Il calcio secondo PPP. Una riflessione in tre puntate di Valerio Curcio

Valerio Curcio, blogger e commentatore di calcio, racconta in un interessante scritto apparso in rete in tre puntate del marzo 2016 (http://iogiocopulito.ilfattoquotidiano.it) la passione calcistica di Pasolini, rarissimo esempio di grande intellettuale che amava non solo fare il tifo dagli spalti, ma  soprattutto giocare, ovunque ne avesse la possibilità: in campetti improvvisati o nelle pause del set come anche per beneficenza negli stadi veri. Un rito popolare, secondo lui, e una sopravvivenza di “sacralità” in un’epoca desacralizzata, oltre che un codificato sistema di segni linguistici di cui con originalità anche ironica il poeta-semiologo, che sul campo era una velocissima ala sinistra, si divertì a descrivere nel 1971 la grammatica e le regole di morfologia e sintassi e lo stile. Ma con varianti imprevedibili, la più smagliante delle quali è per il poeta-calciatore la “poesia” del pallone che va in rete.

Pasolini  e il calcio
di Valerio Curcio

http://iogiocopulito.ilfattoquotidiano.it –  puntate del 7, 19, 28  marzo 2016

I.Pasolini e il calcio. L’intellettuale che voleva essere un’ala sinistra

Con questo scritto si inaugura una serie di tre articoli con cui si tenterà di approfondire il rapporto biografico, critico e letterario tra Pier Paolo Pasolini e il calcio. La prima difficoltà sorge proprio da questo: si può parlare di un calcio secondo Pasolini? È davvero lecito accostare i contributi che il ragazzo, l’uomo, il poeta, lo scrittore, il regista, il giornalista, il critico hanno dato al gioco del pallone, come fossero frammenti di una “teoria generale” da dover ricomporre?
Ovviamente no. Le immagini e le opinioni che Pasolini ha dato di questo sport sono sporadiche e differenti per forma e tenore. Ma soprattutto divise tra produzione artistica, critica e vita vissuta. Ed è proprio agli aspetti biografici di questa relazione che questo primo articolo è dedicato.
La passione di Pier Paolo Pasolini per il calcio inizia senza dubbio a Bologna. È qui che, durante il liceo, gioca per ore e ore a pallone sui campi d’erba fuori porta, vivendo quelli che descriverà come «in senso assoluto i momenti più belli della mia vita».
Negli anni in cui si trova nella capitale emiliana, Pasolini ha la fortuna di assistere alla vittoria di quattro scudetti da parte del Bologna FC, che in quegli anni era all’apice mai più raggiunto della propria storia. Ne nasce un amore che Pasolini porterà dentro anche a Roma, come si evince dalle numerose lettere spedite ad amici e colleghi.
Nel 1957, il bolognese è un sorta di inviato speciale al derby romano per “l’Unità”. Lo accompagna Sergio Citti, amico e consulente di romanità per le sue opere. Ma, più che dalla partita giocata, i suoi occhi sembrano attratti dalle facce, dai colori, dalle frasi rubate a qualche gruppo di amici. Vinti e persi, popolari e borghesi, distaccati e provinciali, autoctoni e immigrati vengono passati in rassegna in un articolo che è un piccolo saggio di sociologia su chi frequentava gli stadi cinquanta anni fa.
Negli anni Sessanta Pasolini è ancora un fervente appassionato della squadra rossoblù, tanto da riuscire a coronare il suo sogno: incontrarne tutti i giocatori, per di più per intervistarli. Le video-interviste andranno a far parte del film documentario Comizi d’amore, un’inchiesta sul rapporto tra gli italiani e la sessualità. Nello film appaiono i giocatori del Bologna abbastanza imbarazzati di fronte ai quesiti irriverenti di Pasolini che, esaltato da quello speciale incontro, tempesta di domande i calciatori, ottenendo in cambio quasi solo monosillabi.
Ma Pasolini a Roma non dimenticherà quello che è il calcio giocato, da lui di gran lunga preferito a quello visto o tifato. Ninetto Davoli ricorda così l’imperversare del pallone nelle riprese dei film: «Spesso, se capitava di incappare in una partitella di ragazzi su un campo improvvisato, chiedeva di tirare due calci ed era felice come un bambino. Il giorno della partita con la nazionale attori, annullava qualsiasi impegno, dalle conferenze alle riprese di un film».
