Caffè letterari a Roma nei mitici anni ’60, di Giovanni Russo

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

In “Pagine corsare”, un interessante reportage sulla vita artistica e letteraria che a Roma, nell’effervescente dopoguerra della ricostruzione, amava raccogliersi nei Caffè, salotti all’aperto e laboratori di idee, progetti, umanità, divertimento. Se ne ricostruisce la mappa in questo testo non datato, ma riportabile post quem al 2006, in cui uscì il libro   Con Flaiano e Fellini in via Veneto  –  Dalla “Dolce vita” alla Roma di oggi (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006) dello scrittore e giornalista Giovanni Russo, che firma questo  brillante tour letterario nei luoghi oggi perduti del fervore creativo dei magnifici anni Sessanta romani. 

Caffè letterari a Roma

Beato te che quando prendi la matita o il pennello in mano, scrivi sempre in versi!
Chi dipinge è un poeta che non è mai costretto dalle circostanze a scrivere in prosa.
Ti trovo fratello proprio in questo: nella disperata premeditazione di fare sempre poesia, in ogni discorso, magari abbandonandolo a sé, incompiuto, caotico, neonato, là dove potrebbe livellarlo,  con l’integrità del testo, la prosa. 
.
Pier Paolo Pasolini, Presentazione di “Venti disegni di Renato Guttuso”
Galleria La Nuova Pesa, Editori Riuniti, Roma 1962
(ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W.Siti e S. De Laude,II,
“Meridiani” Mondadori, Milano 1999, p.2380-2390)

Il Caffè Rosati a piazza del Popolo

Dice Ugo Pirro: «Qui [al Caffè Rosati] negli anni Cinquanta incontravi Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante, ma anche tanti giovani pittori e cineasti, tutti immersi in un clima di vivacità culturale che, solo a distanza di anni, riesco ad apprezzare appieno».
Pirro, vincitore di due Oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Il giardino dei Finzi Contini, mette a confronto gli anni Cinquanta e i tempi di oggi. E aggiunge Pirro: «Abito in centro da tempo, a pochi metri da Piazza del Popolo. Prima stavo a Vigna Clara e, nonostante la distanza, la sera andavo sempre a Piazza del Popolo. Ci si vedeva al Caffè Rosati, non c´era bisogno di dire niente, non usavamo certo il telefono per metterci d´accordo. Ci incontravamo lì e decidevamo cosa fare. Agli inizi, nell’immediato dopoguerra, i soldi erano pochi, dormivo in camere ammobiliate e spesso non ordinavo nemmeno un bicchier d’acqua da Rosati. Mi sedevo ai tavoli e parlavo con gli amici, tutti artisti, sceneggiatori, produttori e cineasti. I camerieri me lo permettevano perché mi conoscevano e il clima che si respirava era di grande familiarità. Parlavamo molto di cinema, naturalmente, ma anche di arte perché amavamo la compagnia dei pittori che frequentavano Rosati.
La gente di cinema si incontrava anche dietro via dell´Oca, nella sede dell’Anac, l’associazione degli autori di cinema, in quegli anni molto autorevole. Qui si discuteva delle due grandi fazioni di registi e sceneggiatori: i drammatici e i comici. Io ero un drammatico. Ci sentivamo diversi da loro, c´era una rivalità, artistica non umana, verso gli esponenti del comico. Non ci convincevano, eccezion fatta per uno: Totò, il principe. Attore e mimo eccezionale, troppo penalizzato da sceneggiature scadenti. Lui non frequentava Piazza del Popolo, aveva ritmi di lavoro serrati, era una persona isolata, schiva. Noi invece avevamo l´allegria e la vivacità della gioventù, organizzavamo feste indimenticabili. Come una rimasta storica in via Margutta, durante la quale lo scultore Consagra conobbe la moglie, incredula turista americana stupita dal nostro carattere festoso ed internazionale.
Con il passare degli anni migliorò la situazione finanziaria e cominciammo a mangiare almeno una volta al giorno nelle osterie del centro: da Otello alla Concordia, dal Re degli amici, da Cesaretto in Via della Croce, e soprattutto da Menghi in via Flaminia, che faceva credito a tutti sfamando così molti artisti spiantati».
«Il punto di partenza – conclude – rimaneva però sempre Rosati. Lì dibattevamo e scrivevamo soggetti, trattamenti e intere sceneggiature. E lì restammo fino a quando non fummo costretti ad andare via: fu dopo i tragici fatti del Circeo. I giovani di destra dai quali provenivano gli assassini di Rosaria Lopez e i violentatori di Donatella Colasanti, che si riunivano a Piazza Euclide, migrarono verso Piazza del Popolo in seguito alle pressioni delle forze dell´ordine che controllavano i luoghi di ritrovo dei pariolini di destra. Noi artisti, considerati nemici perché in larga parte di sinistra, scegliemmo, come nuovo punto di incontro, il Baretto in via dell´Oca. Furono anni intensi, fatti da persone e luoghi unici. Piazza del Popolo nel frattempo ha visto grandi comizi, manifestazioni e concerti ma non è più tornata ad essere quello che era […]».
Nei mitici anni ’60, Roma era una pentola in continua ebollizione, un eden profano dove sogno e realtà marciavano fianco a fianco. All’euforia generale si abbandonavano molti giovani, rapiti dal fuoco sacro dell’arte. Tra loro  Angeli, Festa, Schifano, soprannominati da Plinio de Martiis «i maestri del dolore, perché erano sempre vestiti di nero, con la puzza sotto il naso e l’aria stanca e annoiata». I tre si vedevano al Caffè Rosati di piazza del Popolo, luogo privilegiato del dibattito culturale e amato dalla bohème nostrana.
Negli anni ’60 luoghi di ritrovo erano anche la libreria Al Ferro di Cavallo o La Tartaruga di de Martiis, gallerista «da tartufo» e inviato speciale di quel mondo.
Altra sede storica, Palazzo Taverna, che ospitava gli «Incontri internazionali d’arte», voluti dalla padrona di casa Graziella Lonardi Buontempo, con la partecipazione di critici, artisti e intellettuali: da Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, presidente dell’Associazione, a Giulio Carlo Argan.

