando una sezione di giovani autori chiamata Io so. Rispondendo alla richiesta, Roberto Saviano, Helena Janeczeck, Alessandro Leogrande, Marco di Porto, Osvaldo Capraro e Babsi Jones affrontano sette diversi problemi con piglio «corsaro»: la criminalità organizzata e l’uso dei minori, i nuovi avventurieri dell’economia italiana, il multiculturalismo ai tempi del terrorismo, l’antisemitismo di sinistra, la pedofilia nella Chiesa, lo stragismo vent’anni dopo, la percezione della guerra nei Balcani.
Solo Saviano include il titolo del dossier in quello del proprio contributo (Io so e ho le prove), che riprende lo schema del testo pasoliniano. Scrive Saviano nel 2005:

Io so e ho le prove.
Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria.
Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente.
Io so e ho le prove [8].

Questo inizio, come s’è visto, verrà poi incluso all’interno del capitolo Cemento armato dove vengono trattati gli stessi contenuti del testo scritto per «Nuovi Argomenti». Anche qui come in Gomorra si parla infatti di speculazione edilizia, del monopolio dei casalesi, del lavoro nero e delle sue stragi. Immediatamente, seguono i nomi: Io so ed ho le prove. E le prove hanno un nome. Sono Ciro Leonardo morto a 17 anni mentre stava riparando un solaio cascando dal settimo piano. Le prove si chiamano Francesco Iacomino, aveva 33 anni quando l’hanno trovato con la tuta da lavoro sul selciato all’incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D’Annunzio ad Ercolano [9].
L’ordito narrativo di Gomorra e la concatenazione di fatti reali che si conclude con l’articolo Io so e ho le prove dispongono in senso contrario gli stessi elementi. Il primo fa discendere dallo sdegno per le morti sul lavoro il viaggio a Casarsa e il ritorno a Pasolini. La seconda, invece, parte dal trentennale della morte di Pasolini per risolversi in uno scritto che affronta anche le morti sul lavoro. Alla luce del confronto testuale con l’articolo, il «rito civile» di Casarsa sembrerebbe ispirarsi a un incontro di voci e intenzioni effettivamente avvenuto, non di fronte alla tomba dello scrittore, bensì, con tutt’altre modalità, sulle pagine di «Nuovi Argomenti». Ascendenza che renderebbe l’episodio al contempo falso e più vero d’un fatto reale. Proiettato in un luogo emblematico della narrazione di Gomorra, l’Io so di Saviano sembra infatti esprimere, all’interno di queste concatenazioni intrecciate, il rapporto dell’autore con la scrittura di Pasolini. Le cose, però, sono più complesse di così.

5 – Ossa sotto la carne
Nel 2006, fresco vincitore della 77esima edizione del Premio Viareggio Repaci con il libro-rivelazione Gomorra, Roberto Saviano viene intervistato per «Il mattino» da Maria Vittoria Messori, che, mostrando di essersi preparata all’incontro, gli chiede del viaggio a Casarsa. Saviano conferma:

Quando sono andato a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, ero particolarmente arrabbiato. I pugni serrati non si volevano aprire nemmeno per scrivere. Sono andato lì in una sorta di empatia, per capire se era ancora possibile credere in una parola capace di aggredire la realtà. Ci ho riflettuto a lungo e mi sono convinto che la parola letteraria proprio perché svincolata da obiettivi, da sentenze di tribunale, può mostrare le budella del potere, può raggiungere un nucleo di significato molto semplice, che è poi quello dei tragici greci: verità e potere non coincidono mai [10].

L’intervistatrice, a questo punto, riconduce l’autore all’esito dell’episodio romanzesco: «È da lì, dalla tomba di Pasolini che hai iniziato ad articolare “Io so”». Risponde Saviano:

L’ “Io so” del mio tempo: so e ho le prove. In questo libro non mi interessava mostrare un mondo altro di violenti e di crudeli diviso dal nostro, non mi interessava dare una lezione di morale. Ho voluto sussurrare all’orecchio del lettore “questo ti riguarda” [11].

