L’artista e il sottoproletariato del “Decameron”, di Marco Marmeggi

L’artista e il sottoproletariato del Decameron

di Marco Marmeggi

Marco Marmeggi, specializzando Ssis (Scuola specializzazione per l’insegnamento secondario), si è laureato in Discipline dello spettacolo alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Pisa con una tesi intitolata “Studio sulla cornice del Decameron di Pier Paolo Pasolini” – relatori professori Lorenzo Cuccu e Carla Benedetti. Dal suo lavoro ha estratto un articolo sviluppato in tre paragrafi che ha inviato a “Pagine corsare” e che viene qui presentato ai visitatori delle pagine dedicate a Pier Paolo Pasolini. Un ringraziamento a Marco Marmeggi.

1. Dalla cornice al mercato

Con una formula un po’ radicale e netta potremmo dire che il Decameron di Pasolini non è più il Decameron di Boccaccio, che il film – rovesciati i contenuti di fondo del novelliere – propone una lettura della realtà antitetica e opposta a quella dell’opera letteraria. Eppure, le novelle che Pasolini ha selezionato conservano un impianto narrativo nel complesso simile a quello originale. Eppure, i personaggi di Andreuccio da Perugina, di Ser Ciappelletto, di Caterina di Valbona e di tutti gli altri protagonisti che animano la celluloide del testo pasoliniano sembrerebbero avvicinarsi sorprendentemente ai famosi attori della commedia boccacciana. Allora perché i due testi sono così distanti? Per quale motivo la sensazione finale che abbiamo è quella di un film che tenta disperatamente di eguagliare in solarità e vitalità il testo di origine, ma che, una volta “calato il sipario”, si trova impossibilitato oggettivamente a celebrare qualsiasi forma di ottimismo? Qual è il mondo che Pasolini ha sostituito a quello epico dei mercanti celebrato nel Decameron di Boccaccio?
Le operazioni di riscrittura più importanti che hanno guidato il lavoro dell’adattamento pasoliniano sono due. La prima, a cui abbiamo già fatto riferimento, consiste nel mantenimento generale della struttura narrativa delle novelle, segno di fedeltà, e riconoscibilità, al testo di Boccaccio – ricordiamo che il Decameron fu un’opera destinata ad un pubblico di massa e che fu campione d’incassi. La seconda operazione, invece, permette a Pasolini di cancellare totalmente la “cornice” boccacciana dei dieci giovani novellatori in fuga dalla peste, e immettere le narrazioni scelte in una nuova “cornice antropologica” il cui vero e proprio ventre poetico è rappresentato dal mercato di Napoli.
Muovendosi in queste due direzioni, Pasolini preserva la straordinaria e solare joie de vivre che anima le pagine di Boccaccio, e, nello stesso tempo, può trasporre il “sentimento giocoso” del testo letterario nel milieu partenopeo e sottoproletario del film. La trasformazione del testo dunque avviene qui. Nel passaggio dalla lettura boccacciana della Storia vista come possibilità di sviluppo di una futura classe egemonica, ovvero quella borghese, ad una pasoliniana che invece percepisce nel divenire storico un processo di disintegrazione e omologazione delle classi subalterne.
Secondo Pasolini la vigorosa comicità del Decameron deriva dall’«ottimismo storico» del suo autore, dalla grandezza che il ceto dei mercanti possedeva nell’età comunale e «che avrebbe poi raggiunto solo in certi momenti e in certi stadi marginali della sua storia» . Boccaccio vivendo «nell’esatto momento in cui esplode (…) la rivoluzione borghese» non può che guardare l’affermarsi della nuova classe dirigente con entusiastica partecipazione e meraviglia, scegliendola «quale vera protagonista». Nel film, quelle qualità borghesi sono trasferite, non più sulla «stagnante» borghesia d’oggi, ma piuttosto sul popolo napoletano, lembo ancora vitale e spontaneo del mondo popolare. Ecco che tra il testo letterario e l’adattamento pasoliniano la frattura si fa profonda, e l’ampiezza di questa diversità andrà cercata nel modo diverso in cui ciascuna delle due opere si rapporta con la propria contemporaneità.