Tutto il cast viene coinvolto nelle partite, dagli attori di punta ai macchinisti. L’accattoneFranco Citti racconta che «dopo le partite, si ammusoniva di nuovo. Era come se all’improvviso cadesse un velo su tutto. Finiva l’esaltazione, il momento magico che lo faceva ritornare come un ragazzino a sorridere e a ridere. […] Grondanti di sudore e sporchi di terra e fango, ci infilavamo sotto le docce e lui ritornava ad essere solo, immediatamente si ritrovava ad annegare nei pensieri e nei problemi che non raccontava mai a nessuno».
Pasolini è l’anima della nazionale dello spettacolo per parecchi anni: assieme a Gianni Morandi, Little Tony, Ninetto Davoli e allo stesso Franco Citti gira l’Italia a scopo di beneficenza, o sfrutta d’estate la ben frequentata Grado per coinvolgere personaggi dello spettacolo e calciatori in partite che divengono gli eventi più attesi della stagione estiva.
Ma c’è una partita che, molto più delle altre, resterà nella storia. E’ una delle ultime partite di Pasolini, giocata il 16 marzo 1975 sul campo di allenamento del Parma. L’occasione è importante: è il compleanno di Bernardo Bertolucci, già regista affermato, “scoperto” da Pasolini come aiuto-regia in Accattone. Il bolognese si trova in zona per girare Salò o le 120 giornate di Sodoma, il parmigiano è invece sul set di Novecento. Laura Betti decide di organizzare questo atipico compleanno a Bertolucci anche per rompere un po’ la tensione provocata, nei mesi precedenti, da alcune critiche di Pasolini a Ultimo tango a Parigi. La partita rimarrà negli annali col nome di “Novecento VS Centoventi” e vedrà vittoriosa la squadra di Bertolucci, il quale però si limiterà a guardare la partita. A testimonianza dell’evento e del risultato, le riprese sono oggi visibili nel film documentario di Laura Betti Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno, uscito nel 2001.
La presenza del calcio come elemento autobiografico si riflette negli scritti di Pasolini in maniera invadente: è facile imbattersi in una partita, per chi legge Ragazzi di vita Una vita violenta. Come osserva Valerio Piccioni nel suo Quando giocava Pasolini, le partite non sono mai intese in quanto competizioni con un risultato, dei vincitori e dei vinti. Quelli che ci regala Pasolini sono piuttosto degli spaccati di partita, utili soprattutto per mostrare un duello, un gesto di sfida, un insulto, ma senza mai sconfinare nella cronaca sportiva.
E’ dunque un calcio lontano dagli stadi, lontano dal giornalismo, ma anche lontano dai campi di calcio di bassa categoria, in cui si giocano partite con le regole del pallone. E’ questo il calcio che Pasolini ama di più, fatto di corpi, fisicità, corsa e sudore: non importa se si giochi con un pallone sgonfio o in mezzo ai rifiuti, perché rimane calcio nella sua essenza primordiale. Sono questi, forse, i suoi campi di calcio preferiti, in cui “riposarsi” dalle fatiche delle riprese, in cui studiare e vivere i sobborghi di Roma, in cui scovare qualche volto per il prossimo film.
L’ala sinistra Pasolini è disposta a giocare ovunque: dai campi improvvisati di periferia, senza porte né punteggio, agli stadi della Serie A prestati alla nazionale dello spettacolo. Questa duttilità, questo amore per il calcio giocato ad ogni livello, si possono spiegare solamente così: Pasolini ama il calcio in ogni sua forma, e lo riconosce in quanto tale anche quando è un semplice correre appresso a un pallone in mezzo alla polvere. Ma cos’è che rende due calci dati al pallone in mezzo alla sterpaglia equiparabili a un match di Serie A? Qual è il comun denominatore? Cos’è ciò che rende riconoscibile il calcio in quanto tale in ogni sua forma e manifestazione? Pasolini, dopo decenni di calcio giocato e tifato, sente di averlo scoperto. Ma prima ha bisogno di definire il suo ruolo, abbastanza anticonvenzionale per l’epoca, di intellettuale impegnato che ama il calcio.