Chiedersi se il «rito civile» di Casarsa venga dal dossier di «Nuovi Argomenti» o dal vissuto dell’autore, oppure se l’episodio reale stia a monte dell’articolo o del romanzo, non porta a conoscenze sostanziali. Quando i letterati e i teatranti prendono posizione nei riguardi del reale si trovano, infatti, nella condizione di dover coniugare l’autenticità dei dati con narrazioni la cui verità non dipende dalle corrispondenze con quanto è effettivamente accaduto, ma dal loro trasparire sul senso dei fatti reali. E cioè dalla loro capacità di mostrare, come suggerisce Celestini con efficace immagine, le ossa sotto la carne [12].

6 – Il “dramma sociale” dei nostri anni
All’epoca di Pasolini, Sciascia, e dopo Pasolini, i narratori teatrali degli anni Novanta e, poi, gli scrittori che mescolano romanzo e inchiesta, fiction e non-fiction [13], come Lucarelli, Saviano, Genna, De Cataldo o Carlotto, hanno diversamente reagito al perdurare d’una Storia dove niente sembra risolversi e concludersi eppure tutto muta sotto la spinta di forze ostili all’organizzazione etica del reale. Le loro opere, pur non essendo «aperte», trattano infatti fratture non ricomposte, verità non appurate, contrapposizioni non appianate, traumi non risolti. In altri termini, i narratori compensano con comunicazioni di realtà e gesti di testimonianza l’accadere di «drammi sociali» incompiuti, spesso privi di protagonisti esplicitati e non suggellati da una conclusione.
La forma tipica del «dramma sociale», secondo la classica descrizione dell’antropologo Richard Turner, riproduce nella realtà le fasi della narrazione, presentando infrazioni delle regole, situazioni di crisi crescente, meccanismi di compensazione e reintegrazioni dei gruppi sociali turbati oppure esodi che sanciscono l’irrimediabilità della frattura [14]. Diversamente, il «dramma sociale» odierno si arena nell’infinito interagire fra la seconda e la terza fase, improntando dinamiche mnemoniche che non sedimentano all’interno della collettività cicli conclusi – modalità esemplificata dal crollo del muro di Berlino: “fine” del «secolo breve» – ma riflettono, in modo fazioso e partecipe oppure critico e dialettico, il riacutizzarsi di conflittualità permanenti che trasmettono continui impulsi a schierarsi, a scegliere contesti di appartenenza e fattori di riconoscimento.
La realtà, dunque, non produce oggi «drammi sociali» che strutturino la memoria della collettività. Piuttosto, manifesta con vicende sospese alle fasi del conflitto e della compensazione le faglie tettoniche su cui poggia (sconnessioni fra legalità e illegalità, ideologie laiciste e religiose, manifesto e occulto). Le differenti postazioni storiche dalle quali le hanno osservate, dapprima Pasolini, e poi, a partire dagli anni Novanta, gli esponenti della nuova narrativa italiana, fanno meglio comprendere l’attuale profilo di maestro e anticipatore dello scrittore/cineasta. Mentre Pasolini immagina il futuro a partire dalla sparizione delle culture popolari e dalla crisi di rappresentatività del sistema politico, i nuovi narratori si confrontano con una fase successiva e tipicamente italiana, che, nata dal dissolvimento dei vecchi partiti, si risolve anch’essa, a somiglianza della prima, in contraddittorietà permanenti e refrattarie alla sintesi.
Pasolini, indagando fra gli anni Cinquanta e Settanta i prodromi della fine, ha dunque individuato mentalità e strategie di potere, che, nel tempo, si sono ulteriormente affermate fino a costituire il mondo reale dei nuovi narratori e nostro. Le condizioni che hanno accompagnato la fine d’una fase storica coincidono con le potenzialità espansive di quella successiva.

