Pasolini e Longhi, maestro e uomo. Una riflessione di Valerio Capasa

Sullo spunto del ricordo Pasolini del grande maestro Roberto Longhi, Valerio Capasa riflette sul valore dell’umanità di chi insegna e che, se autentica, cambia la vita di chi apprende. Ingrediente pedagogico inimitabile,  che non si può imparare in nessun corso di specializzazione e che conserva sempre la sua attualità.

C’è bisogno di uomini, non di professori
di Valerio Capasa

www.ilsussidiario.net – 1 aprile 2018

Una vita è segnata dai suoi incontri decisivi. Se un cuore traboccante di desiderio non trova qualcuno che gli mostri una strada, fatalmente si rattrappisce, e rimane in balia della mentalità comune. Vale soprattutto per la scuola: potremmo parlare di mille questioni, ma il punto infuocato è se, in tanti anni di permanenza fra quei muri, a un ragazzo capita di imbattersi in un maestro oppure se non gli capita. Le migliori riforme, le migliori strutture, le migliori condizioni non sono nulla senza il terremoto provocato da un tale incontro.
Ma “che cosa è un maestro?”. Lasciamolo dire a Pier Paolo Pasolini: «Intanto si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro: quindi il senso di questa parola ha la sua sede nella memoria». Chi ha visto passare soltanto insegnanti non sa nemmeno di cosa stiamo parlando; chi ha incontrato un maestro, invece, lo sa perfettamente, perché la sua memoria, dopo quell’incontro, ne è stata irrimediabilmente segnata. «Egli viene vissuto: e la conoscenza del suo valore è esistenziale»: un maestro introduce una diversità, di cui ci accorgiamo nel concreto, mentre viviamo.

