Vacanze nel silenzio di Sabaudia con Moravia e PPP, di Enzo Siciliano (1994)

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

In una bella pagina,  apparsa su “Repubblica” del 2 agosto 1994, Enzo Siciliano rievoca “la bella estate” degli anni Settanta, quando lui, Moravia, Pasolini e altri amici artisti scelsero per le loro vacanze marine di silenzio Sabaudia e le sue dune, scoperte allora e preferite alla spiaggia della più chiassosa Fregene. Uno scorrere di immagini e di personaggi (tra essi, perfino Genet in missione politica) che ricorda l’Italia che fu, sfigurata e spazzata via anche al mare dal mordi-e-fuggi vacanziero della modernità. 

La bella estate. Io, Alberto e Pier Paolo 
di Enzo Siciliano
“la Repubblica” –  2 agosto 1994

In principio c’era Villa Volpi (ma non era l’ unica). Alta sulle dune, stile palladiano, con le due ali ai fianchi, aperte come in un abbraccio al mare, solitaria tra la macchia mediterranea, sul tramonto degli anni Cinquanta, doveva materializzare una visione metafisica, come se il pennello del Sor Lambicchi, figura magica del vecchio “Corriere dei Piccoli”, passato sopra un De Chirico, ne avesse estratto il dettaglio di una costruzione e l’avesse deposto materializzandolo su quel lembo di spiaggia. La Villa, vista all’interno, è lo scenario del quarto atto dell’ Aida, faraonico sotterraneo adibito a nessuna carcerazione cautelare bensì a godervi il fresco da parte di chi, pur amando il bruciante ardore del Tirreno, ami, contemporaneamente, tenersene al riparo dietro mura spesse. Oggi, ancora, con le dune che pullulano di costruzioni, Villa Volpi, che dal demanio ha in dotazione un parco piuttosto ampio, appare vergine nella sua maestà, visibile da lontano, perso monumento a vacanze elitarie, anche a beneficio di un tempo che la storia ha fatto (davvero?) tramontare in malo modo.

Villa Volpi di Misurata e sullo sfondo il Monte Circeo
Villa Volpi di Misurata e sullo sfondo il Monte Circeo

Sabaudia, quel dorso di spiaggia che si stende all’apparenza infinito oltre il lago con una striscia indelebile di eriche, lentischi, ginepri, lecci, e si schiaccia a Torre Paola sotto il masso del Circeo, negli ultimi anni Trenta, fu vagheggiata come la Polinesia del Lazio. Artisti, qualche scrittore o i giovani architetti e urbanisti come Concezio Petrucci, che avevano lavorato alla bonifica delle paludi pontine, tornavano con le loro ragazze su quella spiaggia: lasciata la macchina fra le costruzioni della città, passato il lago con un barcone a pedaggio – il ponte è di una trentina d’ anni fa-, coglievano il piacere di un mare che poteva ancora rinverdire immagini omeriche.
Negli anni Cinquanta, per i romani, il mare aveva altri nomi. Alcuni avevano scelto Fregene: per esempio Moravia, Ercole Patti, Franco Rosi, in case, poco più che cabine al villaggio dei pescatori. Altri, Luchino Visconti, Laudomia del Drago, capanni sul litorale di Tor San Lorenzo, una spiaggia a mezza strada verso Anzio, con dune che possono ricordare quelle magnifiche di Sabaudia.
La violenza della proliferazione cementizia anni Sessanta cacciò un po’ tutti – dico, tutti coloro che cercavano sul Tirreno un briciolo di quiete – da Fregene, e ancor più da Tor San Lorenzo. A Fregene resiste come un eroe, un eroe del pattino alle otto della mattina, Alberto Ronchey. A Tor San Lorenzo non c’è più nessuno: ci sono palazzoni in cemento che hanno cancellato il profilo del litorale di un tempo. Si disegnò allora l’idea di Sabaudia. Qualche aristocratico romano aveva cominciato da qualche anno ad affittare terreni dal demanio e a costruire: i Pacelli a esempio, la famiglia di Pio XII.