7 – L’esempio di “Ultimo volo”
In Italia, «paese delle mezze verità», si sente che qualcosa sta per finire mentre «non finisce mai niente» [15]. Sicché appare emblematico che il compositore Pippo Pollina concluda con un movimento in levare il trascinante bolero al termine del suo Ultimo volo. Orazione civile per Ustica. Le parole del testo (scritto dallo stesso Pollina), quanto più invocano la ricomposizione d’un atto di giustizia, tanto più dichiarano l’insolvenza narrativa dei fatti. La risoluzione della vicenda viene infatti delegata all’inevitabile morte.
Anche il narratore de Le mille e una notte conclude le storie riferendosi, con formula ricorrente, «a quella che distrugge l’edificio dei piaceri e disperde le riunioni». Per lui, però, evocarla significa toccare il limite d’ogni possibile continuazione d’una storia già conclusa con nozze, premi o punizioni. Per Pollina, invece, la morte dei responsabili non si situa al di là della storia, ma, in assenza di colpevoli riconosciuti e puniti, costituisce la sua sola possibilità di finire:

E mi sembra di vederle le iene nella stanza dei bottoni
con uniformi di cartapesta a decidere i vivi e i buoni
stravaccati in poltrone di pelle, che non si rischia niente
son l’arroganza del potere e l’indifferenza di certa gente.

Eppure la storia va avanti non conosce padroni,
anche a quelli che muovono i fili un giorno tremeranno le mani,
perché esiste un passaggio comune, un comune destino
che fa più vita la vita e non fa sconti per nessuno [16]

Il paradosso dell’età contemporanea è che, in essa, niente sembra esaurirsi e terminare al punto di poter risorgere (o «espatriare» come diceva Luckács) nelle forme tradizionali del romanzo, dove

il lettore cerca appunto uomini in cui leggere il “senso della vita”. E deve quindi, in un modo o nell’altro, essere certo in anticipo di assistere alla loro morte. Almeno in senso traslato: alla fine del romanzo. Ma meglio ancora se alla morte vera [17].

Le drammaturgie narrative hanno dunque appreso a dialogare con le dinamiche aperte della Storia e il continuo perdurare dei «drammi sociali», eleggendo la realtà quale contesto del proprio rapporto con il reale.

8 – La narrazione e il reale
La rinascita del racconto, la rivalutazione della parola, la responsabilità del relatore nei riguardi delle cose significate e la conservazione del reale nell’opera composta [18], contrastano le derive d’una civiltà che ha smesso di raccontarsi, che ha cancellato gli spazi del confronto collettivo, che vede il prevalere delle immagini sui segni verbali, che coltiva comportamenti alienati e induce linguaggi autoreferenziali. Per questo, tanto in Pasolini che nei narratori scenici e in Saviano, le dinamiche narrative coesistono con la loro messa in crisi, che viene evidenziata oppure trattenuta a seconda che prevalga l’assunzione delle dinamiche stesse del reale (irrisolte, frattali, sospese) oppure la loro compensazione rituale, per cui, come nel Vajont di Marco Paolini, la costruzione del racconto e i suoi effetti sullo spettatore risarciscono emozionalmente la mancata soluzione dei conflitti. È lo stesso sentire che presiede alla «trilogia della vita» di Pasolini (Decameron; I racconti di Canterbury; Il fiore delle Mille e una notte). Mai i racconti scaturiti dalla dialettica fra il reale e l’identità del narratore sono così immediati e popolari, come quando celebrano – fra ricordo, festa ed elaborazione del lutto – l’assenza del mondo narrato. Dice Pasolini discutendo con Sergio Arecco:

nel Decameron che sto finendo il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare o si rappresenta per il gusto di rappresentare. Cosa si narra o si rappresenta? Qualcosa che non c’è più: uomini, sentimenti, cose. Non c’è, dico, storicamente; esistenzialmente sopravvive (il popolo di Napoli) [19].