Roma. Antico Caffè Greco. Ingresso
Roma. Antico Caffè Greco. Ingresso

La Roma dei Caffè letterari 
di Giovanni Russo

Parlare dei caffè letterari a Roma nell’antico caffè Greco è anche ricollegarsi alla idea dell’Europa e della sua grande tradizione culturale dei secoli scorsi. Nel 2000, essa può rinascere grazie alla Comunità europea, che stabilisce un rapporto unitario tra i Paesi e gli Stati del continente.  […]
George Steiner, studioso di fama internazionale, ha scritto in un libro pubblicato dal Nexus Institute di Amsterdam, definito da Mario Vargas Llosa «ingegnoso e provocatorio», che «l’Europa è i suoi caffè, quelli che i francesi chiamano cafés. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa ai cafés di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel. Dai caffè di Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kirkegaard nel suo meditabondo girovagare fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè atipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in Inghilterra, dopo una fugace moda nel diciottesimo secolo. Non ce ne sono nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali dell’”idea Europa”».
Sotto questo aspetto l’antico Caffè Greco di Roma è proprio l’esempio italiano della tesi di Steiner e cioè del rapporto vivo tra la cultura europea e  alcuni dei suoi più celebri rappresentanti che lo hanno frequentato e continuano ancora a farlo. Ma in verità tutti i caffè romani, che si possono definire letterari, sono stati e sono le sedi di incontri tra scrittori ed artisti italiani e stranieri. In un certo periodo della seconda metà del Novecento, hanno avuto quasi lo stesso ruolo di redazioni di giornali o delle case di produzione cinematografiche. Soprattutto, sono stati i centri dove si è svolta e si è manifestata per alcuni anni quella “società della conversazione” che caratterizzava il secolo d’oro francese del Settecento e che in qualche modo è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta in Italia, a Roma. Per anni, dal Cinquanta in poi, per esempio si andava da Rosati o da Canova in piazza del Popolo dove letterati e artisti si incontravano per parlare anche di lavoro: quante idee di libri, di sceneggiature di film, quante discussioni che finivano allora sui giornali sulle tendenze artistiche e letterarie sono nate qui.
Il Caffè Greco di via Condotti dove si affollano oggi i protagonisti del turismo di massa è stato fino alla seconda metà del Novecento il punto di ritrovo dei poeti, scrittori e artisti italiani. Ogni mattina andava a bere il cappuccino Giorgio De Chirico, il quale soleva dire che «il Caffè Greco è l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo».  C’è una celebre fotografia degli anni Quaranta dove si vedono seduti quasi in posa ai tavolini Goffredo Petrassi, Mirko, Pericle Fazzini,  Mario Soldati, Mafai, Carlo Levi, Afro, Renzo Vespignani, Vitaliano Brancati, Sandro Penna, Lea Padovani, Orson Welles, Orfeo Tamburi, Ennio Flaiano, Libero De Libero, Aldo Palazzeschi. «C’eravamo un po’ tutti – ricorda il pittore Renato Guttuso – e ci andava anche Moravia».