Pasolini in campo. Alla sua sinistra Mario Valdemarin
Pasolini in campo. Alla sua sinistra Mario Valdemarin

II. Pasolini e il calcio. Il pallone è l’occhio dei popoli?

Pier Paolo Pasolini è un intellettuale che affronta lo sport, in particolare il calcio, da ogni punto di vista possibile. Come Arpino, Bianciardi, Del Buono, non ha paura di sporcarsi le mani parlando di calcio. E quando gli intellettuali si accostano al gioco del pallone in maniera non snobistica, riescono spesso a comunicarne gli aspetti migliori o a darne interpretazioni che vanno ben oltre il semplice fatto sportivo.
La questione di cui si tratterà è semplice e ricorrente, ben sintetizzata nel 1995 dall’uruguaiano Eduardo Galeano, nel suo celebre Splendori e miserie del gioco del calcio, raccolta di brevi riflessioni e racconti sullo sport più famoso del mondo: «Il disprezzo di molti intellettuali conservatori si fonda sulla certezza che l’idolatria del pallone è la superstizione che il popolo si merita. […] In cambio, molti intellettuali di sinistra squalificano il calcio perché castra le masse e devia la loro energia rivoluzionaria».
Questo quadro, assai sintetico, è più o meno lo stesso in ogni paese in cui il calcio sia lo sport dominante, e spesso resiste ancora oggi. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui di certo l’ignavia politica era vista peggio che oggi, il dibattito sullo sport è fervente. Nel gennaio 1969, Pasolini scatena un’accesa polemica con Giovanni Arpino su questo tema, esponendo le sue visioni sulla rubrica Il Caos tenuta sul periodico “Tempo.
In un primo articolo, Pasolini aveva manifestato la sua antipatia verso Nino Benvenuti, campione della boxe tricolore, rinomatamente di estrema destra. In seguito alla sollevazione dei sostenitori del pugile, Pasolini risponde a una lettrice in maniera altrettanto veemente: «Può dunque capire come ci si debba augurare che Benvenuti perda il prossimo incontro e tutti gli incontri futuri, che la Nazionale italiana si imbatta in una serie di fatali Coree, e così via: in modo che non ci si aspettino più, una volta per sempre, delle false consolazioni ai bassi salari».
Con quella che è evidentemente una provocazione, Pasolini si schiera su una posizione di doppio rifiuto: da un lato, all’interno del Paese, rigetta lo sport come diversivo e motivo di futile gioia per le masse sfruttate; dall’altro, nel rapporto con il resto del mondo, rifiuta l’immagine vincente e nazionalista dell’Italia sportiva come posticcio di una nazione senza cultura. Tali parole però, strettamente legate ad un contesto, vengono isolate e forse strumentalizzate da Arpino, che su “La Stampa lancia una facile invettiva contro Pasolini, portato a rispondere ancora.
Nella sua replica, Pasolini opera un discernimento fondamentale per quanto riguarda la sua visione dello sport. Da un lato, vi è lo sport praticato, che nobilita l’uomo dal punto di vista sociale e fisico, un’attività ancora troppo rara in Italia e che, secondo lui, va incentivata fortemente. Dall’altro, vi è lo sport come spettacolo, un’attività stupida e tuttavia molto umana, che rimane, in ogni caso, un’evasione.
L’Italia è dunque una nazione in cui lo sport viene seguito molto e praticato poco: tale discrepanza crea, inevitabilmente, l’illusione che l’Italia dei trionfi internazionali corrisponda a quella reale, quando invece anche le medaglie d’oro azzurre alle Olimpiadi sono irrilevanti rispetto a quelle di altri paesi.
L’attacco di Pasolini va perciò contestualizzato, al contrario di quanto fatto da Arpino. E’ un attacco all’ipocrisia, dominante ancora oggi, legata alle vittorie sportive in campo internazionale, spesso enfatizzate oltremodo e caratterizzate da punte di patriottismo esasperato, se non di vero e proprio nazionalismo. Su questo tema, Pasolini ritornerà ancora: «A proposito di nazionalismo: non sarebbe ora che ci considerassimo cittadini transnazionali anche come sportivi? […] Io desidero vedere annunciare nei giornali le vittorie (o meglio, i trionfi) dei grandi campioni a caratteri cubitali, su cinque, su sei colonne: come venivano annunciate le vittorie (trionfi) di Bartali, di Coppi, e ultimamente di Gimondi».
