Il cimitero di Casarsa e la tomba di Pasolini con la madre Susanna

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

In “Pagine corsare” un bell’articolo, pubblicato senza nome dell’autore, rievoca i funerali  romani di Pasolini, cui seguirono il 6 novembre 1975 quelli di Casarsa, dove poi il corpo fu sepolto e dove ora si trova in un tomba che fu organizzata dall’architetto friulano Gino Valle dopo la morte nel 1981 della madre Susanna. Un piccolo cimitero di campagna in mezzo alle viti e un’atmosfera di pietosa semplicità che ispirano accenti di commozione all’estensore dello scritto, che da alcuni riferimenti risale all’autunno del 2005.

Il cimitero di Casarsa

www.hackmed.org – autunno 2005

Il cimitero di Casarsa è circondato da vitigni e i campi sono così antichi che sembra di vederci il padrone che si aggira, con il cappello in testa, il bastone, i baffi e l’orologio da taschino. I filari sono belli, arrossati dall’autunno, nessuna malattia sembra scalfirli. C’è un lungo viale di ghiaia bianca, ombreggiato da altissimi cipressi, e un posteggio che contiene molte macchine, tutte vecchie e piccole, dai colori improbabili e da graffi causati dalla scarsa perizia nella guida. L’entrata è scarna: un arco, una tintura bianca, una specie di tetto e una scritta: «In pace Christi requiescant».
Sul cancello di ferro battuto, un avviso, fra i tanti: «Attenzione, ripetuti furti. Prestare la massima precauzione». Milan Kundera ha scritto uno splendido ritratto di una ladra da cimiteri, che rubava i fiori per amore, perché non aveva soldi per comprarli. Ma, bello o brutto che sia il reato, l’impressione, entrando in questo luogo, è comunque quella di commettere un furto. Un furto di emozioni proprie e altrui, un furto dentro la propria infanzia, quando trent’anni esatti fa abbiamo tutti ascoltato la notizia della morte di Pasolini, e siamo rimasti atterriti, e abbiamo capito che qualcosa era finito nel nostro paese, il «Belpaese», come si chiamava allora l’Italia.

Camera ardente alla "Casa delle Culture" di Roma. Sullo sfondo Enrico Berlinguer
Camera ardente alla “Casa delle Culture” di Roma. Sullo sfondo Enrico Berlinguer

Dopo la morte, avvenuta come si sa all’Idroscalo di Ostia per mano violenta, il corpo macellato di Pasolini era stato portato in via Eufrate a Roma per l’autopsia. I medici legali avevano riscontrato «dieci costole fratturate, fratturato lo sterno, il fegato lacerato in due punti». Era stato custodito lì fino al 5 novembre, quando la bara venne traslata alla Casa della Cultura, a due passi da piazza Venezia e poco più da Campo de’ Fiori, per l’omaggio ufficiale da parte della gente e soprattutto del Pci. La camera ardente era dominata dal rosso dei drappi comunisti. Il legno venne parzialmente aperto e l’inviato di “Paese Sera” trovò il volto di Pasolini «color cenere», «senza tracce dell’ultima violenza». Molta gente sostò davanti al feretro per l’estremo saluto al poeta. Più genuflessioni e segni della croce che pugni chiusi. Ma va detto che ci fu anche chi protestò, e platealmente: un gesuita quarantasettenne venne sorpreso nei pressi di via delle Botteghe Oscure a scrivere “Pig” sui manifesti che annunciavano la morte di Pasolini. Aveva scarabocchiato anche «Coprolalo», «Perverso» e «Blasfemo».
Comunque quel mercoledì non faceva freddo, la gente indossava maglioni e giacche, nessuno sciarpe. Franco Citti iniziò il proprio turno di veglia mentre il fratello Sergio deponeva la maglia numero undici di Pasolini sulla bara. Pasolini amava il calcio e nessuno considerò quel gesto fuori luogo. Arrivarono anche Bernardo Bertolucci, Antonello Trombadori, Francesco Rosi, Elio Petri, Graziella Chiarcossi. Solo quando vide quest’ultima, Ninetto Davoli scoppiò in lacrime. Tra gli ospiti di prestigio della camera ardente ci fu anche Enrico Berlinguer, si fermò poco, ma firmò diligentemente il registro delle presenze.
Oggi, entrando nel cimitero, si ha la sensazione di tornare in quell’epoca lontana, e di rubare i ricordi che sono sempre più sfumati. Ognuno di noi assume una verità e questa verità gli costa, a volte di più a volte di meno. Se non fosse così dolorosa non andrebbe detta. È il dolore che ogni verità porta con sé, personalmente, sulla propria pelle, che dà il diritto di raccontarla semplicemente, di reinventarla. E mai nessuna vita di scrittore italiano fu più reinventata di quella di Pier Paolo Pasolini. Così nonostante la mestizia e la placida solennità del cimitero di campagna, con le sue vecchie signore, i capelli bianchi e le permanenti anni Sessanta, le vene varicose e le calze che reggono gambe non più agili, l’atmosfera è quella contratta e semplice di un rito laico. Qualcuno si avvicina alla tomba. Guarda la lapide, le piante, le corone, dice una preghiera, forse parla, chiacchiera col poeta. E quando si accorge che qualcun altro sta sopravvenendo se ne va, quasi di fretta, come se l’avessero colto in fallo.
E così, una persona dopo l’altra, il luogo aperto delle lapidi e degli avelli e delle tombe famigliari si scopre non essere desertico, come appariva a prima vista, e il ricordo si scopre non essere spento. Le braci ardono ancora. Forse alcune di queste persone hanno condiviso qualche giorno con Pasolini, forse no. Forse tutto è passato e restano solo quella pietra, quelle date. Di certo non erano neanche nati al momento della morte i ciclisti che si fermano in gruppo per rendere omaggio. Hanno bici all’ultima moda, e bellissime tute aderenti e gli occhiali viola. Si fermano e, con le gambe malcerte per le scarpette e la ghiaia, camminano fino al marmo. E pregano anche loro, come tutti.
Quando, alle cinque del pomeriggio, la bara uscì dalla Casa della Cultura la gente aveva cominciato ad accalcarsi intorno, da almeno tre ore. Alla prima apparizione su largo Arenula scoppiò un applauso spontaneo, lunghissimo, in crescendo. Un applauso che tributava al poeta un amore che spesso era stato messo in discussione. Vista la calca, gli uomini che sorreggevano la bara non potevano che proseguire lentamente per Campo de’ Fiori, luogo delle esequie. Non c’erano guardie a trattenere la gente, non c’erano direttori, solo alcuni volontari della Fgci che tentavano di arginare la folla. Il funerale ricordava il funerale anarchico di Buenaventura Durruti, a Barcellona, tantissimi anni fa. Ci fu chi descrisse la bara come una barchetta in mezzo alla tempesta e Bernardo Bertolucci, uno dei portantini, disse che ebbe grande timore che potesse sfuggirgli dalle mani. Molte persone cercavano con disperazione di toccare il legno, come se fosse taumaturgico, come se la poesia avesse anche vie soprannaturali, salvifiche.
Dopo l’applauso gli unici rumori che si sentirono furono quelli dei tacchi delle scarpe e gli scricchiolii di finestre e persiane. Non ci fu odore d’incenso, ma di caldarroste. A Campo de’ Fiori, i volontari della Fgci avevano costruito un palco di legno, ma la folla era così accalcata che il palco quasi non si vedeva più. Il primo a parlare fu Alberto Moravia, poi fu la volta di Aldo Tortorella, importante esponente del Pci, e poi di Gianni Borgna, segretario della Fgci. Moravia aveva la sua solita vocina rauca. Disse: «Con lui abbiamo perduto un testimone costante delle contraddizioni del nostro tempo…». Disse anche: «La bontà e la semplicità di Pier Paolo Pasolini erano una cosa rara, non facile a trovare…»

