“Medea” di PPP, allegoria mitica del presente, di Sebastiano Lombardo

Su “Lo Specchio Scuro”, rivista online di cinema, fondata e diretta da Lorenzo Baldassari, Alberto Libera e Nicolò Vigna, è apparsa una interessante analisi del film Medea (1969) di Pasolini, curata da Sebastiano Lombardo, che è parte della redazione della testata. Vi è sottolineato in particolare il rapporto che il regista-scrittore intrattenne con il mito, letto come allegoria atemporale utile anche alla comprensione del presente.

Medea, «Un vaso pieno di sapere non mio»
di Sebastiano Lombardo 

http://specchioscuro.it -24 giugno 2016

«Perché solo chi è mitico è realistico, e solo chi è realistico è mitico» (Medea, 1969)

Nel 1969 Pier Paolo Pasolini torna a immergersi completamente in uno scenario mitologico con la sua seconda trasposizione di una tragedia greca, in questo caso della Medea di Euripide. Il rimando alla fonte euripidea è assunto dal regista ai fini di una rilettura antropologica del mito ancora una volta fortemente innervata dal presente. (1) Già in Edipo re (1967), infatti, la temporalità della tragedia di Sofocle aveva finito per costituire lo sfondo mitologico cui annettere una vicenda imperniata sul mito del mondo proletario dalle confessate tinte autobiografiche. «La differenza profonda tra Edipo e gli altri miei film è che è autobiografico, mentre gli altri o non lo erano oppure lo erano inconsciamente, indirettamente. In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo». (2)

"Medea"
“Medea”

Medea rappresenta dunque una nuova allegoria per la comprensione della realtà, poiché quest’ultima, in Pasolini, non si sottrae mai al mito, facendovi anzi sempre in qualche modo costante riferimento. Così la funzione del personaggio eponimo della tragedia e della pellicola diventa quella di tramite fra antico e moderno. Medea, a seguito della «folgorazione» per il giovane Giasone giunto in Colchide con lo scopo di rubare il vello d’oro, lascia la propria terra insieme all’eroe alla volta di Corinto senza però rinunciare al costume originario del suo paese. Credenze e usi della Colchide vengono subito presentati in una delle prime sequenze del film mostrando lo svolgimento, in una dimensione ancestrale, di un sacrificio, rituale magico messo in atto a fini propiziatori.
Il trapianto in Grecia, dove la natura e la divinità non appaiono più in grado di comunicare nulla, è vissuto dalla maga con atterrito sgomento, alla stregua di un urto senza possibilità di rimedio. L’alternanza di campi lunghi e lunghissimi attraverso cui visualizzare l’affollata celebrazione della divinità in Colchide ritorna per la restituzione di una nuova e diversa geografia del paesaggio, ora svuotato di qualsiasi presenza umana all’infuori di quella di Medea.

"Medea"
“Medea”

La protagonista, sul punto di un definitivo crollo causato dallo smarrimento del proprio orientamento religioso e spirituale, risolvendosi alla vendetta nei confronti del tradimento perpetratole da Giasone, realizza allora la scoperta della sua nuova condizione, pronunciando tali parole in risposta a quelle di conforto di un’ancella: «Forse hai ragione, sono restata quello che ero: un vaso pieno di sapere non mio». Con questa battuta si esplicita puntualmente quel sentimento nostalgico che connota la riflessione pasoliniana intorno alla realtà desacralizzata di un tempo presente in cui si conservano sempre le «apparizioni» sacre del passato. «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. […] L’intero dramma poggia su questa contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà». (3)
L’immagine del vaso, utilizzata in questo passaggio per evocare il principio di conservazione di un «sapere» antico e quindi «mitico», ricorre anche in altri contesti entro il lessico dell’autore in forma di parola scritta latina «vas» (4); essa, tuttavia, non è la sola presente nel film a rimandare al concetto di ierofania (5) se si considera la figura di Chirone cui è affidato l’accompagnamento pedagogico di Giasone. L’incipit del film mostra infatti il rapporto fra il centauro e l’eroe nel momento dell’allevamento di quest’ultimo, grazie a un monologo dai toni poetici con cui il precettore introduce il bambino a una visione sacrale della natura.
Ancora Chirone, in una sequenza successiva, arriva a manifestarsi di fronte a Giasone con l’intento di illustrare all’eroe ormai adulto le ragioni della sua doppia forma (6); egli rispolvera quindi la “catechesi” fondata sulla permanenza di un alone di santità per tutte le cose della realtà naturale soggette alla profanazione del tempo. Questa l’interpretazione che, rispondendo a una domanda di Jean Duflot, lo stesso Pasolini dà del dialogo fra i due personaggi:

Domanda: «Cosa significa questo dualismo?»
Risposta: «No, non si tratta di dualismo, né di sdoppiamento. Questo incontro, ossia questa compresenza dei due centauri, significa che la cosa sacra, una volta dissacrata, non per questo viene meno. L’essere sacro rimane giustapposto all’essere dissacrato. Con questo intendo dire che, vivendo, ho realizzato una serie di superamenti, di dissacrazioni, di evoluzioni. Quello che ero, però, prima di questi superamenti, di queste dissacrazioni, di queste evoluzioni, non è scomparso…». (7)

"Medea"
“Medea”

Insuccesso commerciale, stadio di massima saturazione nella rivendicazione di un punto di vista mitizzante, nonché esito cruciale per la poetica cinematografica dell’autore (8),  Medea, alla luce di quanto detto, assume il significato di parabola apocalittica «di un mondo» (9), quello permeato dalla religiosità antica cui appartengono le origini della protagonista, pensato per riferirsi anche e soprattutto alla realtà di quell’oggi vissuto da Pasolini quasi con amara rassegnazione, come emerge da molte delle sue ultime dichiarazioni:

Oggi siamo immersi in un mondo (di transizione) dove gli antichi valori rimangono ancora validi al tempo stesso che si degradano a vista d’occhio. […] Credo che se è così insistente la mia nostalgia del sacro, è perché rimango legato agli antichi valori. A volte, ho il sentimento che siano vittime di un’accelerazione artificiale, di un oblio ingiustificato, prematuro…. (10)

In ultima istanza, è attraverso Medea che Pasolini raggiunge il punto apicale nella sua presa di distanza dal mondo avanzato della società neocapitalistica già polverizzato dall’interno in Teorema (1968). Conseguenza diretta di questa urgenza risulta essere l’adozione da parte dell’autore di un procedimento prima di tutto retorico, per mezzo del quale ripristinare il mito, nell’arte come nella vita, diventa tecnicamente possibile. (11)

"Medea"
“Medea”

 Note
1.«Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. Curiosamente, quest’opera poggia su un fondamento “teorico”, di storia delle religioni: M. Eliade, Frazer, Lévy-Bruhl, opere di etnologia e di antropologia moderne», P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma 1993, 103.
2. Pasolini in una intervista dei «Cahiers du Cinéma», N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi Torino, 1989, p. 314.
3. P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, cit., pp. 103-104.
4. Il termine «vas» è contemplato da Pier Paolo Pasolini come ipotesi di titolo o sottotitolo per il suo ultimo testamentario romanzo Petrolio.
5. Sull’epifania del sacro nell’opera pasoliniana si è espresso Turigliatto affermando come «Dal momento che esistono solo opposizioni e non contraddizioni dialettiche che portino a sintesi ottimistiche, da qualunque punto si parta […] riemergono sempre le opposizioni mitiche, il passato si disvela nel presente come suo momento incancellabile, che continua a nutrirlo», R. Turigliatto, La tecnica e il mito, “Bianco e nero”, n. 1/4, 1976, 124-125.
6.«All’inizio, quando era bambino, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è diventato ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un’illusione. Nulla si perde», P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, cit., pp. 103-104.
7.P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, cit., p. 76.
8.Da questo film che «lo ha portato alle radici dell’allegoria morale e alla tecnica del film inconsumabile» Pasolini è convinto di poter trarre nuova linfa per una continuazione del discorso sulla ricerca di «un intero universo realistico», ad esempio con il successivo Decameron prontamente inserito fra i titoli dell’Abiura nel 1975: «Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo “trilogia della vita”, cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film […] li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, […] e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla tolleranza della civiltà dei consumi», N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989, pp. 348-349.
9. P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, cit., p. 54.
10.P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, cit., p. 53.
11. P.P.P. Pasolini, Il «cinema di poesia» e «Osservazioni sul piano-sequenza» in Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972.