Pasolini dal dialogo al monologo, di Roberto Chiesi

Pasolini dal dialogo al monologo
Comizi d’amore (1964), La forma della città (1974) e la trasformazione dell’Italia

di Roberto Chiesi
Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna
per gentile concessione della rivista online «I Diari di Cineclub» n. 7, 5 giugno 2013

 

In una lettera rivolta al produttore Alfredo Bini del settembre 1963, Pier Paolo Pasolini scrive che il film Cento paia di buoi (primo titolo di Comizi d’amore), al termine delle riprese, si è trasformato.

Mi sono trovato davanti a del materiale nuovo, pieno di straripante concretezza visiva. In che senso il film è diventato un altro? (…) protagonista, è diventato il pubblico, cioè le centinaia di interrogati, con Arriflex e registratore, in tutta l’Italia. La loro vivezza, la loro spettacolare fisicità, la loro antipatia, la loro simpatia, i loro strafalcioni, i loro candori, le loro saggezze, come dire la loro “italianità”, hanno preso prepotentemente il posto riservato alla nostra premura didascalica, e si sono presentati sullo schermo “come ciò che importa”.

“Ciò che importa” erano, quindi, gli italiani e le italiane, la gente del popolo e della piccola e media borghesia, che Pasolini ha incontrato, intervistato, incalzato, da Napoli a Palermo, da Roma a Milano, da Firenze a Viareggio, da Bologna a Venezia. Mentre stava effettuando i sopralluoghi per Il Vangelo secondo Matteo nel sud dell’Italia, Pasolini approfittava dell’occasione del viaggio per scandagliare le reazioni degli italiani di fronte a domande che investivano i loro tabù (il sesso, l’omosessualità, la diversità sessuale, il divorzio), per costringerli ad interrogarsi sui fondamenti della loro educazione, per provocarli nella fragilità dei loro pregiudizi.
Questo viaggio, compiuto dal poeta-regista con la macchina da presa e il microfono, a diretto contatto fisico con la gente anonima più disparata della penisola, traccia un quadro antropologico tanto casuale quanto ricco e sfaccettato di un paese che sta conoscendo un passaggio anomalo e bruciante dall’economia contadina all’industrializzazione. Ma è anche il viaggio intrapreso da un poeta che ama il suo paese per le potenzialità inespresse che ha, e soprattutto che ama la gente e in particolare la gente del popolo per la sua estraneità ai codici della piccola borghesia, per la sua contraddittoria innocenza. Il Pasolini che parla con decine e decine di persone di tutte le età, con la dolce e caparbia violenza delle sue argomentazioni, con la pedagogia trasgressiva del suo pensiero che penetra le corde più delicate e intime dei suoi interlocutori (la vita sessuale, appunto), è un Pasolini che ancora è animato dall’energia, dalla volontà, dall’utopia di cambiare il paese, di combattere per contribuire al cambiamento del paese.
Un cambiamento che s’identifica nella vittoria di quella classe popolare che è sempre stata al centro della sua ispirazione, dai campi friulani delle poesie de La meglio gioventù, fino al sottoproletariato romano delle Ceneri di Gramsci e dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta.
Adottando lo strumento di un cinema agile, un cinema che non ha bisogno delle strutture del set, dell’industria, ma si muove con la rapidità da reportage del cinema verità, Pasolini filma i volti della gente reale e li confronta, li interroga, li provoca sui problemi reali e concreti della loro cultura, della loro educazione, dei loro pregiudizi. È convinto che un film come Comizi d’amore possa scuotere qualche masso di oscurantismo, possa incrinare qualche certezza, possa mostrare, con la nuda verità dei fatti (in questo caso, la fisicità e la psicologia degli intervistati), quali siano le fragilità culturali e sociali dell’Italia. In un certo senso, la macchina da presa diviene un’arma per un dialogo sovversivo, per un dialogo che si contrappone all’Italia piccolo borghese, all’Italia del consumismo che sta avanzando.
Il fascino di Comizi d’amore risiede nella sua sistematicità (la divisione in capitoli e titoli) e nella libertà dei suoi movimenti (anche del movimento del corpo di Pasolini, sempre esposto in prima persona agli incontri e ai dialoghi del film) e alla strana, contraddittoria dialettica che ne deriva.
Se Comizi d’amore è il film di un regista che crede nel dialogo con l’altro, che lotta per una palingenesi, il breve documentario La forma della città è un monologo dove Pasolini riesce a sottomettere il mezzo televisivo per mostrare ai milioni di telespettatori lo scempio del paesaggio italiano e le piccole aree dove ancora resiste un’Italia umile, in via di estinzione. Non è più il dialogo fisico e diretto con qualcuno (dialogo che Pasolini non ha mai rifiutato e, anzi, ha continuato a praticare fino alla fine: dieci giorni prima di morire parlava con gli studenti di un liceo di Lecce in un incontro pubblico), ma è il monologo di chi è consapevole di incarnare verità che l’interlocutore rifiuta – come il degrado dell’Italia, il potere mefitico della televisione – e che combatte per una guerra in cui è completamente solo.
