Proiezione speciale di “Medea” a Roma, con Patti Smith e Bertolucci

In occasione della proiezione, giovedì 11 aprile alle ore 21.00, nella Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, di Medea di Pier Paolo Pasolini alla presenza di Patti Smith e Bernardo Bertolucci che saranno condotti da Mario Sesti in un’esplorazione del loro rapporto con l’opera pasoliniana, proponiamo una scheda del film curata da Giordano Biagio.

Medea di Pier Paolo Pasolini

dall’omonima tragedia di Euripide

un film scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini; fotografia Ennio Guarnieri; scenografo arredatore Dante Ferretti; architetto Nicola Tamburro; costumi Piero Tosi; commento musicale Pier Paolo Pasolini con la collaborazione di Elsa Morante; montaggi Nino Baragli; collaborazione alla regia Sergio Citti; assistente alla regia Carlo Carunchio.
Interpreti e personaggi Maria Callas (Medea); Laurent Terzieff (il Centauro); Massimo Girotti (Creonte); Giuseppe Gentile (Giasone). E inoltre Margareth Clementi, Sergio Tramonti, Anna Maria Chio.
Produzione San Marco SpA (Roma), Le Films Number One (Parigi) e Janus Film und Fernsehen (Francoforte); produttori Franco Rossellini, Marina Cicogna; produttori associati Pierre Kalfon, Klaus Helwig; pellicola Kodak Eastmancolor; formato 35 mm, colore; macchina di ripresa Arriflex; sviluppo e stampa Technostampa; sincronizzazione NIS Film;distribuzione Euro International Films.
Riprese maggio-agosto 1969; teatri di posa Cinecittà; esterni Turchia, Siria; interni Aleppo (Siria), Pisa, Marechiaro di Anzio, Laguna di Grado, dintorni di Viterbo; durata 110 minuti e 28 secondi.

Tra le più memorabili riletture del mito non solo del cinema, ma anche del teatro e della letteratura. La Medea “barbara” primeggia sulla Medea demoniaca e innamorata. Svalorizzazione pura del conflitto interiore di una donna. Oltre il conflitto romantico (o mistico) fra ragione e passione.
Nelle scene iniziali veniamo immersi da uno splendido ambiente solare, del tutto naturale, di grande pace, con una limpida laguna e gli ordinati casoni: è il luogo incantevole dove è avvenuta la crescita di Giasone, educato e protetto dal centauro poeta di nome Chirone.
Quando Giasone compie cinque anni il centauro gli svela che non è lui il padre e gli racconta quindi tutta la storia mitologica della sua reale provenienza.
Il centauro narra dell’importanza del vello d’oro, appartenente a un Caprone parlante dal pelame d’oro, di origine divina, in grado di volare, che portava fortuna ai re, ed era quindi sempre molto ambito.
Un giorno il Dio Ermete regala il Caprone divino alla Dea Nefele, che regnava sulle nubi, il regalo serviva a difendere dalla morte i figli della donna, che per gelosia erano minacciati dalla Dea Inno. Quest’ultima era la seconda moglie del re Atamante, sovrano di Jolco, figlio di Eolo, Dio del vento, da cui discendeva anche Giasone. Inno era la ex moglie di Eolo.
Il Caprone divino porta al di là delle acque un figlio di Nefele, Frisso, giungendo nella città di Ea, dove il re Eta, figlio del sole, lo accoglie con grazia e sacrifica il Caprone al Dio Zeus per ringraziarlo del dono.
A Jolco il re Atamante viene messo illegittimamente in prigione per gelosie di potere da parte dello zio di Giasone, Pelia e il discendente Giasone, cui spetta l’eredità del trono in quanto discendente di Eolo, viene allevato dal centauro poeta in un’altra tranquilla regione.

Dopo la dissolvenza fotografica dell’ambiente ameno e grazioso in cui cresce Giasone, le riprese passano nella regione barbara della Colchide, oggi individuabile nella parte occidentale della Georgia. Siamo nella città di Ea, qualche secolo avanti Cristo, dove si trova custodito il vello d’oro. Le riprese avvengono in una zona verosimilmente barbara, con le abitazioni ricavate nella roccia, gli interni ricchi di simboli religiosi autentici che emanano un sapore mitologico antico e si assiste al cerimoniale della fertilità della terra, un sacrificio umano legato alla magia e alla credenza religiosa, che riesce solo con la presenza dei figli del re Eeta, Medea e suo fratello.

La vittima predestinata viene uccisa, fatta a pezzi, e il suo sangue divenuto simbolo sacro serve per evocazioni e rituali legati allo scambio del dono della fertilità concesso dagli dei. La sequela del sacrificio è accompagnata da un canto mortuario atavico.
Giasone, quando compie venti anni, torna nella città di Jolco e rivendica il trono allo zio Pelia, il quale gli assicura il trono solo se riuscirà a conquistare il vello d’oro.
Giasone, entusiasta, accetta la sfida, e si imbarca con altri su una zattera che sarà chiamata Argo.
Giasone e gli argonauti approdano nella Colchide e depredano tutto, suscitando negli abitanti sorpresi turbamento e paura.
A Ea, città della Colchide, c’è ansia: Medea ha avuto delle visioni, vede il volto molto attraente di Giasone che è in viaggio, pensa già che potrebbe innamorarsene, sa che presto arriverà nella città.
Se tra Giasone e Medea nascerà l’amore, avrà sviluppi tragici?
Riuscirà Giasone a rubare il vello d’oro e a salire sul trono legittimo, a Jolco, occupato dallo zio Pelia?