mercanti
Se Boccaccio celebra l’ascesa della paleoborghesia mercantile, agganciando fin dall’Introduzione, come rileva Vittore Branca, il novelliere alla realtà storica della Firenze trecentesca – l’opera si apre con il caos e l’anomia generati dalla peste che ammorbò la capitale toscana nel 1348 -, Pasolini rifiuta qualsiasi legame tra l’universo diegetico del film e la propria contemporaneità. Se il testo di Boccaccio è tutto teso verso un «processo di contemporaneizzazione storica» – attraverso il coinvolgimento di personaggi ancora viventi o appena scomparsi, la ricercatezza di una toponomastica dettagliata e realistica conosciuta al mondo borghese e mercantesco, la scelta della nuova classe dirigente e dei suoi problemi politico-sociali -, il film di Pasolini è sospeso, per così dire, in un periodo storico non individuabile. È lontano dal «presente consumistico» e dal suo «ordine orrendo» quanto dalla ricostruzione filologica del medioevo di Boccaccio.
Lo scenografo Dante Ferretti ricorda che la medievalità del film è ripresa molto dalla pittura di Giotto e dalla sua scuola, ma che tuttavia ciò è fatto con «molta naturalezza (…) ed è tutto lasciato al caso». L’universo diegetico dell’adattamento pasoliniano si configura dunque come «un mondo che è ai limiti della storia e, in un certo senso, fuori dalla storia». Un medioevo pittorico di ispirazione bruegeliana e giottesca che, distorto e sproporzionato, trova il suo epicentro nel mercato di una Napoli arcaica ricostruita sotto le mura di Caserta Vecchia. Una babele partenopea lontana dagli arcaici mercati pre-capitalistici di Boccaccio, e molto più vicina, al contrario, alle forme del baratto di una società all’«Età del pane». Ebbene, dalla paradossale inattualità storica del film rispetto alla fonte letteraria emerge un lato in qualche modo inquietante: mentre Boccaccio esalta l’epifania di una classe sociale, Pasolini si congeda da un popolo di sopravvissuti che è destinato alla sparizione.

A ben guardare, il film (…) fa spavento: è una storia di spettri, popolata dei fantasmi di un’umanità trapassata.

Viene in mente un brano tra i più citati (e autocitati ) delle Poesie Mondane, poi incluse nella raccolta Poesie in forma di rosa:

Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

Pasolini sceglie il popolo napoletano, «l’orlo estremo di qualche età sepolta», perché esso rappresenta, nell’Italia degli anni ’70, il «popolo sopravvissuto», quella «oggettiva sopravvivenza del passato» che compensa il «presente degenerante».
Ed è proprio ai valori del passato che Pasolini attribuisce l’unica forza in grado di contestare il nuovo potere. «È una forma aberrante, – dice dalle pagine di “Filmcritica” – ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono metter in crisi il presente» . In questi anni – e nonostante l’Abiura dalla Trilogia della vita e il successivo Salò – la città di Napoli resta comunque l’unico “grande villaggio” italiano in cui Pasolini può cogliere la dimensione sacrale dei corpi da opporre all’irrealtà del potere consumistico. Nel “trattatelo pedagogico”, pubblicato assieme alle Lettere luterane, Pasolini si rivolge all’allievo Gennariello e gli dice:

Io sto scrivendo nei primi mesi del 1975: e, in questo periodo, (…) i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente, simpatici. Essi infatti in questi anni (…) non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. (…) Cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana.

L’ambiente “in un certo senso arcaico” che si può trovare nel profondo dei vicoli di Napoli, questa sottocultura «che sta scomparendo ma che è ancora (…) vicina al mondo del Decameron, in cui il tempo “sembra essersi fermato», in cui la povera gente con la «sua violenza e la sua gentilezza rappresenta un modo antico di essere», è ripresa drammaticamente anche nel racconto dell’Appunto 41 di Petrolio. Qui Napoli, i suoi bambini e certi giardinetti pubblici da ultima metropoli plebea, che l’inglese Tristam Walzer visita durante il suo viaggio di ritorno da Khartoum, richiamano direttamente la cultura popolare della bambina sudanese (Giana) che il giornalista ha schiavizzato.

