Pasolini e Fellini, un dialogo a distanza. Il ricordo a 100 anni dalla nascita di uno dei più grandi registi italiani

Il 20 gennaio del 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini. Ci piace ricordare l’amicizia e la collaborazione con Pier Paolo Pasolini grazie a questo testo pubblicato da Silvia Martín Gutiérrez, che quotidianamente con grande passione cura il sito web “Città Pasolini” e la relativa pagina Facebook. Ringraziamo Silvia per averci consentito di condividere questo interessante articolo, nel centenario della nascita del regista.

È il 1957. Una coppia d’eccezione parte in macchina alla ricerca della “Bomba”, la mitica battona romana che diventerà la Saraghina di tanti film. Sono Pasolini e Fellini. Non la trovano. Ma subito dopo quell’insolito viaggio, Pasolini scrisse uno straordinario ritratto del regista riminese, rimasto inedito fino al 1992. E Fellini, che lo legge per la prima volta, risponde all’amico scomparso. L’Espresso fa llegere il testo pasoliniano a Fellini e così, ne nasce un dialogo a distanza.

1. Pier Paolo Pasolini: Ricorderò sempre la mattinata in cui ho conosciuto Fellini.

Ricorderò sempre la mattinata in cui ho conosciuto Fellini: mattina “favolosa”, secondo la sua “punta” linguistica più frequente. Siamo partiti con la sua macchina, massiccia e molle, ubriaca ed esattissima (come lui), da piazza del Popolo, e di strada in strada siamo arrivati in campagna: era la Flaminia? L’Aurelia? La Cassia? l’unica cosa fisicamente certa era che si trattava di campagna, con strade asfaltate, benzinai, qualche casale, qualche ragazzo un po’ burino in bicicletta, e in una immensa guaina verde, imbevuta di sole ancora freddo, che rivestiva tutto. Fellini guidava con una mano, e dava arraffate qua e là del paesaggio, rischiando continuamente di schiacciare i ragazzetti burini o di finire nel fosso, ma dando l’impressione che ciò, in realtà, era impossibile: guidava la macchina magicamente come tirandola e tenendola sospesa con un filo. Una mano, dunque, appoggiata al volante della macchina, materna come una tardona e concentrata come un alchimista, con l’altra Fellini si girava e rigirava i capelli, usando il solo indice come tornio o fuso. Mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti di Cabiria. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach.

Non capivo ancora Fellini: credevo d’individuare in qualità di limite quella che è poi risultata la sua enorme e totale virtù.

Immaginate un lumacone grande come una città – Cnosso o Palmira – nel cui interno entrare come eroi di Rabelais: e lì dentro ritrovare cose dapprincipio deludenti, come un benzinaro o una puttanella che batte in costume da vignetta: provare un senso di sproporzione tra l’enormità dell’ambiente e la meschinità del concreto-sensibile ivi trasferito: ma poi un po’ alla volta accorgersi che la lumaca-labirinto digerisce e assimila tutto nei suoi visceri, orrendi e radiosi: digerisce anche voi, se non state attenti.

La forma di uomo che Fellini possiede è incessantemente periciolante: tende a risistemarsi e riassestarsi nella forma precedente che la suggerisce. Una enorme macchia, che a seconda della fantasia può assomigliare un polipo, a un’ameba ingrandita dal microscopio, a un rudere azteco, a un gatto annegato. Ma basta un colpo di ponentino, uno sbandamento della macchina, per rimescolare tutto, e ritrasformare il coacervo in un uomo: un uomo tenerissimo, intelligente, furbo e spaventato, con due orecchie create nel più perfetto laboratorio di articoli acustici, e una bocca che sparge introno i più curiosi fonemi che incrocio romagnolo-romanesco abbia mai prodotto: gridi, esclamazioni, interiezioni, diminutivi, tutto l’armamentario della pregrammaticalità pascoliana.

Temevo, al suo referto sulle Notti, la sproporzione tra il concreto-sensibile di tono, ambito e gusto realistico, e l’immaginario di provenienza quasi surreale, sia pure modificato dall’humour: e questo, annotato, dissi a lui, la sera dopo: sempre dentro il budello della sua macchina, ferma e illuminata in un vialone balordo, là dove poteva ormeggiare la gran “battona” da noi ricercata, la Bomba. Lui mi ascoltava accovacciato, acciambellato sul sedile rosso, come una chioccia, come una Madonna del Manto, col guancione, l’occhio bistrato, a cui si stampava la balenante attenzione o l’ansia, come una tinta più opaca, rendendolo a tratti così umano, con la sua retina, la sua pupilla nocciola, da farlo parere quasi buffo, e enormemente affettuoso se per caso fosse un po’ spaventato il mio Auerbach.