Antico Caffè Greco. Dipinto di Vladimir Petinow
Antico Caffè Greco. Dipinto di Vladimir Petinow

Il Caffè Greco è uno dei più antichi d’Europa insieme al Procope di Parigi e al Caffè Florian di Venezia. Il suo aspetto non era molto differente da quello odierno, come si può vedere da un acquerello del 1852 del pittore Passini conservato ad Amburgo.  Ha mantenuto le stesse caratteristiche nell’arredo e nei tavolini ricoperti da marmi antichi, nelle salette piene di opere d’arte, foto e oggetti che testimoniano della sua storia. Re, regine, marajà, scrittori, poeti, compositori, attori, cantanti, persino capi pellerossa e cowboy come il celebre Buffalo Bill ne sono stati assidui frequentatori.
Fondato nel 1760 da Nicola della Maddalena, forse  un levantino, donde il nome del locale riferito alla sua nazionalità greca, probabilmente esisteva già da alcuni anni. Giacomo Casanova ricorda nelle sue memorie che nel 1743, quando era a servizio del cardinale Troiano Acquaviva (e anche della sua bella nipote), entrò con alcuni amici romani nel «Caffè di strada Condotta». Ma il primo documento ufficiale risale al 1760: si tratta di una nota del censimento di quell’anno contenuta nel Libro dello stato delle anime della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina (conservato nell’Archivio del Vicariato) in cui risulta il nome di “Nicola di Maddalena, greco”. La notorietà del Caffè Greco ebbe inizio nel 1779 quando cominciò ad essere frequentato da Johann Wilhelm Tischbein, Karl Philipp Moritz in compagnia del loro grande amico Wolfgang von Goethe – il quale abitava a poca distanza al numero 20 di via del Corso. Ben presto divenne luogo preferito d’incontri di artisti germanici, tanto che lo scrittore Johann Jakob Wilhelm Heinse ne propose la denominazione di “Caffè Tedesco”. Il suo successo si consolidò nel 1806 quando, a causa del blocco continentale imposto da Napoleone per combattere gli inglesi, il prezzo del caffè salì vertiginosamente. Tutti i caffettieri di Roma, volendo mantenere fermo il prezzo di ogni tazza, si arrangiarono con i ceci, la soia o le castagne. Il proprietario del Caffè Greco, al contrario, utilizzò sempre vero caffè, ma lo servì in tazze molto più piccole (le stesse di oggi: tazzine cerchiate di arancio servite da camerieri ancora come un tempo in frac) e raddoppiò il prezzo.
Il XIX secolo fu l’epoca d’oro del celebre locale e alle pareti sono esposte le numerose opere di artisti italiani e stranieri che lo frequentarono, tra cui quelle di Antonio Mancini, Ippolito Caffi, Franz Ludwig Catel, Enrico Coleman, Massimo D’Azeglio, Angelica Kaufmann. In fondo al locale c’è quasi “inaspettata” sia per grandezza che per bellezza la sala rossa con pareti damascate, la statua di un fauno e sotto la finestra il divano dove si sedeva Hans Christian Andersen. Ora vi si riuniscono varie associazioni culturali tra cui il gruppo  dei ‘Romanisti’, studiosi della storia di Roma e poeti in dialetto romanesco […].
L’elenco degli avventori famosi è quasi interminabile. Del Caffè Greco furono ospiti regnanti e principi della Chiesa quali Luigi I di Baviera e Gioacchino Pecci, il futuro papa Luigi XIII. Tra gli scrittori stranieri, Nicolaj Gogol, che a quanto si racconta vi scrisse una parte delle Anime morte, René de Chateaubriand, Adam Mikewicz e Stendhal, che vi si recava spesso. Lo storico Ippolyte Taine, Arthur Schopenhauer, Mark Twain, George Byron, Percy B. Shelley, che abitava poco distante, e il giovane poeta inglese Keats, che aveva preso casa al numero 26 di Piazza di Spagna dove morì . Fra gli italiani, Carlo Goldoni, Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio. Pittori e scultori quali Jean Baptiste Corot, Friederich Overbeck, Antonio Canova, Orazio e Carlo Vernet, Jean A. Ingres, Berthel Thorvaldsen, Anselm Feuerbach, Henry Regnault. Numerosi