Tristam naturalmente sbarcò e si diede a esplorare la città (…). In certi giardinetti [irresistibilmente] sporchi, dove dei bambini, come un ventennio prima, facevano il bagno in mutande dentro una vasca, vide selvaticamente in disparte, una “scugnizza”, scura e lacera. Non c’era dubbio, essa assomigliava a Giana. Le era quasi sorella. Apparteneva a una “cultura” uguale. Quella che dava la stessa qualità fisica (malgrado le diversità puramente accidentali) a quei ragazzini plebei di Napoli che si tuffavano nella fontana e quelli di Khartoum (…). La pasta [della carne] era una pasta diversa da quella (…) della cultura dominante (…): (…) che poteva integrare la cultura popolare solo facendola sua, cioè costringendola a degenerare, a restare per secoli nei livelli bassi della coscienza così come era stata, per secoli, nei livelli bassi della società.

Insomma, la Napoli primitiva del Decameron, «come la Cappadocia di Medea e la Roma di Accattone,» ma anche del Trattatello e di Petrolio, infittisce la topografia dei “luoghi arcaici” pasoliniani. Nell’adattamento del novelliere, il carosello dei personaggi delle novelle riesce a ritrovare il riso soltanto nella costruzione edenica di un tempo che non è più. Come abbiamo osservato però, questo è un ridere di fantasmi, di bocche sdentate e spettrali. Gli attori napoletani di questa “commedia umana” non possono trasmetterci la vitalità e solarità del testo di Boccaccio perché quei corpi, quei sessi e dentature ci parlano di qualcosa che, per Pasolini, stava ormai morendo.

2. Pasolini e l’allievo di Giotto

Vero protagonista della novella dell’allievo di Giotto è lo sguardo che il pittore milanese getta sul mercato napoletano. Arrivato nel capoluogo campano per affrescare la chiesa di Santa Chiara, l’allievo di Giotto, durante le pause di lavoro, esce dall’ambiente sacro per immergersi, assorto e incantato, nel mondo popolare che brulica sotto le mura diroccate del castello di Caserta Vecchia. Poi, riempitosi gli occhi di “scene di vita”, egli si ritira nuovamente nella chiesa e torna a dipingere il suo affresco, ispirato e febbrile.
Sebbene già a livello della sceneggiatura appaia chiaro che questo personaggio rimanda direttamente al modo di fare cinema dello stesso regista, con l’ingresso fisico di Pasolini che interpreta il pittore, questa metarappresentazione del gesto artistico si fa vera e propria meta-performance.
L’allievo di Giotto, con le sue azioni, l’atto del guardare e con il suo dipingere, mette in scena il rapporto che Pasolini-autore ha con l’opera Decameron. Il pittore milanese sta dentro la finzione, ma, nello stesso tempo, è spinto fuori dalla presenza sulla scena dello stesso Pasolini. Il suo sguardo rimanda a quello del regista, il suoi pennelli alla camera da presa, il suo affresco, infine, richiama direttamente il film che stiamo vedendo. Esagerando un po’, il pittore milanese di Pasolini, a differenza del suo maestro fiorentino, ha la capacità di riprodurre la realtà per mezzo non più del pennello, ma della macchina da presa.

Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale.

L’analogia perfetta di cui parla Pasolini – il regista va a Napoli a fare un film realistico come il pittore scende nel capoluogo campano ad affrescare la chiesa -, non è soltanto puramente anagrafica, ma anche culturale. Entrambi sono due uomini settentrionali portatori di una diversità culturale alla quale non possono rinunciare e che li costringe ai confini dell’universo che stanno guardando. L’allievo di Giotto è l’unico dei personaggi di Pasolini a non parlare in dialetto, e il suo aggirarsi nel mercato è quasi totalmente ignorato dalla gente di Napoli che sembra non accorgersi della sua presenza.
Sia Pasolini-autore che l’allievo di Giotto sono due intellettuali il cui sguardo sul mondo marca la distanza che li separa dalle classi subalterne. Il loro guardare non rimane però nella sfera dell’inesprimibile, ma piuttosto produce senso. Lo sguardo di Pasolini, come quello di Giotto, interpretano e raccontano qualcosa tramite l’arte.
Il pittore milanese tornato sulle impalcature dell’affresco dipinge grazie all’ispirazione che ha trovato nel mercato, e Pasolini fa altrettanto. Non solo ci ha mostrato i volti e i corpi della gente di Napoli tramite le soggettive dell’allievo di Giotto – soggettive in cui lo sguardo del personaggio e quello dell’autore sono la stessa cosa per l’identità tra le due figure di cui abbiamo parlato – ma, tornato nella chiesa insieme a lui, fa corrispondere alle pennellate sull’affresco del pittore la narrazione di un’altra novella.
Dunque nella novella di Pasolini l’atto del guardare dell’allievo di Giotto rimanda non soltanto al problema dello sguardo, ma alle possibilità che ha questo sguardo di produrre senso, cioè di narrare. Gli elogi che, nel novelliere di Boccaccio, Pànfilo tesse alle doti pittoriche di Giotto posso aver rappresentato un ottimo spunto su cui costruire l’asse del vedere/raccontare alla base della lettura pasoliniana della novella.

Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura (…) che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingesse sì simile a quella, che (…) molte cose da lui fatte si trova che il visivo senso degli uomini vi prese errore quello credendo esser vero che era dipinto.

Questa considerazione sul carattere illusorio della pittura, della capacità di Giotto di riprodurre esattamente la realtà, è un punto di contatto tra testo letterario e film molto importante. C’è un parallelismo sorprendente tra l’errore di scambiare qualcosa per vero descritto da Pànfilo e l’«effetto di realtà» di un film. Ripreso da molti teorici del cinema, l’«effetto di realtà», come è noto, viene estremizzato da Pasolini per farlo corrispondere a quello che è il nucleo della sua poetica: «un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà».
In questa esaltazione feticista (…) della Realtà (con la maiuscola mistica), (…) c’è l’idea decadentista (pascoliana): la poesia è una sostanza che c’è già nel reale, prima di ogni espressione artistica. La novità pasoliniana è la convinzione che il cinema (…) possa ancor più della poesia giungere al mistero ontologico delle cose.
L’allievo di Giotto, abbiamo detto, si immerge nel mercato guardando il mondo che lo circonda, non più come un pittore, ma come farebbe un regista, cioè Pasolini stesso. Mi pare utile, a questo punto, analizzare la prima scena, che chiamerò di mercato, in cui l’allievo di Giotto entra in contatto con il popolo napoletano.
Siamo tra i barrocci, è giorno. Una grassa barrocciaia, togliendo alcuni meloni appesi ad una trave del proprio banco, sorprende l’allievo di Giotto intento a guardare verso il fuori campo. Scoperto, egli si gira verso la camera da presa riproducendo, con il celebre gesto delle mani che formano il riquadro dell’inquadratura, la camera da presa stessa. Seguono, in una serie di campi e controcampi, i primi e primissimi piani di alcuni compratori. Sono i volti di una ragazzina coi capelli lunghi e mori, di un uomo maturo e un po’ stempiato, e di una donna in carne. Solamente quando l’allievo di Giotto sarà rientrato nella chiesa e avrà dato la sua prima pennellata sull’affresco, scopriremo, con un montaggio a stacco netto che introduce un giardino signorile, che quei personaggi erano i protagonisti della novella di Caterina di Valbona.
Come fa notare Massimo Fusillo per il prologo contemporaneizzato dell’Edipo re, la situazione narrativa di un personaggio che spia è particolarmente amata da Pasolini. Dopo la scena del ballo guardato di soppiatto dal bambino Edipo, lo scoppio di fuochi d’artificio accresce la sua angoscia ed egli si chiude gli occhi con le mani, gesto che verrà reiterato dall’Edipo adulto. Qui l’autocostrizione a non voler vedere diviene la metafora della lettura pasoliniana dell’Edipo di Sofocle costruita tra la volontà di non sapere del protagonista e l’«obbligo di conoscere» a cui verrà piegato.