Non trovammo mai la Bomba, per quanto battessimo tutti quei viali che girano e rigirano intorno alla Passeggiata Archeologica, coi gruppi di puttane rosse illuminate di striscio dai fanali e i malandrini in cricche o soli, a cavalcioni dei muri, col culetto in alto e il colletto del giubbotto graziosamente rialzato intorno alle teste acconciate come torte nuziali, la scrima dritta e bianca, i riccioletti, la cocca al vento.

La Bomba fu per molte notti la nostra meta: ritrovarla a battere fra tronchi dei viali, o al Colosseo, a fra i portici di via Cavour, aveva assunto un significato quasi simbolico. In realtà non la volevamo trovare; e non la trovammo. La Verità deve rimanere nascosta, interna e ideale.

Trovammo al suo posto molti facsimile: aspetti terreni e quotidiani della Verità. A palate. Io, dunque, credevo che la Verità fosse comune, dentro di noi due: o almeno ci fosse in noi un terreno franco dove ospitarla, o ricostruirla, o analizzarla, insieme.

Federico Fellini immortalato da Angelo Frontoni (1960) © Museo Nazionale del Cinema – Torino/Riproduzione riservata

Nel copione che avevo letto sentivo il pericolo dell’errore che pure permane in quel capolavoro che è La strada: il coesistere di una realtà “reale”, vista con amore e pienezza (il mondo dell’Italia appeninica, con paesaggi e figure, piazzette e campi, soli e nevi, episodi in stile “humilis” ma addirittura “piscatorius”, gente d’ogni giorno, contadini e puttane: il mondo, il mondo tout court insomma) e una realtà “stilizzata” (la realtà di Gelsomina e, in parte, del Matto): il coesistere di pura invenzione e un apriorismo stilistico, di poesia e di poeticità. Il problema era giungere all’amalgama: rialzare un po’ verso Cabiria l’ambiente, e abbassare notevolmente verso l’ambiente Cabiria.

Questa operazione io credevo potesse avvenire in Fellini attraverso le vie razionali della critica e addirittura della…storiografia. In realtà Fellini, con la sua acutissima orecchia, doveva ascoltarmi con la pazienza con cui si ascolta un matto: e naturalmente mi dava ragione, fingendosi tutto compreso del problema estetico così prospettato… Ma Fellini non è un innovatore cosciente del gusto neorealistico in quanto momento culturale e storico: la sua innovazione è stata più violenta ed esplosiva quanto più è inconscia e non impegnata.

Egli si innesta nel rinnovamento neorealistico attraverso un apprendistato tecnico: come tale è tutto immerso nell’atto, bruciante nell’eccesso di luce. Calato nel suo particolare settore, Fellini – già per questa circostanza – non era in grado, e quindi non voleva, osservare l’orizzonte generale di una cultura in sviluppo. I dati dello sviluppo gli cadevano dal cielo, gli si formavano nell’anima. Che esistesse una realtà e un realismo, Fellini lo è venuto a sapere attraverso un processo immediato e non problematico. Rossellini pupo averlo influenzato nel senso che: l’amore per la realtà, è più forte della realtà. L’organo visivo-conoscitivo restando enormemente dilatato dall’iperfunzione del vedere e del conoscere.

Il mondo reale dei film di Rossellini e di Fellini è trasfigurato dall’eccesso di amore per la loro realtà. Sia Rossellini che Fellini pongono nel rappresentare, nell’inquadrare, una tale intensità di affetto per il mondo messo a fuoco dall’occhio mille volte occhio della macchina, bruto, e ossessivo, da creare spesse volte magicamente un senso tridimensionale dello spazio (ricordate la sequenza in cui i vitelloni rincasano di notte dando calci a un barattolo): viene fotografata anche l’aria. (…)

Fellini ha in questo momento una funzione miracolosa: quella di salvare il neorealismo proprio nei suoi vizi: di renderlo valido nelle sue forme marcescenti; di renderlo incantevole nelle sue fissazioni stilistiche.

Rinnovare coscientemente il neorealismo, individuandone reviviscenze, residui, errori, parrebbe in questo momento impossibile, proprio per la mancanza di una parallela e piena coscienza culturale: e, nella fattispecie, per il rilassamento politico dovuto a nuova nuova retorica nazionale, per la delusione successa all’entusiasmo nel campo d’opposizione marxista.

Fellini, dicevamo, non è un’innovatore conscio d’istituti stilistici: la sua coscienza stilistica è immensa, addirittura eccedente, mostruosa, ma è completamente calata, sprofondata nel mondo interiore e nella tecnica.

Del neorealismo ha preso tutto insieme virtù e vizi, freschezza e vecchiezza, incanto e ciarpame: e ha fatto tutto esplodere per un suo amore non solo prerealistico ma preistorico per la realtà.