i musicisti, tra cui Franz Liszt, Hector Berlioz, George Bizet, Gioacchino Rossini, Jacob Mendelssohn, Giovanni Sgambati, Arturo Sgambati, Arturo Toscanini, Charles Gounod, Richard Wagner. Gli scrittori e artisti stranieri apprezzarono in modo particolare una speciale scatola in legno posta all’entrata che permetteva di ricevere la corrispondenza. Per il suo carattere storico, il Caffè Greco, che continua ad essere frequentato da artisti e letterati di ogni parte del mondo, è stato sottoposto a vincolo nel 1953 dal Ministero della Pubblica Istruzione che lo ha dichiarato monumento di interesse storico.
Un altro caffè che ha avuto una notorietà europea perché accoglieva intellettuali ed artisti stranieri attratti dalle bellezze della Città eterna è il Caffè Notegen, aperto nel 1880 in via del Babuino 159 dallo svizzero Jon Notegen che gli ha dato il nome e che impiantò nei locali sottostanti anche una fabbrichetta di marmellata. Il periodo di maggior fama è negli anni Trenta, quando diventò ritrovo di personalità artistiche italiane e straniere che continuarono a frequentarlo anche nel secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta. Ne furono clienti Mario Mafai, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Mino Maccari, Carlo Levi, Renato Guttuso, Schifano, Novella Parigini, Ugo Attardi. Negli ultimi anni del Novecento e fino ad oggi, dopo un periodo di eclisse, per merito di Reto e Teresa Notegen, il caffè promuove presentazioni di libri, mostre di artisti, dibattiti su scrittori contemporanei e letture di poesia.
Durante la prima metà del Novecento fino alla fine della seconda guerra mondiale, il caffè più in voga tra letterati e artisti è stato il caffè Aragno in via del Corso, oggi trasformato in una rosticceria. Come ricorda Arnaldo Frateili, che lo frequentò e che ha scritto un libro pubblicato da Bompiani intitolato Dall’Aragno a Rosati, nella celebre terza saletta si riunivano scrittori e poeti come Bruno Barilli, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Arturo Onofri, Rosso di Sansecondo, Umberto Fracchia. Da un loro cenacolo, sul quale posavano uno sguardo benevolo alcune divinità maggiori o minori della nuova critica sensibile al verbo crociano (Emilio Cecchi, Alfredo Gargiulo, Goffredo Bellonci, ecc.), nacque la rivista “Lirica” che, anche in una città sorda e distratta come Roma, contò qualche cosa se non altro come antesignana della “Ronda”. Questi giovani, che coltivavano la prosa d’arte oltre alla poesia libera dai vecchi schemi, inauguravano il gusto del “frammento” ed erano lanciati alla scoperta delle letterature straniere. Così la letteratura romana si sprovincializzava, tra le prime clamorose esplosioni delle bombe futuriste.
All’Aragno nei primi anni Quaranta c’erano giornalisti che facevano la fronda al fascismo in maniera più o meno aperta, come Mario Pannunzio, che doveva diventare direttore prima del quotidiano “Risorgimento liberale”, poi del prestigioso settimanale “Il mondo”, con Sandro De Feo, Ercole Patti e Mario Missiroli, celebre direttore prima del “Messaggero” e poi del “Corriere della Sera”. Da lì, alla caduta del fascismo il 25 luglio del ’43, Mario Pannunzio, insieme con altri giornalisti, si mosse per occupare la redazione del “Messaggero” e far pubblicare in prima pagina la notizia della cattura di Mussolini e della fine del regime. Tante volte nella terza saletta c’erano stati battibecchi tra qualche gerarca fascista e gli allora giovani giornalisti e scrittori che parlavano male del regime. Da Aragno, negli anni del secondo dopoguerra, prima che lo storico caffè fosse ceduto ad Alemagna, il produttore dei panettoni milanesi, si poteva incontrare ancora Bruno Barilli che, consumando un cappuccino, scriveva su un quaderno alcuni dei suoi versi o delle sue raffinate pagine sulla vecchia Roma.

