“Calderón” di PPP nella lucida regia di Federico Tiezzi, di Gianfranco Capitta

Dopo il debutto del 21 aprile 2016, sarà in scena al Teatro Argentina di Roma fino all’8 maggio  il nuovo allestimento della tragedia in versi di Pasolini Calderón, riletta da un grande maestro del teatro contemporaneo, Federico Tiezzi. Uno spettacolo riuscito dal doloroso  impatto, come si evince dalla recensione di Gianfranco Capitta che ne elogia la chiarezza rigorosa,  assecondata da un cast di attori di mirabile adesione al testo e da una regia ispirata, capace di restituire la  parabola claustrofobica del ‘900 e  i paradossi anche comici del rapporto impossibile con la società.

Nei sogni di Rosaura la parabola del ‘900
di Gianfranco Capitta

http://ilmanifesto.info/ – 23 aprile 2016

Sicuramente è la produzione più importante del Teatro di Roma per questa stagione, al di là delle celebrazioni pasoliniane nel quarantesimo anniversario della morte dell’autore. Federico Tiezzi offre con Calderón (all’Argentina fino all’ 8 maggio) uno spettacolo di grande impatto e respiro, con una buona compagnia di attori e il risultato non secondario di rendere chiarissima la tragedia in versi. Che sicuramente è uno dei testi fondamentali del teatro (ma forse dell’intera poetica) di Pasolini, scritto come le altre sue drammaturgie tra il 1966 e l’anno successivo, e pubblicate poi negli anni 70.
Di quel titolo esistono poche edizioni di riferimento, a cominciare dalla prima che Luca Ronconi dilatò (e fece quasi danzare) sulla scena sterminata del Metastasio di Prato, ottenuta da Gae Aulenti coprendo le poltrone della sala con un inusuale prolungamento del palcoscenico. Poi si ricorda l’edizione di Giorgio Pressburger che ne fece anche un film, e poco altro. Ma ora Calderòn ritorna con forza sulla grande scena dell’Argentina, enorme scatola di muratura dove il «destino» di Rosaura si declina con chiarezza nei suoi tragici tentativi di incontrare il mondo in una evasione impossibile.
Nato infatti dalla Vita è sogno, capolavoro di Calderón de la Barca (tanto da prenderne dall’autore il titolo), il testo pasoliniano guarda senza nostalgia un secolo, il ’900, le sue aspirazioni e frustrazioni, e le speranze di incerto futuro, nei tre episodi che Rosaura (e con lei re Basilio e il figlio Sigismondo, tutti originati dal testo del Siglo de Oro) si trova ad attraversare, usando come chiave di lettura l’alternanza, o il labile confine, tra sonno e veglia.
Sono infatti i risvegli di quella creatura femminile in tre diversi momenti (e ambienti, e situazioni di classe, parentela e famiglia) a dar luogo alla drammaturgia e alla tensione, e alla poesia e ogni volta al dolore, con cui Pasolini, senza giudicarli in apparenza, scandisce l’intero secolo. Il primo risveglio di Rosaura avviene, a fine anni ‘30, in una aristocratica famiglia della Spagna franchista, dopo la guerra civile. E «giocando» tra dentro e fuori, come Vèlasquez mentre dipingeva le sue Meninas, si innamorerà di un Sigismondo che scoprirà essere segretamente suo padre. Nel secondo sogno Rosaura si sveglia nel suo letto di prostituta alla periferia cadente di Barcellona, ma stavolta finisce con l’innamorarsi di un figlio partorito e perso nella propria adolescenza.

"Las Meninas" di Vèlazquez
“Las Meninas” di Vèlasquez

Terzo incubo nel mondo borghese degli anni ‘60, una borghesia «peggio che fascista» dove Rosaura con le sue resistenze ad assimilarvisi finisce per essere presa clinicamente per pazza, o depressa o quel che si vuole. Comunque estranea, antagonista a quel mondo cui non si assimila, come le sue consorelle precedenti. L’impossibilità di un rapporto quale che sia con l’organizzazione sociale ne esce nettissima e dolorosa, mentre Pasolini ci fa intravedere il ’68 e le possibilità liberatorie rimaste ancora alla classe operaia, senza nascondersene contraddizioni e difficoltà.
In due ore e mezza filate, il «teorema» del poeta, perlustrazione crudele dentro e fuori di sé, come dentro e fuori dal mondo, procede implacabile, e ben riconoscibile. Senza rinunciare ai paradossi e agli aspetti anche comici di quelle miserie mondane, ma anzi usandoli per valorizzare il notevole cast che Tiezzi ha a disposizione, rivestito con fantasia e qualche mistero da Giovanna Buzzi e Lisa Ruffini, mentre Raffaella Giordano ha curato i movimenti e Francesca Della Monica le voci. Un cast che ovviamente fa perno sulle tre Rosaure, così diverse eppur strette parenti (Camilla Semino Favro adolescente inquieta, una fantastica Lucrezia Guidone, Debora Zuin amaramente consapevole) allo stuolo delle rispettive sorelle, al bravo Graziano Piazza con i suoi multiformi Sigismondi, al cameo gustoso di Francesca Benedetti per una ambigua vecchiaia di maternità, e poi ancora Ivan Alovisio e gli altri, per arrivare alla centralità (tra Velasquez e lo stesso Pasolini) di Sandro Lombardi, un re Basilio che si fa anche padre e padrone, disilluso e cinico nel proprio primato. Tutte voci, dissonanti ma coordinate delle molte domande che Calderòn continua, nonostante tutto, a porci.