Al Vascello di Roma ultime repliche di “Siamo tutti in pericolo”. Due recensioni

Chiuderà domenica 15 marzo 2015, al Vascello di Roma, l’ultima replica del fortunato spettacolo Siamo tutti in pericolo, titolo del lavoro che ripercorre i difficili anni Settanta e che richiama l’ultima intervista a Pier Paolo Pasolini da parte di Furio Colombo, poche ore prima del suo assassinio. Il regista della pièce è Daniele Salvo, mentre Gianluigi Fogacci presta volto e voce a Pasolini e Raffaele Latagliata veste i panni di Colombo. In scena vengono rievocati gli articoli che Pasolini scrisse nel 1975 per il “Corriere della Sera” e “Il Mondo”, una raccolta nota come Lettere luterane, che uscì postuma per Einaudi nel 1976. Alcuni dei temi trattati sono i giovani, la politica, il progresso, i media: le Lettere sono il grido di un poeta, il più grande intellettuale che l’Italia ebbe nel Novecento, contro il declino della società.
Sempre domenica 15, su invito e subito dopo la rappresentazione di Siamo tutti in pericolo, ci sarà spazio anche per  Pilade , tragedia teatrale di Pasolini sul quale hanno lavorato venti giovani attori under 35, di diversa provenienza (a cura della compagnia “I Sognatori”, regia di Daniele Salvo). Un modo per avvicinarsi alla figura e all’opera di Pasolini e comprenderne più a fondo il pensiero. 

Intanto, sullo spettacolo diretto da Daniele Salvo pubblichiamo volentieri due recensioni positive uscite in rete, spazio sempre più ospitale per la critica teatrale rispetto alla carta stampata.

"Siamo tutti in pericolo" di Daniele Salvo. Locandina
“Siamo tutti in pericolo” di Daniele Salvo. Locandina

di Elvira Sessa
www.quartaparetepress.it – 12 marzo 2015

Ispirato a Lettere luterane, raccolta degli ultimi articoli che Pier Paolo Pasolini ha scritto nel 1975 per “Il Mondo” e “Il Corriere della Sera” e, in particolare, all’intervista-testamento, che lo scrittore ha rilasciato il primo novembre del 1975 a Furio Colombo poche ore prima del suo assassinio, lo spettacolo Siamo tutti in pericolo non è solo un resoconto, bruciante, degli avvenimenti politici e culturali dell’Italia degli anni Settanta, letti con la lente di un poeta. Lo chiarisce subito Daniele Salvo, regista e drammaturgo della pièce, al suo debutto al Teatro Vascello dal 5 al 15 marzo (prodotta da La Fabbrica dell’Attore in collaborazione con Fahrenheit 451 Teatro): «L’opera provoca riflessioni di stampo politico ma non vuole essere un documentario».  E aggiunge: «Per me era soprattutto necessario amplificare l’ambito poetico» dell’opera di Pasolini.
La scommessa è riuscita.
Con una scenografia dominata dal bianco e nero (i colori del pavimento, delle videoproiezioni e dei pochi e funzionali elementi scenici quali un letto, una sedia girevole, una scrivania), gli effetti di luce ed ombra, i chiaroscuri vocali del protagonista (un vibrante Gianluigi Fogacci, nei panni dello scrittore), Salvo ci restituisce vigorosamente non solo gli scritti (riproposti fedelmente, secondo gli insegnamenti di Luca Ronconi con cui il regista ha lavorato diciotto anni e da cui ha appreso l’importanza di mettere al centro “il mondo dell’autore, non del regista”) ma l’essenza di Pasolini, la sua identità, in primis la sua tragica contraddizione.
Infatti, il Pasolini che ci descrive Salvo e che vive nella coinvolgente interpretazione di Fogacci, intervistato e messo “sotto processo” da un audace ed incisivo Raffaele Latagliata (nei panni di Furio Colombo), è al tempo stesso un appassionato poeta, che si abbandona allo stupore per il candore degli emarginati, e un intellettuale lucido e disincantato, inquisitore della Democrazia Cristiana che rifugge dalle ideologie comuniste.
Le due anime di Pasolini, il poeta e l’intellettuale, prendono corpo già da prima che inizi l’azione scenica. Basta varcare la soglia della sala per cogliere l’atmosfera dello spettacolo, ovvero l’equilibrata e attraente miscela tra l’onirico e il politico-documentario: ad accogliere gli spettatori, mentre si prende posto, sono una nuvola di fumo bianco e la voce registrata dello stesso Pasolini che legge poesie tratte da Le Ceneri di Gramsci; al centro del palco si intravedono un giovane uomo nudo (Michele Costabile, che sembra incarnare Ninetto Davoli, l’adolescente che per Pasolini rappresentava la purezza e l’ingenuità) ed un uomo (Fogacci) seduto alla scrivania dinanzi alla sua vecchia Olivetti. Il giovane, poi, inizia a muoversi con grazia e disinvoltura e Pasolini apre un libro da cui si sprigiona una fiamma che gli illumina il volto, forse a voler sottolineare, con un riuscito effetto scenico, la “forza caustica” della parola scritta.
L’onirico (o meglio, l’incubo) lo si ritrova espresso efficacemente anche in un momento successivo: quando si vede Pasolini, dormiente ed indifeso, aggredito con un manganello da un uomo dalla camicia nera, con il volto coperto da una mostruosa maschera di lattice e dagli inquietanti movimenti sincopati; una scena che sembra profetizzare l’assassinio del poeta, di cui ancora oggi non sono chiari gli autori e le responsabilità.
A mantenere alta l’attenzione del pubblico sono, oltre a questi riusciti espedienti registici, anche le numerose proiezioni (immagini video Indyca, Torino) con immagini di repertorio dell’Italia degli anni di piombo e con volti di vari politici dell’epoca, quali Nixon e Papadopoulos, oltre ai principali esponenti della Dc (da Andreotti a Moro) e agli espressivi ritratti del poeta, opera di Franco Accursio Gulino. E, per finire, le laceranti parole di Pasolini, proiettate a caratteri cubitali sullo schermo, ancora oggi così attuali: “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più i meridionali, cittadini di seconda qualità.  I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso, la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata” (tratto da un articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” il 28 settembre del 1975).
A questo grido ben si accompagna il concerto n. 2 di Mikolaj Gorecki che, come spiega il regista, «è il commiato di un figlio condannato a morte nelle prigioni dei Paesi ex comunisti» e dove nel canto accorato del soprano che interpreta il doloroso addio vibra tutto Pasolini, il suo addio all’Italia che lo ha generato e il suo monito a restare vigili, senza cadere preda del consumismo e della massificazione e mercificazione dei rapporti umani, perché, come egli stesso spiega alla fine della sua ultima intervista, “Siamo tutti in pericolo”.