Il riferimento a uomini, sentimenti e cose che non ci sono più, in parte, richiama la condizione fondamentale del racconto, che «si autoproduce […] sulla soglia di quella fine che attira e genera la narrazione stessa» [20], in parte, segnala un’emergenza operativa senza precedenti nell’opera dell’autore. Pasolini, narratore di antropologie contrapposte come lo sono quella popolare e quella borghese, aveva infatti prevalentemente trattato tipologie umane presenti e vive. Negli anni Settanta, però, a seguito della massificazione culturale del decennio precedente, deve fare i conti con l’omologazione degli strati sociali, con gli effetti della televisione, con la sparizione delle diversità e la crisi dei linguaggi.
Per lui, trarre dal passato non tanto miti da innestare dialetticamente alla comprensione del presente (come aveva fatto con Edipo o Medea), ma gli immediati precursori di quello stesso popolo che vedeva ormai limitarsi alla pura e semplice ‘sopravvivenza’ significava, sì, aderire all’ontologia del narrare, ma compiendo un atto ideologico implicito e tutt’altro che scontato. Nel suo programma d’intervento, la morte storica delle vite narrate, e cioè la loro appartenenza al passato, evidenziava infatti la frattura fra i «valori» alla base della nostra civiltà e la società uscita dalla «rivoluzione» tecnologica degli anni Sessanta. In sintesi, Pasolini attribuiva alla risoluzione filmica del passato il compito di «contestare» al presente:

Non ho scelto i personaggi del Decameron per caso ma per offrire esempi di realtà. Un personaggio del Decameron è esattamente il contrario di un personaggio che si vede nei programmi televisivi o nei cd. [cosiddetti] film consolatori. […] Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente. E allora amo questa ricostruzione del passato, di psicologie che, al presente, non sono più reali, perché i personaggi del Decameron esistono ancora, ma sono rari, sopravvissuti [21].

Vi sono narrazioni che rigenerano vicende accadute modellandosi sulle forme tipiche del «dramma sociale» i cui paradigmi esistenziali, dice Turner, infiltrano «gli atteggiamenti vitali irriducibili degli individui» [22]. Accanto a questa tipologia, vi sono però narrazioni che guardano in faccia la realtà e trattano accadimenti in atto e conflittualità irrisolte, coniugando la vitalità dei personaggi a un disegno ideologico che, come vediamo in Uccellacci e uccellini, muta l’opera, da oggetto di fruizioni solamente o principalmente edonistiche, in organismo dialettico.