Roma. Babington Tea Shop
Roma. Babington Tea Shop

Questi personaggi erano anche tra i frequentatori della Sala da tè Babington a Piazza di Spagna, che fu fondata nel 1893 da Isabel Cargill e Anna Maria Babington. Queste due signorine inglesi di buona famiglia erano venute a Roma con l’intento di  aprire una sala da tè e di lettura per la comunità anglosassone, quando ancora il tè poteva essere acquistato solo in farmacia. Inizialmente, la sala venne aperta in via Due Macelli, ma visto il grande successo l’anno seguente fu trasferita in piazza di Spagna nel prestigioso palazzo adiacente alla scalinata di Trinità dei Monti. Da allora, la sala da tè è rimasta pressoché invariata e continua a essere testimone discreta di eventi storici e culturali. Sopravvissuta a due guerre mondiali e all’avvento del fast food, Babington ha ospitato famiglie reali, politici, giornalisti e personaggi della cultura e dello spettacolo. Ancora oggi, quando si apre la porticina a vetri con sopra disegnato un gatto nero con il collare rosso e il campanello fa ding, ci si sente trasportati magicamente nel sud Kensington del XIX secolo.
È stata meta, prima dell’ultima guerra, di nobili inglesi e di artisti di ogni nazionalità che si sono mescolati poi nel secondo dopoguerra con molti letterati come Elsa Morante e Giorgio  Bassani e molti giornalisti romani. Vorrei riferire la testimonianza di una fine poetessa recentemente scomparsa, Biagia Marniti, che lo frequentava nel dopoguerra. Biagia Marniti è stata una delle protagoniste della rinascita della vita culturale a Roma dove si ristampava “La Fiera letteraria” ed era nato, nel salotto Bellonci, il gruppo degli “amici della domenica” che ha creato nel 1947 il Premio Strega, il più prestigioso premio letterario italiano. Ecco come la Marniti descrive l’ambiente di Babington: “In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica come “Il costume politico e letterario” (1945-1950). Al gruppo si aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Biasi, Nicola Ciarletta, Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze: anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute, paradossi, fra notabili e antinotabili, l’intelligenza scintillava fra una tazza di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà, e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L’unica certezza era l’essere vivi, l’essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano cento idee”.