"Siamo tutti in pericolo". Foto di Valentina Baruffo
“Siamo tutti in pericolo”. Foto di Valentina Baruffo

di Valeria Campisi
www.2duerighe.com – 8 marzo 2015

«Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti», questo diceva Pier Paolo Pasolini durante l’ultima intervista che non controllerà mai, poche ore prima che il suo corpo senza vita fosse ritrovato all’Idroscalo di Ostia. Sono ormai passati quarant’anni da quella notte – fra il 1 e il 2 Novembre 1975 – e il Teatro Vascello di Roma decide di omaggiare la memoria di Pasolini con lo spettacolo Siamo tutti in pericolo, in scena dal 5 al 15 marzo (non a caso, il 5 marzo è l’anniversario della nascita di Pasolini), per la regia di Daniele Salvo, con Gianluigi Fogacci, che interpreta e presta la sua voce alle parole di Pasolini, e Raffaele Latagliata nei panni del giornalista Furio Colombo, a cui Pier Paolo rilascerà quell’ultima intervista evocata nel sottotitolo della rappresentazione. Appena entrato in sala, lo spettatore si sente immediatamente immerso nello spettacolo: mentre si prende posto, una voce impalpabile legge le Lettere luterane. La scenografia è minimale, e del resto non avrebbe senso fare altrimenti, se lo spettacolo si concentra, come negli intenti del regista, sulle parole e sui pensieri di Pasolini.
Il pavimento è coperto da pagine di giornale, gli arredi sono essenziali alla narrazione: qualche sedia, due panchine, un comodino, una scrivania e un letto. Sulla scrivania campeggia una vecchia macchina da scrivere, strumento attraverso il quale Pasolini dà corpo ai suoi pensieri. Battendo su quei tasti prendono vita sotto i nostri occhi gli ultimi articoli scritti nel 1975 per “Il Mondo” e “Il Corriere della Sera”. Altro oggetto-simbolo è il letto, un letto che è anche una bara, su cui il corpo di Pasolini riposa, in un sonno prima breve e pieno di incubi, poi finalmente calmo ed eterno. Un letto in cui si concentrano tutti i più profondi desideri e le paure di Pasolini, il desiderio, la passione rappresentata da Michele Costabile, repressa da un’ideologia, quella fascista, ancora profondamente viva.
Lo spettacolo comincia: Pasolini apre un libro e il suo volto è immediatamente illuminato dalle fiamme. Quest’immagine estremamente efficace può essere forse interpretata in chiave duplice. In un primo momento la sensazione dello spettatore è quella di paura e di pericolo: in effetti è innegabile che per l’intellettuale le parole, i pensieri abbiano avuto grande importanza nel determinare quella triste fine ancora oggi non del tutto chiaria nelle sue ragioni più profonde. Il fuoco però è anche simbolo di vita, come ricorda l’immagine della fenice, e forse il senso ultimo è proprio questo: Pasolini rinasce ogni volta che ne leggiamo o ne ascoltiamo le parole con consapevolezza e in questo modo la sua memoria perdura.
Gli argomenti trattati negli articoli e nella sua ultima intervista sorprendono oggi per la loro attualità e preminenza, mostrandoci come tra la società moderna e l’Italia di 40-50 anni fa ci siano molti più punti in comune di quanto non sarebbe auspicabile. Nella lettera al Presidente della Repubblica (La sua intervista conferma che ci vuole il processo, comparsa sul “Corriere della Sera” l’11 settembre 1975), Pasolini condanna i potenti -«maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue»-, ma anche il popolo, quel mondo proletario che tanto lo aveva affascinato per la spontaneità, per la schietta semplicità, e che ora vede in preda ad una sorta di “raptus”. Il popolo è ingannato dalle istituzioni, è ingannato dalla scuola e dalla televisione – che Pasolini propone polemicamente di abolire – le quali offrono l’ immagine di un benessere borghese che è solo un miraggio. Pasolini denuncia la DC per la mancanza di ideologia e per l’incapacità di gestire il «nuovo modo di produzione».