E’ il quarto e ultimo film tragico di Pasolini, tratto dall’opera Medea di Euripide (431 a. c.), fa parte della serie filmica cosiddetta di élite, rivolta a pochi spettatori intenditori, colti, quelli più legati al gusto classico e sensibili a quelle tematiche tragiche antiche che spiegano in un certo senso gran parte del presente. La serie filmica di élite viene decisa da Pasolini a metà anni degli anni ’60, dopo l’esaurimento della sua ispirazione autoriale-registica nella serie dei film “nazional popolari” così denominati in omaggio alle acute analisi culturali e politiche sul nostro paese scritte nei Quaderni dal carcere da Antonio Gramsci.

La serie filmica “nazional–popolare” era rivolta da Pasolini a un popolo italiano che da molti intellettuali era ritenuto del tutto inesistente perché idealizzato e a volte ideologizzato, un popolo però a cui Pasolini credeva fermamente, che amava fin dai tempi della sua militanza nel PCI. Pasolini riteneva che in esso fossero presenti modi espressivi ancora autentici, diretti, privi di marchingegni linguistici legati alla manipolazione artefatta delle cose, anche se spesso certe espressioni erano meno dirette, ambigue perché in relazione onirica con la sfera del sacro, inteso quest’ultimo in una accezione molto ampia, non solo religiosa-moderna ma anche mitologica-antica, cioè come un passato che non si lasciava ancora sostituire del tutto dalla modernità più volgare, quella artefatta legata all’influenza della disinformazione mediatica. Un popolo che Pasolini apprezzava e sosteneva culturalmente perché non era del tutto assimilabile nei desideri, nei sogni, nelle aspirazioni, nelle abitudini e tradizioni di vita, al modello borghese che, con il miracolo economico italiano, tendeva via via sempre più ad imporsi.
Negli anni ’60 la borghesia era in forte espansione mediatica, lasciando prevedere che in breve tempo, grazie ai diversi poteri tecnologici sull’immagine, avrebbe conquistato una forte egemonia nei costumi, nei divertimenti, e nelle idee delle masse. Pasolini fotografa con la serie dei film “nazional-popolari” gli ultimi palpiti di un antico destinato a breve a morire o a essere del tutto rimosso, perché sostituito da una spessa corteccia di luoghi comuni e false comunicazioni mediatiche.

Invece con la serie filmica d’élite che va da Uccellacci e uccellini a Medea, cioè dal 1966 al 1969, Pasolini sviluppa un’altra idea, segnata in gran parte dalla morte, da una pulsione autodistruttiva, probabilmente la sua che in qualche modo già presagiva, seppur essa rimaneva fino alla fine dei suoi giorni ben combinata a forti pulsioni di vita artistica.
E’ un’idea estetica, non più legata quindi a criteri di ricerca della verità. Egli si lascia andare a giochi narrativi particolari, con protagonista la tragedia, mettendo in gioco, nella meticolosa scelta dei testi classici, gli aspetti più profondi della propria poetica.
Pasolini non ha più la pretesa di analizzare grandi spaccati sociali e culturali del nostro paese, ma vuole evidenziare intrecci onirici in relazione con il sacro, di grande effetto spettacolare e culturale, lascia ad altri il compito di trovare in essi anche aspetti importanti di verità. Lo fa lavorando con uno spirito critico più complesso e disincantato rispetto alla prima serie filmica e con un’estetica magistrale della fotografia, fedele ai luoghi antichi dei fatti o alla scelta di metafore visive accurate che parlano quasi da sole, come le deserte infrastrutture di cemento in Uccellacci e uccellini che indicano lo sfascio del paesaggio italiano prodotto dall’industria.

L’idea di far rivivere nella memoria, con la potenza del cinema, ciò che in qualche modo del sacro riguarda l’occidente nel più profondo dell’inconscio, lo porta al capolavoro di Medea che è il film che meglio fa sentire agli spettatori la dimensione altra del loro essere, quella che convive inconsciamente, con grosse difficoltà, con la parte più tecnicizzata e moderna della coscienza occidentale.
L’onirico più archetipico del sogno occidentale è inteso da Pasolini non solo come immagine inautentica, misteriosa, inspiegabile, ma come ipotetico enigma, chiave di una possibile facile lettura, qualcosa che già si spiega, freudianamente, proprio nell’immagine simbolo-deformata, anamorfica, che appare al suo primo passaggio nella mente sognante.
Nel film Giasone, da adulto, evoca o sogna il Centauro poeta che l’ha educato e davanti gli si parano all’improvviso, in un gioco di proiezioni e identificazioni con il maestro, due figure: una è il Centauro dell’adolescenza, ancora mezzo uomo e mezzo cavallo, più vicino quindi alla natura e al sacro che tutto condensa; l’altra è il Centauro uomo tutto di un pezzo, eretto, razionale, che ha sostituito la vecchia propria figura senza poterla più eliminare ma soltanto rimuoverla.
E’ questa la metafora tragica del civile occidentale, della sua spaccatura pulsionale, della sua schizofrenia, dell’incapacità del tipo di cultura sviluppatosi in questo civile a ricomporre in unità un conflitto archetipico che ha radici profonde nella storia.
Da sottolineare nel film alcuni difetti di montaggio che impediscono agli spettatori di seguire con facilità il racconto. Non sempre sono chiari i passaggi dal sogno e dalle visioni, alla realtà, con l’antipatico effetto di assistere a delle scene chiave emozionalmente scarichi: perché si è presi dal dubbio.