9 – La realtà e il nuovo teatro di narrazione
Si tratta d’una distinzione fertile di indicazioni. Applicata al “teatro di narrazione” distingue gli spettacoli fondati su eventi trascorsi – come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Il racconto del Vajont (1994) di Paolini e Radio Clandestina (2001) di Ascanio Celestini – da una zona più sperimentale e, nel complesso, recente che dissolve l’involucro narrativo preferendo interagire dal vivo con l’immaginario e le coordinate di realtà dello spettatore.
Con Corpo di stato (1998) Marco Baliani rinuncia al progetto di narrare il rapimento Moro in base agli atti processuali, e spiega sul filo dell’autobiografia le reazioni dell’estrema sinistra a quegli avvenimenti. Così, lo spettacolo, testimonia attraverso il narratore una cultura e una forma mentis oggi censurate e che, pure, continuano a indirizzare scelte ideali e orientamenti etici.
Miserabili. Io e Margareth Thatcher (2006) di Marco Paolini affronta nei modi di un work in progress ragionato ad alta voce le metamorfosi della società italiana a partire dagli anni Ottanta. Fra un intervento musicale e l’altro, vengono toccati macro-eventi (la liberalizzazione economica della Thatcher, quella reaganiana, il ritorno di Komeini in Iran) e micro-personaggi. Pasoliniana, la definizione che Paolini dà di questo lavoro: «Miserabili è anche uno spettacolo di pensiero».
Appunti per un film sulla lotta di classe (2006) nasce da interviste fatte da Ascanio Celestini ai lavoratori precari di un call center alla periferia di Roma, ma è anche ciò che dice il titolo: un insieme di appunti per una storia sulla lotta di classe oggi. Non c’è lieto fine, anzi, non c’è proprio una fine. Le lotte sindacali possono poco o nulla, e le richieste di miglioramenti vengono svuotate dal timore di perdere il posto di lavoro. Anche qui, come in Miserabili, gli interventi musicali strutturano la distribuzione dei segmenti narrativi, che può cambiare di sera in sera. A cantare, con voce penetrante e modulata dagli intenti, è lo stesso Celestini. Il primo pezzo tocca una problematica centrale della Storia e, transitivamente, della narrazione. I «disgraziati», quelli che hanno perso il lavoro, la casa oppure la ragione, si riuniscono e incominciano «ad aggirarsi/ come si aggirò quel famoso/ spettro per l’Europa». Il riferimento al celebre incipit del Manifesto di Carl Marx («Uno spettro si aggira per l’Europa») evidenza la differenza fra le masse proletarie dell’Ottocento e del Novecento e la folla dei «disgraziati», che, a differenza delle prime, sa di non avere obiettivi predestinati e di non rivestire alcun ruolo simbolico. Tant’è che proprio l’atto della rivoluzione, che struttura le rivolte in forma di «dramma sociale», affiora al suo interno come proposta insensata e raptus bizzoso, acida parodia del divenire della Storia attraverso una dialettica di tesi e antitesi incarnate da contrapposte classi sociali.
Ancora più radicale la scelta fatta da Pietro Floridia e Gianluigi Gherzi con La strada di Pacha (2009) dove non c’è nemmeno una narrazione, ma un repertorio di storie assimilate dal relatore scenico – Gianluigi Gherzi – a seguito di ore di colloqui con Pacha, straordinaria operatrice culturale di Managua. Queste costituiscono un orizzonte dell’immaginario, che Gherzi ripercorre e connette con improvvisati passaggi per rispondere alle domande e alle impressioni del pubblico. Sicché lo spettatore è destinatario, non già d’una narrazione su Pacha (e di cui Pacha sarebbe un contenuto), ma della memoria che il relatore ha della Pacha vera, che parla, si racconta, agisce e non è mai personaggio, ma vita riferita, e cioè realtà conservata all’interno dello spettacolo, che, rispettandone l’identità irrimediabilmente esterna alla scena, evita di narrarla o rappresentarla in forma drammatica.
Quando il reale si rivela liquido, soggetto a continue conflittualità e trasformazioni, la nozione di “realismo” cessa di implicare processi imitativi e naturalistiche tranches de vie, per indicare piuttosto una volontà d’intervento sul reale. Quello che viene ora praticato non è, quindi, un realismo di stile bensì di sostanza, che irretisce il presente in svolgimenti discorsivi che, da un lato, ne snidano gli archetipi, le forze e le presenze umane, e, dall’altro, gli contrappongono criteri informati dall’umanità del relatore.

10 – Pasolini testimone del proprio tempo
Pasolini, nella storia del rapporto fra il mondo reale e gli artefici di realtà altre, costituisce un modello importante poiché aggancia alle trasformazioni della realtà la funzione testimoniale dell’autore, che, attraverso le opere e gli interventi pubblici, rilancia nel sociale il contraddittorio conflitto fra la propria identità e l’esistente:

Io (nel mio corpo mortale) vivo i problemi della storia ambiguamente. La storia è la storia della lotta di classe: ma mentre io vivo la lotta contro la borghesia (contro me stesso) nel tempo stesso sono consumato dalla borghesia, ed è la borghesia che mi offre i modi e i mezzi della produzione. Questa contraddizione è insanabile: non ammette di essere vissuta altrimenti che come è vissuta. Cioè ambiguamente: e questo produce un elemento di mistero (che si vorrebbe e non si vorrebbe spiegare) [23].