Pasolini e Alberto Moravia
Pasolini e Alberto Moravia

Posso portare sui caffè letterari romani della seconda metà del Novecento una testimonianza personale, contenuta d’altronde nel mio libro Con Flaiano e Fellini in via Veneto  –  Dalla “Dolce vita” alla Roma di oggi (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. Finalista al Premio estense 2006,ndr).Non si possono trascurare per esempio, fino agli inizi degli anni Novanta, le lunghe serate al bar del Plaza con gli amici come il poeta Michele Parrella, lo scrittore Piero Buttitta, l’editore Cesare De Michelis e il fratello Gianni.  Famosa è la distinzione che faceva Flaiano, a proposito degli intellettuali che si incontravano dopo la cena, fra diambuli e nottambuli, i quali ultimi erano quelli disposti a superare la mezzanotte. Prima di cena si  andava a prendere l’aperitivo in via Condotti al Baretto, che poi fu, alla fine del Novecento, quasi di soppiatto trasformato in una boutique, con grande rammarico di giornalisti e politici che vi si incontravano, da Giorgio Spadolini – cugino del più famoso Giovanni – a Giulia Massari, che hanno poi scelto di rifugiarsi al bar dell’Hotel d’Inghilterra. Il sabato e la domenica una meta letteraria per un caffè o un aperitivo prima di pranzo erano e rimangono i caffè all’angolo tra Campo dei Fiori e piazza Farnese.
Ma il luogo principale di incontro è stato e rimane piazza del Popolo. Nel mio libro c’è proprio un capitolo intitolato Andavamo a piazza del Popolo, dove cito i calembour e i soprannomi che venivano appioppati ai frequentatori di Canova e di Rosati e di cui vorrei citarne alcuni.
Da Canova o da Rosati, appena arrivato dalla provincia nel dopoguerra, seduto al tavolo con Mazzacurati o Vincenzo Talarico o Sandro De Feo, alcuni di quei soprannomi li ho visti nascere o li ho ascoltati dalla voce dei protagonisti. Per esempio, il motto “mi spezzo ma non mi spiego”, con cui Mazzacurati definiva l’inflessibile critico d’arte Argan, io lo ricordo detto da Flaiano a proposito di se stesso così variato: “Mi spezzo ma non m’impiego”. E credo che la battuta “La terra ai carandini”, deformazione dello slogan comunista “La terra ai contadini”, sia nata tra Flaiano e Mezio nel salotto del “Mondo” frequentato da Nicolò Carandini, proprietario della tenuta di Torre in Pietra. L’epigramma di Flaiano suonava così: Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla lancia il manifesto della nuova Internazionale “Agricoltori di tutto il mondo unitevi. La terra ai Carandini”. Mazzacurati, la sera quando usciva dal suo studio di scultore, con la sua aria impassibile, il bel volto in apparenza soave, si sfogava genialmente sia pure indulgendo a qualche scurrilità. Apprendo da Caruso che per esempio il “Vecchio tastamento” a proposito del buon Ciccio Trombadori, che troneggiava da Rosati, o “La picassata alla siciliana” per Guttuso – e trascuro altre variazioni su Picasso – sono di Mazzacurati insieme a molti altri calembour e giochi di parole. Così “L’amaro Gambarotta” per Moravia o “Il profeta del passato” per Pannunzio, (ma era più diffuso, forse per il suo aspetto imponente e per il suo silenzioso distacco, un altro soprannome: “Il piedone”) sono dello stesso autore. Si potrebbe aprire – come del resto s’è aperto – un dibattito sulla paternità dell’uno o dell’altro doppio senso di Mazzacurati, come per esempio, a proposito di un pittore qui anonimo, il forte “Latrin lover”, e “L’incantatore dei sergenti” per Filippo De Pisis.
In un altro capitolo racconto l’atmosfera nel secondo dopoguerra del Caffè Rosati. Nel secondo dopoguerra, Rosati è stato quello che, fino alla metà degli anni Quaranta, per gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti erano stati Aragno e il Caffè Greco. Tutto il mondo letterario ed artistico ruotava intorno a questo Caffè di piazza del Popolo, anche se il suo omonimo di via Veneto attirava d’inverno registi, scrittori, giornalisti e politici, da Saragat ai produttori De Laurentis e Ponti.
I ritmi e le frequenze cambiavano  secondo gli orari delle giornate e delle stagioni. Si andava da Rosati a piazza  del  Popolo a bere l’aperitivo e le signore della buona borghesia andavano la domenica a comprare le paste  dopo la messa, mentre negli altri giorni il pomeriggio prendevano il tè.
Quanti soprannomi celebri sono stati inventati da Vincenzino Talarico, da Mazzacurati, da Flaiano, da Franco Monicelli, sedendo ai tavolini dove affilavano le loro linguacce  prima di  disperdersi per la cena.
L’estate era il trionfo di Rosati. Qui, col ponentino, la sera, fino agli inizi degli anni Settanta, dopo cena, tutti venivano a prendere il gelato o una bibita fresca  e a conversare, parlando dell’ultimo film e del libro di Pasolini o di Bassani o di Arbasino o della Morante, o degli avvenimenti politici interni  ed internazionali, su cui si accanivano Sandro De Feo ed Ercole Patti, anche se essi d’inverno preferivano gli angoli raccolti, come una grotta accogliente, del Caffè di fronte, Canova.
Ho nella mente come un dagherrotipo delle prime serate  che ho trascorso da Rosati  in cui ricordo i vari gruppi. Alberto Moravia che con la moglie abitava in via dell’Oca, la stradina che sbocca in via Ripetta subito dopo piazza del Popolo, ne è stato, tranne che negli ultimi anni, un frequentatore abitualissimo. Vi faceva, per così dire, casa e bottega. E la sera insieme alla moglie Elsa Morante, con Pasolini e con gli scrittori più giovani alle prime armi, da Siciliano ad Arbasino, o con amici che arrivavano da Milano o da Firenze, da Soldati a Vittorini e l’editore Bompiani, si davano appuntamento ai tavoli di questo Caffè.
In un tavolo in prima fila, da solo o con l’amico Francalancia,  sedeva il pittore Francesco Trombadori, talvolta insieme con De Chirico, Guttuso, Bartoli e Maccari. Dall’altra parte  dei tavoli, dopo  le 23, c’erano Mario Pannunzio, Libonati, Carandini, il gruppo del “Mondo” a cui si aggregava volentieri talvolta Rossellini, e poi veniva Fellini per vedere Flaiano. Nasceva in quelle ore una specie di gioco di parole e di sguardi: da tavolo a tavolo si intrecciavano discorsi. Allora Rosati chiudeva verso le una e mezza o le due di notte ed i tavoli rimanevano fuori, e attorno ad essi, con Ciarletta, Bonanni, Alfredo Mezio e talvolta anche con un gruppo di fotografi tra cui Pasquale Prunas, si arrivava fino alle tre o alle quattro a guardare il cielo terso, quasi trasparente. Passava un vecchio con un secchio con Coca Cola e i lupini perché il bar era chiuso e compariva di volo Sandro Penna.