Da sx, Siciliano, Moravia, Pasolini
Da sx, Siciliano, Moravia, Pasolini

Ricordo che a Sabaudia, di luglio, ed era l’ estate del ’68, lavorai, ospite con Andrea Barbato in una casa sulle dune presa in affitto da Monica Vitti, ad una sceneggiatura per un film, un film da un mio romanzo che poi io stesso girai. La spiaggia era deserta anche in quella stagione: rare le case. Alcuni ragazzi tiravano in secco un leggerissimo scafo a vela, e certi pomeriggi andavano in acqua facendo la spola fra Torre Astura e Torre Paola. Già a Torre Paola c’era il ristorante di Saporetti, dove arrivavano gitanti da San Felice Circeo. Sembrava esserci una grande distanza tra San Felice e Sabaudia. A San Felice, sulle rocce, a Punta Rossa, si sapeva che erano annidate Anna Magnani ed Elsa De Giorgi: ma sembravano abitare un altro emisfero. San Felice era stato amato da Comisso per la sua dolce selvatichezza: la corruzione degli anni ne aveva sfigurato l’immagine.
Sabaudia, la torre comunale bianca e aerea, visibilissima da lontano al di sopra degli alberi fitti del parco nazionale, parevano sospese in una luce senza tempo, tagliate via da qualsiasi frenesia vacanziera. Potevano apparire come segnacoli di un limbo, ma anche di un protetto, esclusivo paradiso. Il lago, alle spalle del lungomare, era rigato a ore fisse dalle scie dei canottieri della Marina Militare: era un segno di vita claustrale, una vita in parentesi rispetto a quella che si sviluppava sulla direttrice della Pontina, la strada che divide la pianura fertile, da Latina a Terracina. La domenica d’inverno capitava con Moravia di partire da Roma in macchina e andare a mangiare appunto a Terracina o a San Felice. Sfioravamo il bivio di Sabaudia e Moravia diceva che sarebbe stato il caso di andarci “una volta o l’altra a Sabaudia”. Ci andammo, infatti. Andammo a mangiare da Saporetti, il Circeo a un palmo dagli occhi, e Moravia diceva: «Se non fosse per Villa Volpi laggiù, questa sarebbe ancora l’ Italia di Stendhal. E Sabaudia, una città del silenzio stile Novecento».
Cominciò, poi, Lorenzo Tornabuoni: andava e tornava da Roma e quel lungomare per le sue grandi tele, dedicate ai canottieri (un bel capitolo della pittura italiana fra Sessanta e Settanta: ma è possibile che non se ne ricordi nessuno? E’ possibile che, se Tornabuoni dice di aver smesso da tempo di dipingere, non c’è nessuno, tra critici d’arte voglio dire, che si ricordi dell’opera di uno dei più autentici e originali pittori di quegli anni?). Tornabuoni seppe convincere i suoi amici. Con lui, Moravia e Dacia presero in affitto, credo fosse proprio il 1970, la casa Antonelli. «Sembra una casa giapponese», diceva Moravia, apprezzandone la struttura lineare, i perfetti incastri di legno e cemento, la protezione di pitosforo torno torno: ormai, in agosto, la abita Valerio Magrelli. Ma in molti cominciammo a passare settimane tra le case sulle dune: Giorgio Moscon, Laura Mazza e Sandro Manzo della Galleria “Il Gabbiano” di Roma, Bernardo Bertolucci (girò una bella sequenza de La luna sul lungomare), e il cerchio si allargò via via a Fabio Rieti, a Piero Guccione, a Dario Bellezza, a Gabriella Pescucci e ad altri amatori. Ultimo, Alain Elkann.
Abbandonato il capanno di Fregene, assediato non solo dai gitanti ma anche dalle piene ricorrenti e distruttive dell’ Arrone, Moravia contrasse l’ abitudine estiva di Sabaudia, che significava: accanirsi sui tasti della Olivetti, poi della Olympia portatile, fino verso le undici della mattina, quindi scendere alla spiaggia e intraprendere una lunga passeggiata con l’ acqua alla vita tirando su dalla rena le telline che apriva a infallibili colpi d’ unghia e succhiava. Di pomeriggio, la spesa. Moravia diceva: «Vado a comperare un bel pescione». Il proprietario della pescheria sulla piazza del mercato lo ricorda ancora con che lena frugasse i pesci sul banco di marmo per verificarne la freschezza. Si fermava poi per un gelato al bar di fianco al Comune, e tornava a casa. Facevamo gare di cucina. Alberto amava lavare i piatti trattando l’acqua bollente a mani nude come se le avesse coperte di pesanti guanti di caucciù. Una volta, con un sole feroce, arrivò Jean Genet. «Una missione politica – disse- in favore dei palestinesi». Moravia voleva coinvolgerlo a parlare di libri, di letteratura. Genet restò sdegnoso, e deluse fortemente Dario Bellezza che si era preparato a una posa adorante. Quando Genet andò via, Moravia disse a Bellezza: «Tu, caro mio, ti fai troppe illusioni».
Si unì a noi anche Pasolini. Laura Betti aveva preso casa al Circeo, la distanza con San Felice si scorciò. Laura non amava la spiaggia, frustava con pesantezza la nostra passione per il litorale piatto, e la sera imbandiva spesso il suo meraviglioso sformato di patate e mozzarella di cui tutti, devo dirlo, eravamo ghiotti. Molti gli ospiti della sua casa: Mario Missiroli, Marco Bellocchio; arrivò anche Andrej Konchalovskij, quasi in fuga dall’ Urss di allora, ardito, impudente, e piaceva molto alle ragazze.
Pasolini lavorò un’ estate con Dacia al soggetto e alla sceneggiatura de Il fiore delle Mille e una notte. Anche lì, dopo cena, ci lasciava: spariva sul lungomare alla volta di Nettuno. Avrebbe dedicato a Sabaudia parole innamorate in una intervista televisiva di Anna Zanoli.

Da quegli anni, i primi Settanta, la spiaggia di Sabaudia è – non poteva essere altrimenti – molto cambiata. Consolidata l’abitudine, Moravia e Pasolini si costruirono spalla a spalla una casa doppia, oggi abitata da Graziella Chiarcossi e Vincenzo Cerami su un lato, e da Carmen Llera sull’ altro. Altre case, tantissime, costellano ormai le dune – una vera e propria città che si allinea al mare, salendo verso nord a perdita d’occhio. La spiaggia rigurgita di folla, specialmente il sabato e la domenica, mentre ricordo persino un ferragosto con il litorale del tutto deserto. Tornabuoni non c’ è più, con gli oli e i pastelli pronto a studiare lo scatto di un remo di canoista nell’acqua ferma del lago. Ci sono molti divi televisivi, unti di crema, stesi al sole, occhi chiusi, attenti a carbonizzarsi. Ci sono ancora i ragazzi che mettono a mare qualche vela: ma ci sono anche quelli che corrono all’ impazzata tra i bagnanti con gli scooter d’acqua. La piazza di Sabaudia la sera è piena di folla: non è più, di sicuro, la piazza di una città del silenzio. Ma c’è nei suoi porticati un’aria popolare, confidenziale, impolverata, un tono di lieve trasandatezza che significa allegria.

Pasolini e Moravia a Sabaudia
Pasolini e Moravia a Sabaudia