Dopo Pasolini, Gadda e altri autori congeniali, Fabrizio Gifuni, magnifico interprete teatrale di pagine letterarie, si cimenta con Il Dio di Roserio, opera d’esordio di Giovanni Testori, uscita nel 1954 per Feltrinelli. Del nuovo lavoro, che sarà in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 3 al 6 maggio, l’attore racconta le intenzioni in una intervista raccolta da Sara Chiappori che qui riprendiamo.
Fabrizio Gifuni: «Da Pasolini a Testori, così porto a teatro scintille di letteratura»
di Sara Chiappori
http://milano.repubblica.it – 29 aprile 2017
Per favore, non chiamateli reading. Sono un’altra cosa: sono intrepidi oggetti non identificati che cercano il teatro dentro la letteratura. Rivelando in controluce l’arte dell’attore nel misterioso laboratorio del suo corpo scenico. Chi ha visto Fabrizio Gifuni in azione, lo sa. In questi anni ha traghettato dalla pagina al palco scritti e romanzi di Pasolini, Gadda, Camus, Cortázar, Bolaño. Un atlante di mappe che disegnano rotte con battute a cui ora si aggiunge una nuova tavola, dedicata a Giovanni Testori. Per la precisione Il Dio di Roserio, epopea proletaria del ciclista Dante Pessina, dilettante con la stoffa del campione in fuga verso la vittoria da una vita di periferie nebbiose e minestre riscaldate. Pur di farcela, non esita buttare fuori strada il gregario Consonni, causandogli un colpo alla testa che lo manderà diritto in manicomio (al Parenti, dal 3 al 6 maggio).
Gifuni, anche per lei è arrivato l’incontro con Testori.
Il primo approccio fu tempo fa, grazie a Giuseppe Bertolucci. Mi chiamò per una parte nella versione radiofonica dell’Arialda, che era interpretata da Mariangela Melato. Lei era un mito, io un pischello terrorizzato, ma mi mise subito a mio agio: «Uè, ma questo parla milanese meglio di me!». Non potevo avere benedizione migliore.
Poi però l’ha messo da parte fino a oggi.
Lo spunto è venuto dal Premio Testori, per cui l’anno scorso ho letto il primo capitolo del Dio di Roserio, formidabile e travagliatissimo. Spericolato per scrittura e struttura. Ho ripreso l’intero romanzo e ho deciso di continuare a lavorarci, prima di tutto per la fascinazione linguistica. È l’esordio letterario di Testori e come spesso avviene nelle opere prime c’è una libertà assoluta di sperimentazione. Uno scompaginamento radicale delle regole narrative e sintattiche che lo fa coincidere idealmente con l’ultimo Testori, quello di In exitu, per intenderci, che all’epoca vidi con un Franco Branciaroli sconvolgente.

Il Dio di Roserio è del ’54; l’anno dopo un altro esordio folgorante, Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, che lei ha portato in teatro.
Di Pasolini mi interessa soprattutto l’ossessione per il tema del doppio, padri e figli, vittime e carnefici, luce e buio, vita e opera d’arte. Nessuno come lui ha messo il corpo al centro. Per un attore è una sollecitazione irresistibile.
Più che reading, le sue sono vere e proprie performance.
C’è un leggio, ma spesso non lo uso, devo essere scomodo, trovare l’abbandono e non il riposo, concentrare lo spazio, caricarlo di energia. Cerco un rapporto puro e conflittuale con il testo. Nel Dio di Roserio, per esempio, sto aggrappato a uno sgabello in una corsa a perdifiato. Le parole sono sassi. Mi schizzano davanti agli occhi, le devo governare e schivare. La postura è molto diversa dall’immobilità di quando faccio Lo straniero di Camus, ma in entrambi i casi il mio corpo raggiunge le stesse temperature.
Come sceglie gli autori? Camus, per esempio?
Deve scattare la scintilla. Lo straniero mi fa vacillare ogni volta per la profondità con cui esplora l’abisso dell’essere umano, sporgendosi sull’orlo del precipizio.
Con Gadda la frequentazione è assidua.
Una meteora che piove sul ‘900 italiano scatenando una lingua inaudita, che contiene tutto, da Dante in poi. Con Gadda si capisce quanto sia impegnativo il rapporto con le parole e quanta responsabilità implichi. Quando ho letto il Pasticciaccio la prima volta, dovevo tenermi il dizionario di fianco, in ogni pagina c’erano vocaboli di cui non solo non conoscevo il significato, ma di cui proprio non avevo mai sentito il suono.
Con Cortázar e Bolaño si è preso una pausa sudamericana.
Cortázar è il gusto della dissacrazione tagliente. Bolaño è il piacere della sincerità, il rigore con cui riflette sulla materia di cui è fatto il gesto della scrittura. Tutte queste cose però mi diventano davvero chiare solo quando dalla lettura solitaria le riporto al corpo.
Ecco, il corpo. Passa tutto da lì.
Il libro si trasforma in un luminoso oggetto transitorio, come se le parole si staccassero dalla dimensione orizzontale della pagina rimettendosi in verticale passando dal corpo della scrittore a un altro corpo, il mio, per arrivare a quello degli spettatori, creando un campo magnetico. Lo specifico del teatro è l’irripetibilità della sua dimensione fisica.