Negli anni Settanta, nonostante il servile conformismo che già allora la caratterizzava, la RAI produceva ancora qualche programma culturale di valore. La serie Io e…, curata da Anna Zanoli, un’ex allieva di Roberto Longhi, era senz’altro una delle trasmissioni più intelligenti e riuscite. Un intellettuale, uno scrittore o un artista italiano veniva sollecitato a parlare di un’opera d’arte prediletta: si susseguirono, fra gli altri, gli interventi di Eugenio Montale, Cesare Zavattini, Andrea Zanzotto, Tommaso Landolfi, Mario Luzi, Federico Fellini, e altri. Ogni programma durava circa un quarto d’ora ed era diretto da registi diversi, come Luciano Emmer e Paolo Brunatto. Nell’inverno del 1973-74, quando gli proposero di partecipare ad una trasmissione, Pasolini sulle prime disse che avrebbe parlato non di un quadro o di un libro, ma dei vecchi casolari di campagna. Poi mutò idea e si orientò su un’anonima fontana di Roma, priva di valore artistico, ma caratterizzata da un’identità sociale particolare come luogo di ritrovo di prostitute e lenoni. Scartata anche questa soluzione, decise di parlare di Orte e Sabaudia, due città che amava molto e che appartenevano alla sua vita, perché da qualche anno possedeva un’antica torre e un’abitazione nel bosco del fiume Chia, vicino a Orte, e la sua casa al mare si trovava proprio a Sabaudia.
In realtà, la scelta di quei due luoghi, così legati all’esistenza di Pasolini, divennero il pretesto per denunciare la speculazione edilizia, che stava devastando il paesaggio di Orte, ossia l’armonia fra le colline e la natura circostante e l’antica cittadina medievale. Un’armonia che aveva resistito per secoli, ma che venne deturpata nell’arco di pochi anni da alcune recenti abitazioni, costruite nel modo più arbitrario e senza rispettare il disegno del paesaggio. Fu lo stesso Pasolini a dirigere la mdp per mostrare lo scempio mentre la sua voce dolorosa e assorta, esprimeva un’indignazione profonda. Il poeta-regista introdusse, poi, l’inserimento di alcuni frammenti di Le mura di Sana’a, un bellissimo cortometraggio che aveva girato a Sana’a, la capitale dello Yemen del nord, al termine delle riprese che aveva effettuato in quei luoghi de Il Decameron. Era una città stupenda e antichissima che la modernità stava minacciando di distruzione.
Ritornando a commentare le immagini di Orte, Pasolini precisò che “mentre per Orte si può parlare soltanto di un lieve danneggiamento, di un difetto, per quello che riguarda, invece, la situazione dell’Italia, delle forme delle città nella nazione italiana, la situazione è decisamente irrimediabile e catastrofica”. Il poeta esaltò, poi, la bellezza umile di un’antica stradina di Orte e insistette sull’importanza di difendere e preservare un patrimonio artistico di urbanistica e edilizia popolare che aveva una grazia estetica mai più ripetuta. Sabaudia è percorsa dallo sguardo di Pasolini in una “grigia luce lagunare” e le forme massicce degli edifici costruiti in piena epoca fascista sono descritti con parole inattese dal poeta-regista, ricordando l’ironia che gli intellettuali, lui compreso, hanno riservato all’architettura del regime. “Il passare degli anni ha fatto sì che quest’architettura di carattere littorio, assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. (…) Come ci spieghiamo un fatto simile, che ha del miracoloso? Una città ridicola, fascista, improvvisamente ci sembra così incantevole…”.
Arrestatosi su una spiaggia di Sabaudia, battuta dal vento invernale, Pasolini si rivolge direttamente alla mdp e concludendo il cortometraggio, ecco che lo trasforma in uno “scritto corsaro” in forma di immagini, condensando alcuni degli argomenti della sua geniale polemica contro l’omologazione che aveva intrapreso da pochi mesi sulle pagine del «Corriere della sera». Il paesaggio urbano di Sabaudia rivela oggi una sua grazia perché, in realtà, il fascismo non è riuscito a distruggere l’Italia popolare, rustica e contadina, mentre il potere della società dei consumi, con le armi della televisione e il cancro dell’omologazione, sta distruggendo il paese nel profondo della sua identità.
Trasmessa per la prima volta il 7 febbraio 1974 dalla RAI, La forma della città è firmata da Paolo Brunatto, ma costituisce uno di quei casi “impuri”, tutt’altro che rari nel cinema, in cui l’apporto di chi è filmato assume un rilievo così forte da assorbire, in un certo senso, la paternità del film: infatti, in questo cortometraggio, Pasolini, oltre ad assegnare al film il respiro della propria dialettica, scelse e decise numerose inquadrature. Non a caso, inserì nella versione definitiva di Le mura di Sana’a alcune sequenze girate a Orte in quell’occasione e, in un’intervista a Gideon Bachmann (La perdita della realtà e il cinema integrabile, 13 settembre 1974), si attribuì la paternità del cortometraggio.