In questa prospettiva, la realtà non ricorre all’interno delle opere solo perché imitata, conservata e trasmessa, ma perché somatizzata da chi ne parla o scrive, e resa, quindi, persona. Il che equipara l’atto di scrivere a quello di narrare dal vivo. Entrambi, infatti, procedono dal corpo dell’autore/emittente risolvendosi, all’altro capo del processo, in percezioni di presenze traboccanti senso.
I riferimenti di Saviano alle crisi di asma, alla rabbia, alle unghie conficcate nella carne non sono pennellate descrittive, ma riguardano la condizione primaria della sua scrittura, che rilancia l’introiezione dei mali umani e sociali con atti comunicativi e di testimonianza. Sullo sfondo di questa affinità elettiva con Pasolini: il viaggio a Casarsa, la ricerca della tomba, il ripetere io so, il passaggio del testimone. Ciò che Saviano raccoglie da Pasolini non è una tecnica artistica, ma la possibilità di riscattarsi dall’inferno che ha scelto di conoscere, facendolo conoscere.
La capacità di comunicare le trasformazioni dell’uomo e della Storia attraverso l’esperienza che se ne è acquisita, e quella di coniugare lo svolgimento discorsivo al corpo del relatore suscitandovi contenuti altrimenti indicibili, trattengono Pier Paolo Pasolini fra i contemporanei, facendone un maestro postumo dei rapporti fra il mondo e l’io.
Stefano Agosti, in un importante approfondimento critico, osserva come il Pasolini poeta rifiuti di dare per inconoscibile il mondo al di là del linguaggio, ma lo cali nel dire, tendendo il discorso fino a fargli superare, in un tragico ritorno alla creaturalità delle cose, i limiti del commento, dell’esercizio logico, dell’astrazione verbale:

se la poesia novecentesca appare tesa allo sforzo di trasformare il “discorso” in “linguaggio”, puntando al raggiungimento di una posizione pre-discorsiva, […] nel caso di Pasolini siamo invece di fronte a un’intenzione e un’operazione esattamente inverse. […] Pasolini dà il via a un esperimento che porta tutta la situazione espressiva oltre il discorso, dopo il discorso […]; nel [suo] caso, […] l’operatore, mantenendo intatta l’istanza del discorso ma sovradeterminandola criticamente, sembra accennare alla possibilità di una sua dimensione postuma […] [24].

Per comprendere la funzionalità retorica e il potere attrattivo del discorso pasoliniano, conviene considerare che la sua dialettica fra segno e referente non sviluppa forme esclusivamente letterarie, ma anche orali e visive. Il discorrere di Pasolini sull’introiezione del mondo nel vivere del relatore si è storicamente svolto in versi, in forma di racconto, in dialoghi con i lettori, in trattazioni teoriche e manifesti, in articoli, in drammi, in sceneggiature, in film.
In ogni articolazione della sua opera, Pasolini esercita la possibilità di conoscere e di conoscersi, che però affronta, di volta in volta, con obiettivi e strumentazioni corrispondenti al medium utilizzato.

