Novembre 2006. Due testimonianze per “Pagine corsare”

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

Nel novembre 2006, a trentuno anni dalla morte di Pasolini, “Pagine corsare” ha pubblicato le parole accorate di due visitatori che, in modi diversi, hanno voluto esprimere il loro rimpianto per la figura del poeta perduto.

Pier Paolo Pasolini: la voce di un poeta
di Liberato Russo
1° novembre 2006

Nessuno può spegnere la voce di un poeta. Nessuno può dominare il pensiero imprigionando l’azione e la parola. La voce di un poeta rappresenta sempre un ritorno all’essenza di quel pensiero fragile e leggero, capace però di provocare fulminanti riflessioni, analisi, critica sociale e politica. Trentuno anni fa un’espressione di morte, una violenza e una barbarie senza precedenti ha cercato di umiliare e mutilare la genialità ed il pensiero di uno dei massimi poeti della nostra Italia.
«Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre quattro in un secolo; quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe essere sacro…».  Queste le parole di Alberto Moravia all’indomani della morte di Pier Paolo Pasolini avvenuta tra il 1° e il 2 novembre del 1975. Parole belle e incisive, urlate con rabbia e con dolore; credo siano le più significative e sicuramente esprimono in un lampo quello che Pier Paolo deve rappresentare per l’Italia di oggi come quella di 31 anni fa, quando si spense a soli cinquantatré anni sotto i colpi di una violenza inaudita!  In quel funerale, in mezzo a tutti quei pugni alzati, c’era un popolo che era lì per lui come per un amico, uno che aveva saputo accorgersi di quella gente e ne aveva parlato, descrivendola senza compassione; l’aveva descritta così com’era, coi suoi pregi, coi suoi difetti, e questo lo fanno soltanto gli amici.

Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Bernardo Bertolucci ai funerali romani di Pasolini
Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Bernardo Bertolucci ai funerali romani di Pasolini

Il Novecento aveva perso troppo presto uno dei suoi poeti più cari, aveva perso troppo presto chi era riuscito a leggere un’epoca nello scorrere degli anni, con una lucidità spaventosa, quasi fosse più in alto, quasi ne vedesse meglio i contorni. Era “scomodo” certo, perché le sue parole restavano e colpivano duro; per quanto le attaccassero, le processassero, le mettessero all’indice, loro restavano lì e pesavano, erano piombo per gli “ipocriti” e i “perbenisti”, erano un bruciore acceso sulle ferite dell’Italia di quegli anni, erano grida alzate contro l’ignoranza.
Trentuno anni ci separano dall’assassinio di Pier Paolo Pasolini! Eppure il dolore è ancora vivo come se fosse accaduto ieri; eppure lo strazio è inconsolabile e quella ferita è ancora aperta. Più ci si allontana da quel giorno, più Pasolini lo si sente presente nella vita di ciascuno di noi.
Perché non riusciamo a dimenticare? Perché questo dolore, questa strana nostalgia passa e si tramanda da una generazione ad un’altra, da coloro che l’hanno direttamente conosciuto e che l’hanno potuto ascoltare a coloro che non hanno potuto conoscerlo e, come me, l’hanno scoperto solo nei suoi versi, in una rappresentazione teatrale o in un film? Io dico perché nessuno è stato capace di colmare quell’eterno vuoto che egli ha lasciato, nessuno ha saputo conoscere e amare il mondo come lui ha saputo fare. Perché Pasolini è stato tante cose insieme, dando vita a un percorso sentimentale e culturale che ha portato ad amarlo come un fiore raro, come un fratello, come un amico.
Pier Paolo è stato innanzitutto un poeta, un grandissimo poeta, con la consapevolezza, come ebbe a dire proprio Moravia nel giorno del suo funerale, che «di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro in un secolo». È stato uno scrittore che ha “folgorato” l’anima e la mente, che ha inventato e “impastato” un nuovo linguaggio; è stato un grande regista, consapevole che il cinema non era una tecnica diversa di rappresentare la realtà, ma un linguaggio, con i suoi codici segreti, che dunque andava usato per capire meglio il mondo, per immergersi nelle diverse realtà, specie le più tragiche e difficili, per cercare dentro di essa lo stretto passaggio tra il razionale e il magico, tra la storia contemporanea ed il passato.
È stato un uomo di teatro, teso alla sperimentazione più coraggiosa. È stato un letterato coltissimo. È stato un polemista pungente, che negli ultimi anni della sua vita ha annunciato con lucidità profetica la corruzione e lo “sfascio” di una società che andava cambiando in radicale rottura con se stessa e il suo passato. È stato insomma un “eretico” e un “diverso”.
Oggi, quando ormai tutte le logiche del progresso si sono dimostrate bugiarde, è forse proprio la sua parola l’unica chiave per uscire dalle pastoie di un tempo di morte; non nel senso di un ritorno a un mondo che non c’è più, non nel senso di una nostalgica contemplazione del passato, ma in quello di non ritenere impossibile la ricerca di valori e di orizzonti diversi. Se è nostalgia sognare un mondo diverso, se è nostalgia denunciare la perdita del senso della vita, se è nostalgia sentirsi umiliati e offesi dalla cecità e dal conformismo, allora Pasolini fu davvero un nostalgico, e nostalgici con lui tutti quelli che lo amarono e lo amano.
Qui fu la sua vera diversità, non tanto nella sua condizione di omosessuale, che pure egli non nascose mai, che fu forte scandalo in quel tempo e che gli costò processi e persecuzioni senza fine in una società sessuofobica e repressa! Ma se ci guardiamo intorno, dietro la nostra apparente e moderna libertà sessuale, dietro la nostra apparente e moderna “spregiudicatezza”, quella diversità risulta essere, purtroppo, ancora uno scandalo.
Questo è, dunque, quello che ci manca; tutto questo ci rende Pasolini così caro e presente in mezzo a noi. Ma è innanzitutto il poeta che ci manca, è innanzitutto l’acuto e limpido poeta, quello che si legge ancora così poco, quello che palpita e vibra non appena si apre una delle sue innumerevoli raccolte.

Pasolini e Alberto Moravia
Pasolini e Alberto Moravia

Dall’altra parte del mondo…
di Angelo Maria Marconcini
2 novembre 2006

Vi scrivo dall’altra parte del mondo dove me ne sto in “volontario esilio”; vi scrivo da Cuyo Mendoza, Argentina, e non posso dimenticare il giorno in cui ho visto le terribili immagini televisive della sua morte; avevo solo dieci anni, ma quelle inquadrature profananti non potevano non ferire la mia sensibilità di bambino, e ho pianto.
Quello è stato il mio ingresso nella Storia, il primo ricordo storico che possiedo.