Nel 1969, quello del calcio come oppio dei popoli è evidentemente un tema che ricorre, per di più un argomento a cui Pasolini è estremamente sensibile. A novembre di quell’anno, il bolognese reagisce con rabbia alle parole di Helenio Herrera, allora allenatore della Roma, che aveva dichiarato: «Il calcio – e in genere lo sport – serve a distrarre i giovani dalla contestazione. Serve a tener buoni i lavoratori. Serve a non far fare la rivoluzione. Come fa Franco in Spagna con le corride». Parole forti, che toccano un tema sicuramente caldo in quegli anni, caratterizzati da una fortissima adesione sia ai movimenti politici sia alle tifoserie organizzate.
Sempre sullo stesso argomento, nel 1975 desterà scalpore l’intervista di Gianpaolo Ormezzano a Enrico Berlinguer su “Tuttosport”, che titola ben visibile in prima pagina Berlinguer: lo stadio non è oppio. Rispondendo al giornalista, che gli chiedeva se è vero che lo sport è responsabile di «ottundere le coscienze, di favorire l’alienazione delle masse», il segretario del PCI risponderà così: «Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, al lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali. Non voglio dire con questo che la domenica allo stadio giovi alla politicizzazione dell’operaio, ma non spartisco la paura per le conseguenze di questa sua vacanza festiva».
Qualche mese più tardi, in quella che probabilmente è la sua ultima intervista prima della morte, Pasolini torna su questo tema rispondendo alle domande di Claudio Sabattini: «Che lo sport (i “circenses”) sia “oppio del popolo”, si sa. Perché ripeterlo se non c’è alternativa? D’altra parte tale oppio è anche terapeutico. Le due ore di tifo (aggressività e fraternità) allo stadio, sono liberatorie: anche se rispetto a una morale politica, o a una politica moralistica, sono qualunquistiche ed evasive».
L’intervista viene pubblicata su uno storico numero del “Guerin Sportivo”, il primo dopo la morte del bolognese. La redazione sceglie infatti di dedicare la copertina non al solito campione del calcio italiano o internazionale, ma all’intellettuale in perfetta tenuta del Bologna mentre si allaccia gli scarpini prima di entrare in campo.
Tornando alle parole di Herrera, la critica di Pasolini non è tanto rivolta alle considerazioni dell’allenatore argentino, quanto alla mancanza di reazioni “a sinistra”: «I giornali di sinistra hanno forse paura di criticare Herrera? Forse perché i lavoratori vanno in massa agli stadi? E sarebbe dunque impopolare parlare male di Herrera, come sarebbe impopolare parlare male degli insopportabili cantanti di canzonette, che, come il calcio, e peggio, “distraggono dalla rivoluzione”?».
Quello di Pasolini è un invito a “sporcarsi le mani”, a vivere dal di dentro le innegabili questioni socio-politiche che lo sport di massa pone agli intellettuali. Va dunque superato il divario sport-politica, per iniziare a considerare le due cose non come antitetiche, ma come legate da una stretta relazione: l’una come specchio dell’altra. In quest’ultima considerazione, forse meglio che in tante altre, Pier Paolo Pasolini descrive la propria complicata condizione rispetto allo sport. A parlare sono un intellettuale, uno scrittore, un giornalista d’opinione, un giornalista sportivo, un giocatore di calcio e un tifoso, tutti insieme: «Io infatti vivo la contraddizione dello sport […]. Ma proprio per questo, perché ci sono dentro, posso discuterne senza la purezza di chi non conosce le cose e non ne è coinvolto. Posso permettermi, per una volta, di scandalizzarmi».