Laura Betti, Pasolini e Gianluigi Rondi
Laura Betti, Pasolini e Gianluigi Rondi

Dopo questo dagherrotipo tra gli anni ’59 e ‘ 60 scattano altre foto nella memoria del tempo. Simone di Beauvoir e Sartre che stavano a parlare come due ragazzini  al tavolo, mentre arrivava Carlo Levi da Villa Strohl Fern con la sua 1100  nera. E i giovani pittori, purtroppo consumatisi nella loro vita dispendiosa, come Franco Angeli con Marina Lante della Rovere e il suo amico Festa, e il  gallerista Plinio con Dorazio, Turcato, Consagra, Nino Franchina, Cascella. C’era alle 19 una gran folla nella saletta, file al telefono come ancora oggi, e si mischiavano gli architetti famosi, da Luccichenti, che costruì la villa della Petacci alla Camilluccia, a Monaco, a Minciaroni.
Altri flash con gli attori: da Vittorio Caprioli a Franca Valeri a Carlo Mazzarella, tra cinema, tv e giornalismo, a Gassman. C’è stato un momento negli anni Sessanta in cui accanto ad artisti e scrittori italiani c’erano famosi personaggi  stranieri, come lo scrittore svizzero Max Frisch ed il pittore olandese De Kooning oltre a stupende ragazze, come una, molto bella amica, di Pollock. I flash potrebbero continuare: forse quell’epoca di Rosati si può cogliere bene nei versi del poeta Michele Parrella che vi veniva allora con Leonardo Sinisgalli: «Era il tempo dei convogli e degli abbracci / Il mondo era là in quella vecchia vetrina opaca / e tutti i nostri nomi ancora intatti / quando i sogni nacquero e si infransero».
Da Rosati sono nati amori e progetti televisivi, soggetti di film, inchieste giornalistiche, polemiche politiche. Rosati è stato fino agli anni della TV un luogo cosmopolita, un centro dei protagonisti del successo letterario ed artistico e dei giovani che vi aspiravano.
Certo, nel Settanta c’è stata una certa decadenza. Il pittore Bruno Caruso racconta in un suo libretto che Flaiano e Mazzacurati incontrandosi una sera a piazza del Popolo e voltandosi a guardare verso il Caffè affollato di giovani sconosciuti con blue-jeans e capelli lunghi diceva: «Credono di essere noi». Era il periodo delle comparse dei film western all’italiana.
Tre anni fa Rosati è stato restaurato, identico a come era prima, con i mobili fatti rinnovare a Firenze dove erano stati costruiti.  È tornato come prima, come una volta. Roma certo  è cambiata  ma sarebbe travolta se Rosati si fosse trasformato in un Caffè postmoderno o alla moda. Forse il modo migliore per dire quello che Rosati dovrebbe essere è citare questi versi di Antonello Trombadori, scritti quando Rosati fu rinnovato e restaurato.

S’ariapre Rosati, allegramente!
M’ero messo pavura che chiudeva
domani invece ce sarà più gente
de quanta prima già se lo godeva.
In tempi de talento scarseggiante
un Caffè con la Storia su le mano
è un richiamo
‘no specchio stimolante.