11 – La presenza dell’autore nel teatro di narrazione
La poesia e il «teatro di Parola» restituiscono la presenza dell’autore, che, declinando verbalmente le tensioni fra il corpo e l’esistere, espone allo sguardo mentale del lettore un flusso monologante, che, da un lato, prevede dizioni straniate che lo concilino all’ipotesi di emittenti altre (i personaggi e gli attori), mentre, dall’altro, apre impressionanti finestre sulla corporeità pulsante di vita psichica da cui procede.
Il romanzo e il cinema mutuano invece dall’originaria passione per la pittura (Pasolini, non avesse smarrita la tesi, si sarebbe laureato con Roberto Longhi) il fondamentale principio della rappresentatività dell’arte, per cui l’identità dell’autore, pur affiorando continuamente, media le realtà riflesse dal suo sguardo: soggettivo nella misura in cui declina e ricompone l’oggettività delle cose. Il cinema, per Pasolini, è l’arte di «esprimere la realtà con la realtà» [25]. Concezione che anticipa il più tardo innesto di attori sociali o attori non ancora attori alle dinamiche dell’innovazione teatrale, avvicinando i film di Pasolini con attori sottoproletari [26] ai teatri di Armando Punzo, Pippo Delbono e Marco Martinelli.
Gli scritti teorici, liberamente sistematici, indagano i criteri e le strumentazioni logico/formali che conservano le qualità del reale nelle sue trasposizioni in opera, consentendo all’autore di comporre – sulla pagina – una realtà di segni, e – sullo schermo – una realtà di realtà che, pur formalizzate, restano continuamente leggibili e presenti come stratificazioni geologiche in un terreno esploso.
Il discorso pasoliniano prosegue anche in assenza di scrittura e voce, perché sorretto dalla coscienza che i segni sono molteplici e tutto è segno:

In realtà non c’è “significato”: perché anche il significato è un segno. […] Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il significato del segno scritto-parlato “quercia”: no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: non certo scritto-parlato ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo.
Sicché in sostanza i “segni” delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i “segni” delle lingue non verbali […]. La sede dove questa traduzione si svolge è l’interiorità.
Attraverso la traduzione del segno scritto-parlato, il segno non verbale, ossia l’Oggetto della Realtà, si ripresenta, evocato nella sua fisica, nell’immaginazione.
Il non verbale dunque, altro non è che un’altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà.
Che io usi la scrittura o che io usi il cinema altro non faccio che evocare nella sua fisicità, traducendola, la Lingua della Realtà [27].

Pasolini, dunque, ‘parla’ il reale traducendone la lingua. Sistema che consegna all’attenzione dei teatranti svolgimenti disposti a tradursi in insegnamenti intorno alle esigenze essenziali del teatrale, che, come fa l’opera pasoliniana nel complesso, coniuga presenza, realtà e linguaggio.
Per questo, in prospettiva, è consigliabile ricostruire l’influenza di Pasolini sui teatranti, non solo analizzando le rappresentazioni delle opere drammatiche come ha splendidamente fatto Stefano Casi [28], ma anche seguendo le traiettorie delle differenti articolazioni della sua opera: i pensieri, le narrazioni filmiche e il Manifesto per un nuovo teatro che Baliani suole citare riconoscendo nel brano che qui segue «una bella anticipazione del teatro di narrazione» [29]:

Venite ad assistere alle rappresentazioni del «teatro di parola» con l’idea più di ascoltare che di vedere (restrizione necessaria per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro) [30]