decameronprima
Nell’episodio del Decameron lo sguardo dell’allievo di Giotto non viene affatto coperto, ma anzi rafforzato. Le mani non sono metafora della volontà di non conoscere, bensì dell’atto artistico per eccellenza a cui Pasolini attribuisce la capacità di svelare il mondo: il cinema come la lingua scritta della realtà. Le stesse mani che l’allievo di Giotto, tornato sull’impalcatura dell’affresco, userà per continuare a dipingere, cioè per raccontare.
Procedendo sull’asse individuato del vedere/raccontare ci accorgiamo che il Decameron di Pasolini indice nuovamente un dialogo serrato con la cornice dei dieci novellatori dell’opera di Boccaccio. A loro il Certaldese aveva dato l’oneroso compito di rappresentare veramente l’umanità potendola in certo senso giudicare, perché ne avevano salvato i valori supremi. Come il pittore milanese anche i dieci giovani borghesi parlano del mondo attraverso l’arte. Esprimono il proprio giudizio raccontando la commedia umana con un altro linguaggio ma, cosa fondamentale, lo fanno lontano dalla caducità degli eventi. Per poter parlare del mondo devono starne fuori, isolati, in una realtà distaccata e altra.
Questi novellatori possono fissare in un’atmosfera ideale, al di là del tempo e dello spazio, le immagini e le forme del loro messaggio: proprio come Boccaccio può giungere alla contemplazione e alla trasfigurazione artistica della commedia di ognuno solo quando è uscito dal pelago dei disordini interiori e delle passioni scatenate, alla riva di una pacata maturità spirituale.
Anche se il pittore del film non narra formalmente qualcosa a qualcuno, e quindi non è un narratore vero e proprio come i giovani del “buon ritiro”, il suo agire ambiguo nella diegèsi del film, quel suo rimandare costantemente al gesto di fare cinema ne fanno un “narratore speciale”. Il suo racconto però non può essere concepito che nella realtà di cui parla. Non è possibile starne fuori, non è possibile neanche esprimere un giudizio morale sulle azioni dei suoi protagonisti. Il ruolo testimoniale di cui Pasolini è portatore, il cinema cosiddetto “etnografico” che pervade la sua produzione, si realizza con l’intrusione del suo sguardo nel mondo. Così come accade a Pasolini in carne ed ossa, l’allievo di Giotto non potrà che tentare di sprofondare nelle cose e nella vita per poterne parlare.

Così gli oggetti e le persone sono quelli che io riproduco attraverso il mezzo audiovisivo. E qui arriviamo al punto: io amo il cinema perché con il cinema resto sempre a livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà. (…) Esprimendomi con il cinema non esco mai dalla realtà, sono sempre in mezzo alle cose, agli uomini, a ciò che mi interessa di più nella vita, cioè la vita stessa.