In un altro capitolo, intitolato Quando l’arte nasceva a piazza del Popolo, cito un libro di Andrea Tugnoli (La scuola di piazza del Popolo, Maschietto ed. Roma 2004, ndr) che ricostruisce la vicenda di quel gruppo di artisti che animarono negli anni Sessanta la vita artistica romana. Quei pittori che si radunavano intorno al caffè Rosati, Schifano, Angeli, Festa, Giosetta Fioroni, Bignardi, Ceroli, Mambor, Lombardo, Tacchi, Kounellis, Pascali, erano al centro di un’attività artistica che rendeva  Roma negli anni ’50 la città che faceva concorrenza a New York e Parigi. Quello che pochi sanno è che erano gli artisti americani a venire a Roma a spiare e curiosare, dal famoso Rauchenberg a De Kooning .
È un libro, quello di Tugnoli, che permette di collocare questo fenomeno romano nella giusta prospettiva, al di fuori degli schemi e delle mode dell’epoca. Nella prefazione Maurizio Calvesi  sottolinea il contributo che questi artisti hanno dato all’arte italiana nella seconda metà del secolo.  “La scuola di piazza del Popolo” ne rappresenta un aspetto importante e, nello stesso tempo, un momento significativo della storia delle capitale che testimonia  della vivacità culturale e artistica di Roma negli anni ’60.
Anche se può suonare come il vezzo della nostalgia del passato, via Veneto, per chi la frequentava all’epoca sua più gloriosa che fu dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, è stata anche il simbolo, nel bene e nel male, di una Roma che usciva dalla guerra e dalla fame, di un Paese che aveva la volontà di ricostruire e di godere dei piaceri della vita. Sento ancora nel palato il sapore dolcemente amaro del primo bicchiere di baby (whisky Ballantine) che, era la fine degli anni Quaranta, assaporavo al bancone di Rosati in via Veneto con il premuroso barman Valentino. Si facevano le ore piccole, chiacchierando attorno ai tavolini dei caffè già chiusi,  mentre c’era la brezza del ponentino che allora rendeva tollerabile trascorrere il luglio e l’agosto a Roma. Via Veneto frequentata da attrici famose, come Lana Turner, da attori come Marlon Brando, era balzata a notorietà internazionale subito dopo la guerra, anche perché gli ufficiali alleati che alloggiavano all’Excelsior e negli altri alberghi frequentavano l’Harry’s Bar, Rosati poi diventato Carpano e il Caffè Strega.
Chi ha letto L’orologio (1950) di Carlo Levi sa come Roma visse quell’epoca del dopoguerra, con quanta effervescente vivacità e creatività. In via Veneto Rossellini ideò i suoi primi film, qui Mario Pannunzio con Franco Libonati e gli altri amici de “Il Mondo”, con Paolo Monelli e Vittorio Gorresio, discutevano di film, di libri, dell’ultimo romanzo di Moravia o delle battaglie politiche per la democrazia. Certo non basta trasformare gran parte di via Veneto in un’isola pedonale, far suonare ad un’orchestrina le musiche degli anni Sessanta (e, perché no, quelle della fine degli anni Quaranta e degli anni Cinquanta) per restituirle quel tocco irripetibile, ma è anche significativo, in questo momento che rassomiglia psicologicamente a quell’epoca in cui da poco era finito un regime, il proposito di far rinascere questa strada che sembrava ormai abbandonata al degrado. Non ci si può certo illudere che, come per miracolo, ritornino i fantasmi di quel tempo. Erano i tempi in cui lo Scià, scappato dall’Iran dove doveva poi tornare fino alla rivoluzione komeinista, stava all’Excelsior con Soraya.

[info_box title=”Giovanni Russo” image=”” animate=””](Salerno) è giornalista, scrittore e commediografo. Tra i fondatori del Partito d’Azione lucano (1943), ha scritto prima su “Il Mondo” di Mario Pannunzio (dove fu proposto dallo scrittore Carlo Levi e dove ebbe modo di stringere amicizia con Ennio Flaiano) e “Il Messaggero”, per diventare poi (1954) inviato speciale del “Corriere della Sera”. Per il quotidiano milanese ha svolto numerose inchieste raccontando con particolare attenzione soprattutto i problemi sociali e civili della società meridionale e dei suoi emigrati. Ritenuto tra i maggiori protagonisti della vita culturale italiana, attraverso i suoi interventi sulle principali riviste del settore (a partire dallaNuova Antologia) ha avuto come impegno costante la documentazione della situazione sociale del Paese: dalle vicende dei partiti ai problemi del Mezzogiorno, fino alla condizione dei giovani nella scuola e nell’università.
Ha vinto il Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 1964, il Premio Marzotto per il giornalismo 1965, il Premio Carlo Casalegno 1981, il Premio Pannunzio 1991, il Premio Mezzogiorno 1993 e il Premio Positano 1998 per il giornalismo civile.
È stato insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi  il 10 aprile 2006.
(Fonte: wikipedia)[/info_box]