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Note
[1] Wu Ming 1, recensione di Gomorra apparsa in «Nandropausa», n. 10, 21 giugno 2006, anche in Wu Ming, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 29-30. Col titolo Wu Ming 1 su Gomorra nel sito http://robertosaviano.it/documenti/8889/125/0
[2] Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2008, 1a ed. 2006, p. 232.
[3] Ibidem.
[4] Pier Paolo Pasolini, Che cos’è questo golpe, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, col titolo Il romanzo delle stragi in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 1999, p. 362.
[5] Ivi, p. 233.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 234.
[8] Roberto Saviano, Io so e ho le prove, «Nuovi Argomenti», novembre-dicembre 2005, anche nel sito http://www.pasolini.net/saggistica_trulli_inedito.htm
[9] Ivi.
[10] Maria Vittoria Messori, Saviano: «io, nel segno di Pasolini», «Il mattino», 2 luglio 2006, anche nel sito http://www.pasolini.net/narrativa_robertosaviano.htm
[11] Ivi.
[12] «Non fotografo l’avvenimento, ma cerco di attraversarlo per cercare quello che gli strumenti che possiedo mi permettono di trovare. È un procedimento più simile alla radiografia che alla fotografia». (Ascanio Celestini, L’estinzione del ginocchio. Storie di tre operai e di un attore che li va a registrare, in Gerardo Guccini, a cura di, La bottega dei narratori. Storie, laboratori, metodi di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino, 2005, p. 186).
[13] Per Wu Ming 1 la «sintesti di fiction e non-fiction» descrive «un modo di procedere […] “distintamente italiano”, e che genera “oggetti narrativi non identificati”». (New Italian Epic, cit., p. 109).
[14] Cfr. Richard Turner, Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1999, p. 131 (ed. orig. From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982).
[15] È il lamento dell’arciprete Antonio Lepanto nell’ultimo capitolo del Candido (1977) di Leonardo Sciascia.
[16] Pippo Pollina, Ultimo volo. Orazione civile per Ustica, in Cristina Valenti (a cura di), Ustica e le arti. Percorsi tra impegno, creatività e memoria, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, p. 125.
[17] Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 265 (titolo orig. Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955).
[18] Pasolini, anche perciò maestro, diceva: «La caratteristica principale dei film che io faccio è quella di far passare dinanzi allo schermo qualcosa di “reale”» (Ideologia e poetica, «Filmcritica», n. 232, marzo 1973, ora in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, II, Milano, Mondadori, 2001, p. 2994).
[19] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà (a cura di Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 214, marzo 1971), in Valerio Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, «Quaderni di filmcritica», Roma, Bulzoni, 1977, p. 100.
[20] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[21] Pier Paolo Pasolini, Ideologia e poetica cit., p. 2995.
[22] Cfr. Richard Turner, op. cit., p. 135.
[23] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 91.
[24] Stefano Agosti, La parola fuori di sé, in Cinque analisi, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 154.
[25] Pier Paolo Pasolini, Razionalità e metafora (a cura di Paolo Castaldini, «Filmcritica», n. 174, gennaio-febbraio 1967), ora in Id., Tutte le opere. Per il cinema cit., II, p. 2914.
[26] «Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita) […]». (Pier Paolo Pasolini, Questo è il mio testamento, «Gente», 17 novembre 1975, ora col titolo Quasi un testamento in Id., Tutte le opere. Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 868) Alla creaturalità degli attori sottoproletari di Pasolini, scelti per essere se stessi, corrispondono alcuni significativi sviluppi del teatro degli anni Novanta, «torna[to] a confrontarsi col mondo, non più riflettendolo, come avveniva nel sistema mimetico, ma assumendone direttamente le realtà». (Gerardo Guccini, Presentazione di Verso un teatro degli esseri. Documenti e voci dall’incontro di Lerici – 2 luglio 2000, «Prove di Drammaturgia», n. 1/2001, p. 24)
[27] Pier Paolo Pasolini, Ancora il linguaggio della realtà cit., p. 97. Una limitata sezione dell’articolo, contenente il brano qui riportato, è stata edita col titolo Il non verbale come altra verbalità in Pier Paolo Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, II, Milano, Mondadori, 1999, p. 1594.
[28] Cfr. Stefano Casi, I teatri di Pasolini. Introduzione di Luca Ronconi, Milano, Ubulibri, 2005, e in particolare il cap. Pasolini in scena, pp. 284-305, e, per un esaustivo repertorio di dati, la Teatrografia, pp. 207-218.
[29] Marco Baliani, Esperienza – tempo – verità: un seminario sulla narrazione (CIMES, Bologna, febbraio 2000), in Gerardo Guccini (a cura di), La bottega dei narratori cit., p. 63.
[30] Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro (1968), in Id., Teatro, Milano, Garzanti, 1992, p. 711, ora in Id., Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte cit., II, p. 2484.