III. Pasolini e il calcio. Da linguaggio a “rappresentazione sacra”

Questo excursus attraverso il rapporto tra Pasolini e il calcio ci porta, in conclusione, a quello che è – nell’opinione di chi scrive – il contributo più alto offerto dall’intellettuale bolognese al mondo del calcio. Avevamo concluso il primo capitolo affermando che Pasolini, amante di questo sport in ogni sua forma, ha intuito quale sia il comun denominatore che lo porta ad apprezzare forme di calcio così diverse.
Tale contributo viene pubblicato su “Il Giorno del 3 gennaio 1971. In tale articolo, Pasolini si dedica ad un’inaudita interpretazione del gioco del calcio. Il titolo parla da sé: Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori.
Per l’autore, il gioco del pallone è un “sistema di segni”, una lingua articolata a sua volta in differenti varietà, che corrispondono a differenti stili di gioco. Il meccanismo di creazione del significato nel calcio non è così differente da quello di una lingua parlata. Esistono infatti delle unità minime di significato, battezzate scherzosamente “podemi”, che corrispondono ai fonemi linguistici: la loro combinazione dà origine alla sintassi del gioco del calcio, un discorso regolato da vere e proprie norme. L’unità minima “podema corrisponde a «un uomo che usa i piedi per calciare un pallone» e grazie alla combinazione di molteplici unità si possono formare infinite “parole calcistiche.
Nella linguistica del calcio ideata – o scoperta? – da Pasolini, gli stili di gioco corrispondono a dei sottocodici linguistici, che si muovono da un estremo, la poesia, all’altro, la prosa realista. I migliori interpreti del gioco prosastico sono le squadre centro-europee, che antepongono la costruzione del sistema sintattico allo spunto individuale, privilegiando dunque un gioco geometrico e corale. I migliori poeti sono invece i brasiliani e in generale tutti i latinoamericani: il loro calcio privilegia il dribbling, ovvero la soluzione fulminante, artistica e individualista che vede un calciatore liberarsi da solo dell’avversario, senza la necessità di dover scambiare il pallone con un compagno.
L’Italia si colloca più o meno a metà tra questi due estremi, con la sua “prosa estetizzante corrispondente al gioco corale che non disdegna affatto gli individualismi. Pasolini riconosce dunque che ogni popolo è caratterizzato, per ragioni storico-culturali, da una particolare varietà di linguaggio calcistico. E non ha paura ad affermare che i giocatori italiani, «con il fondo quasi sempre conservatore e un po’ speciale… insomma, democristiano», ben rappresentano la cultura dell’Italia del tempo.
Nel linguaggio del calcio, anche nel gioco più prosastico e corale, è tuttavia previsto un momento di poesia. Si tratta del goal: «Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno».
Il calcio è dunque un linguaggio. Un linguaggio intuitivo, giocato coi piedi e un pallone, utilizzabile in qualsiasi circostanza: non ha necessariamente bisogno di una porta, di un arbitro, di un risultato. «Chi non conosce il codice del calcio non capisce il significato delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi)».
Pasolini conosce bene il linguaggio del calcio. Ed è questa conoscenza che gli permette di parlarlo e interpretarlo in qualsiasi contesto: che si tratti di due calci al pallone coi ragazzi di vita o di una partita contro le vecchie glorie della Serie A in uno stadio. E’ dunque il “podema l’unità minima, ciò che permette al poeta di apprezzare la realizzazione del discorso-calcio in qualsiasi contesto e declinazione.
Ma il linguaggio del calcio non ha il solo scopo di realizzare la comunicazione fra calciatori: «I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice». Questo sport dunque, con i suoi giocatori-cifratori che comunicano, seguendo delle regole canoniche, con una massa di tifosi-decifratori, altro non è che un rituale religioso:

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo.

Nella seconda metà del Novecento, i grandi riti di massa sono finiti o in declino: la catarsi del teatro, la messa cattolica, la liturgia fascista. È il calcio l’unico fenomeno ancora capace di coinvolgere le masse, di farle evadere dalla realtà, di rapirle in un’estasi di sentimenti collettivi. Ed è un rito che si basa, come sottolinea Pasolini, sul rapporto carnale fra l’esecutore e i testimoni, per cui la presenza fisica delle due parti è fondamentale. Il cinema non può assolvere alla funzione di rito, proprio per la mancanza fisica dell’esecutore.
Pertanto il calcio, in quanto manifestazione fine a se stessa, assolve principalmente il ruolo di rappresentazione sacra.
È un ruolo che in parte mantiene ancora oggi, resistendo a stento allo strapotere della comunicazione, che ha ormai svuotato di sacralità il rito portandolo nelle case degli interessati a qualsiasi ora. Tuttavia, il calcio continua ad essere un linguaggio senza il quale il rito non può essere compreso, così come i partecipanti al rito continuano ad essere accusati per la vanità della propria fede calcistica.
Eppure, nell’epoca dell’immediatezza, del flusso incontrollabile di news, dell’apporto esagerato di informazioni superflue, il rito del calcio riesce ancora ad essere uno dei pochi fenomeni della società capace di costruire storie, leggende, miti. Nell’era dello strumentale e dell’utilitaristico, resiste ancora come attività priva di un’utilità immediata. Forse questa visione può sembrare ingenua, poiché è chiaro a tutti che il calcio sia ormai dal punto di vista economico un enorme mercato in cui la legge vigente è senza dubbio quella del profitto. Ma, citando Eduardo Galeano, che forse centra appieno l’essenza immodificabile di questo sport, «per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia». Ed è forse questa la chiave del rito: la sua imprevedibilità e incontrollabilità, che lo fa sfuggire al calcolo e al potere umano per collocarlo, per forza di cose, nell’ambito del super-umano.