Pasolini giovane studente universitario
Pasolini giovane studente universitario

Così Pasolini ricorda nel 1971 lo storico dell’arte Roberto Longhi: «Longhi era semplicemente uno dei miei professori all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli altri, fuori dall’entropia scolastica. Esso è escluso e isolato. Al centro di questo ambiente diverso (per ragioni funzionali: la possibilità di proiettare diapositive ecc.) c’era un uomo che era in realtà veramente un uomo». Perfetto, il maestro è «veramente un uomo». In che senso?
«Voglio dire che l’umanità dei professori suoi colleghi più modesti veniva fuori, grattando in loro la spessa crosta professorale, come fraternità grezza e grossolana, povera umanità diuturna e piccolo-borghese, debole carne (magari fascista). No: Longhi era prima uomo che professore (cioè maestro) proprio perché non c’era niente di professorale da grattare in lui per ritrovarlo: era subito ciò che era, cioè un uomo superiore: era uomo cioè in quanto superuomo, in quanto idolo, in quanto personaggio da Commedia. Per un ragazzo avere a che fare con un uomo simile era la scoperta della cultura come qualcosa di diverso dalla cultura scolastica. Un professore è un uomo alienato dalla sua professione, un’autorità che nei casi migliori getta la prima maschera autoritaria per scoprire un’altra maschera, quella del modesto travet».
Al confronto con un uomo che «era subito ciò che era», si è invasi dall’impressione che tutti gli altri siano solo degli impiegati, che svolgono anche coscienziosamente il loro mestiere: ma che tristezza questa misera normalità! Quella cantata da Antonello Venditti, «il professore che ti legge sempre la stessa storia nello stesso modo sullo stesso libro con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione». Brava gente, senz’altro, che vive una «fraternità grezza e grossolana»: chiacchierate davanti alle macchinette, cordialità nelle chat. Ma un maestro è uno in cui non c’è niente “da grattare”; non serve andare a cercare, in gita o in pizzeria, il lato umano sotto il professore: nel maestro c’è l’uomo, mentre insegna. Lo vedi che spiega, e in quel momento lo vedi tutto intero.
«Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione. Egli cominciava a balbettare dietro al maestro. La cultura che il maestro rivelava e simboleggiava si poneva come alternativa all’intera realtà fino a quel momento conosciuta».
È proprio così, chi ha avuto la fortuna di incontrare un maestro che «parlava come nessuno parlava» ha percepito un’«alternativa all’intera realtà fino a quel momento conosciuta». Niente, dopo quell’incontro, sarà mai più come prima; senza quell’uomo non si scorgerebbero alternative al pensare di tutti, alle giornate di tutti.
Qualcosa di simile racconta il musicologo Massimo Mila a proposito di Augusto Monti, insegnante suo e di Cesare Pavese: «Siamo una confraternita di gente per cui essersi scontrati in quell’uomo e nel suo insegnamento vuol dire averne riportato un’impronta che non si cancella, vuol dire essere diventati tali e non altri». A quanto pare Monti «in tre anni quel gnocchetto di materia umana ancora tutta malleabile te lo formava e ti sortiva di là, da quel liceo, ch’eri un piccolo uomo, con la tua via davanti, con le tue convinzioni, con la tua bussola, armato e pronto per il viaggio». Un maestro ti arma di una “tua bussola”, ti fa scoprire le “tue convinzioni”, fa esplodere la tua unicità e diversità, mentre un insegnante gode a sentirsi replicare. Stupendi i dettagli forniti da Mila su quelle ore di italiano nella Torino di quasi un secolo fa:
«Ma la scuola di Monti non tardava ad aprirsi in due settori ben distinti: le ore in cui “interrogava”, ed erano per i più — e pure per lui — l’inferno, che non si sapeva mai cosa diavolo volesse, certe domande ti faceva che nessun libro ne forniva la risposta, e se tu recitavi appuntino la lezione — biografia dell’autore, elenco delle opere e “giudizio” — lui ti ascoltava con una faccia come se gli stessi narrando di sua madre le peggiori infamie, e poi magari ti concedeva il sei, la sospirata sufficienza, ma con un sospiro di sopportazione, che tanto valeva ti dicesse in faccia quello che pensava: che sangue da una rapa non se ne può cavare. Ma c’erano, e ben più numerose, le ore in cui Monti “spiegava”: ed erano il paradiso. La lezione culminava sempre nella lettura del testo; inquadramento storico, analisi stilistica, commento critico e spiegazione letterale dei passi difficili, tutto era semplicemente un aprire la strada e rimuovere ostacoli, perché avvenisse, alla fine della lezione, l’epifania, perché la lettura facesse la prova del nove di tutto quanto era stato spiegato, e quelle pagine che fino a poco prima t’erano parse magari nient’altro che un noioso vecchiume, si animassero meravigliosamente vive, giovani, ilari, entusiasmanti».
Inutile dire che nessuna scuola di specializzazione e nessun corso di formazione possono produrre maestri di tale spessore, che non vogliono rispostine precotte ma rivolgono domande vere, che rendono vivo ciò che altrimenti sarebbe anche giusto ma sepolto. «Quella scoperta dei classici, che in genere si fa per conto proprio dieci, venti, trent’anni dopo la scuola, quando d’essere un arnese di scuola i classici, appunto, hanno cessato, Monti te la faceva far lì, seduta stante, con un insegnamento che ripristinava la vita in tutte quelle cose che la scuola tende a imbalsamare».
La scuola riesce a imbalsamare le opere d’arte più sovrumane, i fatti più rivoluzionari, le scoperte più ardite, ed è ridicolo illudersi che ci vogliano strategie didattiche innovative, una spruzzata di tecnologia e qualche progettino accattivante. Non c’entrano niente. Aveva ragione Carlo Betocchi: «Ciò che occorre è un uomo,/ non occorre la saggezza,/ ciò che occorre è un uomo/ in ispirito e verità:/ non un paese, non le cose,/ ciò che occorre è un uomo,/ un passo sicuro, e tanto salda/ la mano che porge che tutti/ possano afferrarla, e camminare/ liberi, e salvarsi».