Cimitero di Casarsa: tomba di Pasolini e della madre Susanna
Cimitero di Casarsa. Tomba di Pasolini e della madre Susanna

E semplice e buona è la sua tomba, anche trent’anni dopo. Un quadrato di terra. Un alloro che si alza verde e grigio fino al cielo. La sua quieta ombra. Due lastre di pietra. Una per la madre, Susanna, e una per Pier Paolo. Due date, quella della nascita e quella della morte. Il figlio e la madre vicini. Ci sono molti fiori, ma non moltissimi, una corona del Comune di Casarsa e una dei Ds, dei gigli, della margherite. Chissà com’è che la saggezza popolare capisce subito quali sono i fiori giusti per una tomba. La purezza del giglio. La semplicità della margherita. Perpendicolare al lato della tomba che dà sul vialetto di ghiaia c’è una striscia di marmo, appena elevata da terra. Credo che sia un rimasuglio del monumento funebre allestito dall’architetto Valle. Mi ricordo come, in una delle ultime interviste, si lamentasse di come gliel’avevano smantellata. Mi pare di ricordare le sue parole: «Era una cosa semplice, pulita, rispettosa…».
Mentre passa il tempo, le persone entrano più numerose al cimitero e per la prima volta, in questo sole autunnale e ancora misteriosamente caldo, si scopre come si stia formando una lentissima processione. Non una processione dei corpi, ma delle anime, come se ci fosse una sorta di affratellamento. La signora che depone una cero sorride alla coppia anziana che sosta per un secondo. La ragazzina stringe la mano alla madre e se ne vanno verso l’uscita con le labbra distorte da un dolore difficile da capire.
Finita la cerimonia a Roma, la salma venne portata qui, a Casarsa. Il corteo arrivò alle due di notte e, nonostante fosse così tardi, trovò una folla radunata ad aspettarlo. Fino al mattino la bara venne vegliata. Il giorno dopo il funerale si celebrò nella chiesetta di Santa Croce, affrescata da Pomponio Amalteo. Molto tempo prima, fu qui che venne celebrata la funzione funebre per il fratello di Pier Paolo, Guidalberto Pasolini, che venne ucciso in uno scontro partigiano a Porzûs. Anche lui viene ricordato nel cimitero di Casarsa, in un monumento che la cittadina ha dedicato ai suoi morti in guerra: un piccolo altare, due santi affrescati e tanti fiori, e una foto, quella del giovanissimo Guidalberto, scolorita dal tempo.
La cerimonia funebre di Pier Paolo Pasolini venne officiata da David Maria Turoldo. Giunse da Bergamo apposta. Turoldo durante la messa lesse brani dal Vangelo secondo Matteo. Più tardi, lesse un brano dal Discorso delle Beatitudini, la più semplice e colorata forma di amore verso Dio. Quella forma di amore che rende l’uomo simile a un giullare, che non può che disarmare la violenza. «Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, beati i miti. Beati quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni male contro di voi…».