3. Il dialetto e il cantimbanco

L’uso del dialetto napoletano nel film, adottato da tutti i personaggi come carta d’identità linguistica, è la principale componente della polarizzazione partenopea dell’ambientazione. La traduzione dal toscano implica un definitivo allontanamento dalla fonte letteraria in cui sono radicate alcune considerazioni pasoliniane di carattere sociolinguistico e antropologico. Che la scomparsa delle varianti dialettali fosse legata ai rapporti di egemonia che il centro, il Nord Italia come laboratorio dell’italiano nazionale e tecnocratico, esercitava sulle periferie, ormai inglobandole ed omologandole, era per Pasolini un dato irrefutabile. La “tolleranza” dell’ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, aveva fatto si che il Centro in pochi anni distruggesse ogni autenticità e concretezza delle «periferie più povere e addirittura miserabili dell’intero paese».
Dunque questa contrapposizione dialettale partenopea all’omologazione linguistica nazionale del cosiddetto italiano neo standard rappresentava per Pasolini un corollario necessario da aggiungere ai corpi del Decameron per acuirne la «forza rivoluzionaria del passato». Il novelliere boccacciano è nuovamente lontanissimo e il film di Pasolini rimarca nettamente la sua paradossale inattualità rispetto ad un testo letterario in cui, invece, l’«espressivismo linguistico» è parte integrante della sua «contemporaneizzazione storica».
Egli (il Boccaccio) aveva desta la coscienza profonda e significativa di quella diversificazione sociale in senso linguistico non meno profonda e significativa di quelle geografiche o cronologiche o culturali. Ogni casta, ogni classe, ogni diverso ceto ha – egli ben lo avvertiva – un suo linguaggio tipico e connotante, che può agire nella complessa dialettica del plurilinguismo e che offre sorprendenti possibilità espressivistiche.
La materia linguistica del Decameron di Pasolini al contrario sostituisce all’eterogeneità linguistica della fonte una rigorosa omogeneità di carattere dialettale. In pratica la scelta del napoletano si pone in contrasto non soltanto con il processo di “contemporaneizzazione” che fa il Boccaccio ma, prendendo il toscano come rappresentante distorto a livello simbolico dell’italiano, entra in netta polemica non «contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalista e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano».
Probabilmente il momento più emblematico di questa “traduzione dal toscano” è rappresentato da una scena che si svolge immediatamente dopo la chiusura della novella di Andreuccio. Pasolini riprende a raccontare per “brevi immagini” il vizio sodomitico di Ser Ciappelletto. Ci troviamo in uno dei vicoli dei bassi napoletani dove poco prima lo stesso Andreuccio correva disperato e derubato dei sui denari in cerca di un luogo più sicuro. La viuzza è stracolma di gente, di «vecchie, bambine, uomini grassi, uomini magri magri, guaglioni, guappetti», e tutti assistono chiassosi e sorridenti all’esibizione di un vecchio cantimbanco.
In questa circostanza si esplicita e si realizza uno “spettacolo” in cui le caratteristiche dell’emittente, del messaggio e del modo di fruizione si caricano di contenuti e riflessioni sul dialetto, in evidente contrasto con lo spettacolo di tipo televisivo che Pasolini in quegli anni andava disperatamente condannando.
Nella sceneggiatura originale questo tipo di esibizione ha tutta l’aria di un intrattenimento giullaresco, fatto per lo spettatore popolare nel ridotto spazio scenico dei vicoli del contesto urbano dei bassi napoletani, a metà strada tra un trovatore medievale e un menestrello. La ripresa dunque di alcune caratteristiche del teatro profano tra XIII e XIV secolo, l’indistinzione tra spazio scenico e spazio di fruizione, il favore accordato alla piazza del mercato e alle zone limitrofe in quanto centri autentici delle città medievali, la concordanza dell’estrazione sociale degli attori e degli spettatori, viene riproposta da Pasolini nel tentativo estremo di ritrovare «il rigoglio dell’esistenza» nella dimensione di uno spettacolo del passato.

Il “rigoglio dell’esistenza” appartiene al passato: nel presente potrà essere vissuto che come nostalgia o ritrovato nella dimensione dello spettacolo che reinveste – e vorrebbe per questa via rivilitalizzare – il passato.

La novella che viene narrata nel quadretto giocoso di questa esibizione medievale è la novella seconda della nona giornata del Decameron, la quale si accomuna, per analogia del tema trattato, ovvero l’amore sessuale in un convento di monache, a quella di Masetto che seguirà la fine del racconto del cantimbanco. È una novella breve che si aggiunge alle novelle selezionate e visualizzate da Pasolini, per cui le trascodificazioni cinematografiche non sono più nove ma dieci.
Recita la rubrica di Boccaccio:

Levasi una badessa in fretta ed al buio per trovare una sua monaca a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali veggendo l’accusta, e fattanela accorgere, fu deliberata ed ebbe agio di starsi col suo mante.

vecchiolegge

L’anziano narratore ha iniziato a leggere di fronte al suo uditorio la storiella oscena. Il libro che tiene aperto a terra è il testo di Boccaccio, è un libro vecchio e molto adoperato, le pagine sono ingiallite dall’usura.

VECCHIO “Saper adunque dovete che in Lombardia, dove ce stanno quelli che parlano toscano, esserci un famosissimo monastero di castità e di religione, nel quale vi era una giovane di sangue nobile e di meravigliosa bellezza dotata… (interrompendo la lettura).

Il cantimbanco scandisce le parole alla bell’e meglio, non senza qualche difficoltà; il periodo è quello classico della prosa decameroniana, costruito con ampie architetture di subordinate, ricco di procedimenti retorici, inversioni, costruito col verbo all’infinito. Questa parte iniziale corrisponde realmente all’intro narrativo della novella raccontata da Elissa. Ma se osserviamo da più vicino questa parte iniziale è possibile verificare che c’è stata una modifica rispetto alla fonte letteraria. L’importanza di questa variante pasoliniana, che ci viene presentata ambiguamente dal regista o come una storpiatura presente nel testo del cantimbanco o come una chiarificazione del complemento di luogo fornita agli ascoltatori, è data dall’aggiunta della prima subordinata: «dove ce stanno quelli che parlano toscano».
Nel Decameron di Boccaccio Elissa difatti novella:

Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famossissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra le altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di meravigliosa bellezza dotata (…).