Negli articoli dei mesi successivi, Pasolini cerca di recuperare i valori e i bisogni davvero essenziali, cerca di farci distinguere i beni di prima necessità: le scuole, gli asili, gli ospizi, il verde nelle nostre città. A questi valori si contrappongono i beni che la moderna società di massa, il consumismo vogliono proporre come indispensabili in un processo di presunta democratizzazione che cela gli interessi economici di una casta privilegiata.
Lo scopo ultimo è quello di dare voce al popolo italiano, per troppo tempo tenuto all’oscuro di complotti  e trame segrete che tutt’oggi non sono del tutto venute a galla: quali sono i rapporti fra lo Stato e la mafia? Chi sono i veri mandanti delle stragi di Milano, Brescia e Bologna? Pasolini guarda preoccupato al clima di estrema violenza di quegli anni, si rende conto di essere sempre meno circondato da esseri umani e forse inizia a percepire un certo isolamento che deriva dalla eccezionalità delle sue convinzioni, che spesso vengono fraintese o forse non si vogliono capire fino in fondo.
Improvvisamente tra il pubblico si sente chiamare «Pasolini!» e Raffaele Latagliata, nei panni del giornalista Furio Colombo, inizia la sua intervista – a tratti più simile ad un interrogatorio –  a Pasolini, mettendolo di fronte alle sue posizioni più difficili e ambigue, come interpretando i nostri possibili dubbi, le nostre riserve, cercando intelligentemente di ‘mettere in difficoltà’ questa figura per molti versi scomoda, a tutti. In quest’ultimo confronto Pasolini appare quasi rassegnato, nella consapevolezza che il suo pensiero venga e verrà per lungo tempo travisato, e un’ombra di inquietudine si stende sulla sua figura. La morte, il pericolo, sono onnipresenti nelle parole del poeta, un pericolo che incombe non solo sul suo capo, ma su tutta la società italiana, che, al contrario di molti suoi contemporanei, egli riesce a guardare con estrema lucidità e che affronta provocatoriamente a viso aperto, senza i falsi buonismi della morale borghese. Leggere oggi questi articoli per alcuni potrebbe essere  come leggere una profezia, potremmo pensare che Pasolini abbia avuto, tra gli altri, il grande merito di saper guardare avanti verso il futuro. In un certo senso sì, ma non del tutto. Quello che uno dei più grandi intellettuali della nostra storia è stato in grado di fare è di guardarsi intorno e alle spalle, e leggere a chiare lettere quello che stava succedendo ed era successo. Quello di cui davvero dovremmo stupirci è di come non siamo mai stati in grado di ascoltare la sua voce, sempre isolata nonostante i riconoscimenti oggi tributati alla sua figura, spesso solo formali. Pasolini stesso sceglie il titolo della sua ultima intervista, quello che viene ripreso anche per lo spettacolo, Siamo tutti in pericolo, come se dentro di sé sospettasse il pericolo incombente.
In questi ultimi momenti vediamo un Pasolini dubbioso, incerto, o forse più consapevole che nemo propheta in patria, come se sapesse che le sue parole non sarebbero state ascoltate, che la sua figura sarebbe stata per lungo tempo fraintesa o ignorata, come in effetti è stato.  Ancora oggi sentiamo il bisogno di censurare questo grandissimo autore, mescolando impropriamente la cronaca con il pensiero. La riflessione che accompagna il lettore all’uscita del teatro è una sola: l’Italia, dagli anni Sessanta-Settanta ad oggi non è cambiata. Quando l’intervistatore domanda a Pasolini come sia possibile evitare il pericolo, egli chiede che gli vengano lasciate le domande, spera di poterci pensare ancora una notte. Una notte che gli sarebbe stata fatale ma che non ha permesso a noi di non ricordarlo, non per la sua fine, ma per la sua vita, perché tutti noi ci ricordiamo di essere uomini e donne, perché ritroviamo la nostra identità e perché finalmente, con lucidità, possiamo essere protagonisti del nostro tempo e chissà, magari in un futuro, riusciamo a migliorarci come individui e come società.

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Teatro Vascello
Via Giacinto Carini, 78 / Roma
Contatti : 06 589 8031 / www.teatrovascello.it