Da Pasolini a Ginsberg: cinque poesie dedicate alle madri

La poesia ha decantato in vari modi  il rapporto di un figlio con sua madre.  Pasolini, Saba, Ginsberg, Ungaretti e  Rilke sono stati scelti in rete da Federica D’Alonso per una speciale galleria di voci poetiche.

Cinque poesie per le madri
di Federica D’Alonso

www.fanpage.it – 12 maggio 2017

Per molti poeti, dall’antichità ai giorni nostri, la figura materna ha costituito un inevitabile specchio in cui guardarsi, in cui esser costretti a fare i conti con le proprie vite. Molti poeti hanno scritto alle proprie madri assenti, lontane o scomparse: perché solo grazie al distacco la poesia si carica di forza comunicativa.  Attraverso il rapporto con la madre, il poeta parla di se stesso. Ecco cinque poesie dedicate a questo inesauribile rapporto.

Umberto Saba: Preghiera alla madre
Questa poesia, pubblicata nella raccolta Cuor morituro (1925-1930), è occasione per Saba di fare i conti con il complesso e a tratti doloroso rapporto con sua madre, Rachele Cohen. Il padre, Ugo Poli, l’aveva abbandonata prima della nascita del figlio, e il piccolo Umberto si era ritrovato a crescere con una donna aspra e severa, indurita dai sensi di colpa e dai vissuti amorosi travagliati. Per tre anni Umberto Saba viene affidato ad una balia, Peppa Sabaz, una contadina slovena che lo cresce con amore e dedizione: il poeta si lega indissolubilmente a questa donna, e nel 1910 cambia il proprio cognome in quello di Saba, in omaggio alla nutrice. Due figure materne, dunque, coesistono in questa poesia, in cui entrambe si sublimano fino a rappresentare il rapporto, doloroso ma pieno d’amore, di un figlio con sua madre:

Madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo).
Madre
ieri in tomba obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.[…]

Pier Paolo Pasolini: La ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

[…]

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

[…]

È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.

Anche in questo caso, una figura ambivalente quella della “madre”, a metà tra allegoria e realtà. Le madri a cui Pasolini si rivolge indirettamente in questo inno sono due: la povera, maltrattata “mamma Roma” e la sua, amatissima, Susanna. Pier Paolo Pasolini ci interroga sull’amore materno con una forza incredibile: come, con quale forza e coraggio, una madre può insegnare al proprio figlio un dolore così immenso come quello di diventare uomo? Pasolini per tutta la vita non smise mai di raccontare di quel legame fortissimo, “mostruoso”, di una madre con i suoi figli.

Allen Ginsberg: Kaddish
Un’identità complessa quella di Ginsberg: ebraismo, buddismo, omosessualità, beat. Una complessità che si esprime con forza in Kaddish e che sembra trovare il punto di equilibrio proprio nella figura della madre e nella difficile espressione del dolore per la sua morte. Naomi Ginsberg aveva vissuto gran parte della sua vita in un ospedale psichiatrico, e il senso di colpa per non esserle stato vicino colpisce Allen in modo indicibile. Ci vollero tre anni per scrivere questa poesia: un rito funebre di un figlio per la madre.

[…]
con la tua pancia afflosciata
con la tua paura di Hitler
con la tua bocca di brutti racconti brevi
con le tue dita di mandolini lagnosi
con le tue braccia di grassi colonnati a Pterson
con la tua pancia di scioperi e ciminiere
cin il tuo mento di Trotzkij e Guerra di Spagna
con la tua voce che canta per il declino degli operai ultrasconfitti
[…]
con i tuoi occhi
con i tuoi occhi di Russia
con i tuoi occhi di neanche un quattrino
con i tuoi occhi di falsa porcellana,
con i tuoi occhi di zia Elanor in una tenda a ossigeno
con i tuoi occhi di India che muore di fame
[…]
con i tuoi occhi  legata al  tavolo operatorio
[…]
con i tuoi occhi sola
con i tuoi occhi
con i tuoi occhi
con la tua Morte piena di Fiori.

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Rainer Maria Rilke: Le mani della madre
La poetica di Rainer Maria Rilke racchiude, all’interno di versi sublimi e di una metrica raffinata, un intenso e complesso rapporto con la divinità. In questo caso, la figura della madre per eccellenza è la Madonna, a cui Rilke dedica un breve poemetto, scritto nel 1902: la maternità si fa qui occasione di perdono e redenzione.

[…]
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.

Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina…

Ma tu, tu sei la pianta.

Giuseppe Ungaretti: La madre
Anche in questo caso il doloroso distacco dalla figura materna diventano occasione per una lirica affranta, ma piena di ammirazione per una madre che si trasforma in simbolo di amore senza paragoni. La madre di Ungaretti attende il figlio, e con esso tutti i figli, sulla porta dell’eternità, pregando per la sua salvezza e rivolgendogli sguardi d’amore: come in tutte le sue poesie, forte è l’eco della tragedia della guerra e di un vissuto carico di dolore.

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

*Foto in copertina: © Vittorio La Verde