Tutt’altro che trascurabile questa addizione apre un possibile spiraglio interpretativo che ci conduce direttamente a quelle riflessioni linguistiche di Pasolini sui rapporti di egemonia e influenza culturale tra il Nord industrializzato e Sud arretrato, o meglio tra il “centro” e l’omologazione della sua “periferia”. Perché se la novella di Boccaccio è ambientata in Lombardia nella recitazione orale che ne fa il cantimbanco si aggiunge la specificazione che in quella regione «ce stanno quelli che parlano toscano»? In che modo si risolve questa ambiguità?
Durante quel processo che Pasolini chiama «italianizzazione dell’Italia» sono accaduti due fenomeni di impari importanza. Il primo, paragonabile ad un “assestamento della società”, riguarda il processo di livellamento linguistico per mezzo di grossi fenomeni sociologici. Il secondo, “più profondo e violento”, è relativo alla sostituzione della “vecchia borghesia umanistica dominante” con una “nuova borghesia tecnocratica” di origini settentrionali. L’enorme influenza che questi fenomeni hanno giocato sulle trasformazioni della varie koinè italiane hanno prodotto un loro livellamento e di conseguenza la scomparsa progressiva dei dialetti arcaici. Questa “rivoluzione” è imposta dall’eccezionalità della “nuova stratificazione tecnica – dovuta ad uno spirito tecnologico – che non ha equivalenti nel passato – e che si appresta a formare il nuovo tipo di uomo – modifica e omologa tutti i tipi di linguaggi della koinè italiana, nel senso della comunicazione, a discapito dell’espressività”. Da qui l’idea estrema e provocatoria che i nuovi centri creatori, elaboratori ed unificatori del linguaggio, non siano più le università, ma le aziende (TV, pubblicità, ecc.).
La modificazione appena percettibile dell’incipit decameroniano comincia a trovare una sua possibile spiegazione. La Lombardia, luogo dell’ambientazione della novella, rimanda dunque alla completa “industrializzazione dell’Italia del Nord” in cui la “borghesia paleoindustriale” si è fatta “neocapitalistica” identificandosi egemonicamente con l’intera nazione italiana (significato esteso di lombardo). E la specificazione che ce stanno quelli che parlano toscano va ricondotta non evidentemente all’italiano letterario di cui la “piccola e grande borghesia di tipo paleoindustriale e commerciale” si era impossessata facendone “la propria lingua di classe e imponendolo dall’alto” senza successo, ma piuttosto a quel linguaggio tecnocratico del Nord industriale che ha sostituito quello letterario, “elaborando quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali”. L’apparente equivocità iniziale della novella si risolve dunque in una frecciata alla “stronza Italia” che per bocca del cantimbanco Pasolini introduce nel suo Decameron. Questo film tutto teso a riprodurre la gioia di vivere del testo di origine non può fare a meno di denunciare costantemente lo iato che lo separa dalla celebrazione di quella classe sociale in piena ascesa, protagonista del novelliere di Boccaccio. Il dialetto, come i corpi, le facce bruciate dal sole e le bocche sdentate, scelte per riprodurre una forma arcaica di “uomini” tutti pervasi di sesso e vita, legati al terreno polveroso del mercato o alla vegetazione mediterranea e solare della campagna, si staccano da una loro possibile proposizione di “modelli” da immettere nella società dei consumi.
Col Decameron Pasolini pesca continuamente dei residui di realtà che sono le cose e i corpi in alcuni luoghi che egli ritiene conservino ancora una componente di originalità. Il dialetto, cioè il linguaggio verbale umano di questi “continenti sommersi”, si costituisce anch’esso come tentativo di arcaicizzare e fissare nella sublimazione artistica qualcosa che tragicamente scompare o è già scomparso.
«Non scrivo in dialetto, – rispondeva Pasolini ad Enzo Golino nel dicembre del ’73 – (…) e forse dovrò smettere anche nei film, non posso tornare infinitamente indietro nel tempo». Un anno e mezzo dopo avrebbe difatti iniziato le riprese di Salò.