Ma cos’è per Fellini questa realtà? È, direi, una composizione dal “tono” affascinante e patetico di mille particolari della realtà: dagli aspetti della natura, alle concrezioni ormai morte di una civiltà, ai prodotti sociali, ma, questi, in una loro forma estrema, immediata per un massimo di attualità, vicinanza e evidenza: modi e aspetti della sovrastruttura e del costume, meglio che della struttura e della forma.

È in effetti tale realtà sociale (vedi i vitelloni, vedi i bidonisti) amata da un amore sensuale e irrelato, è continuamente contraddetta nella sua razionalità, nella sua norma, dal prevalere dei personaggi straordinari, marginali, stravaganti. Piccoli essere inutili e dimenticati che accendono violente correnti d’irrazionalità nel mondo più violentemente vero e attendibile che li circonda. La realtà di Fellini è un mondo misterioso – o orrendamente nemico, o perdutamente dolce -e l’uomo di Fellini è una creatura altrettanto misteriosa che vive in balia di quell’orrore e di quella dolcezza. (…)

Uno stilista chiamerebbe il realismo di Fellini “realismo creaturale”: tipico realismo dei momenti di transizione vitali: in cui manca un’unica e assoluta ideologia su cui prospettare e integrare il mondo della creazione artistica, e manca quindi ogni certezza di comunicabilità e di conoscibilità.

Nei nostri giorni il mondo oggettivo, storico e sociale è diviso: le sue teologie morali hanno due direzioni: c’è una cortina non solo geografica che lo taglia – immensa fenditura serpeggiante di idea in idea. Di opera in opera, di stilema in stilema. Non potendosi dividere in due, e non potendo essere tutto o da un parte o dall’altra, all’uomo moderno non sembra dunque che restare, nell’interregno, altra possibilità di realismo che questo della creatura sola e sperduta a disperare e gioire in un mondo misterioso. Che è poi un momento prereligioso, o religioso nel profondo.

Fellini rappresenta questo momento della nostra storia: e, lo ripeto, con tanta maggior violenza, evidenza e fascino quanto più egli e mosso in questo piuttosto dall’istinto che dalla coscienza (enorme, o abnorme, peraltro, nel campo tecnico, nella magia del “tono”).

Con questa secrezione calcinata, cancerosa e preziosa come perla, con questo diamantifero bubbone, ho lavorato per alcune settimane, sempre sull’equivoco che dicevo: poi, piano piano ho capito. Fellini è una savana piana di sabbie mobili, per penetrate nella quale necessita o la guida nera della malafede o l’esploratore bianco della razionalità; ma poi né l’uno né l’altro basterebbero, e il territorio resterebbe inesplorato se Fellini stesso non mandasse, distrattamente, e come per caso, a guidarti un uccellino magico, un grillo sapiente, una pascoliana farfalla … Cosi infine ho potuto riassestare il rapporto. Ma forse non era necessario: Fellini prende comunque dai suoi collaboratori quello che deve prendere: che lo capiscano o non lo capiscano. Tu parli, scrivi, ti entusiasmi: lui si diverte, e silenziosamente pesca nel fondo.
(Pier Paolo Pasolini Federico (1957) pubblicato per la prima volta sull’Espresso, 19 gennaio 1992)

2. Federico Fellini: Pier Paolo suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.

Dapprima Federico Fellini ha detto di no. Aveva appena letto il bellissimo testo di Pasolini e non riusciva a capire come all’epoca potesse non averne avuto notizia. Sembrava incuriosito da questo ma anche molto amareggiato. Poi una telefonata il giorno di Natale con la risposta definitiva: “Va bene, accetto”. Ecco dunque il testo della conversazione che abbiamo avuto, una sorta di dialogo metaforico, ma forse per questo ancora più suggestivo, con Pier Paolo Pasolini.

In che occasione ha conosciuto Pasolini?

Gli telefonai dopo aver letto Ragazzi di vita per manifestare il mio entusiasmo; lui fu molto simpatico, parlò in termini lusinghieri dei Vitelloni, di La strada. Solo più tardi, quando fu pronto il copione di Le notti di Cabiria pensai di farglielo legger per chiedergli una consulenza linguistica su certi modi di dire gergali. L’appuntamento era al bar Canova a piazza del Popolo. Lo vidi arrivare e mi sembrò subito molto simpatico con quella sua faccetta impolverata, da muratorello, una faccetta da proletario, da peso gallo, da pugile di borgata. Accettò la proposta di collaborazione con entusiasmo, una qualità che me lo rese subito familiare. Era un uomo generoso, immediato. E partimmo per quelle passeggiate che lui descrive così bene.

Pasolini descrive la “forma Fellini” in vari modi: un polipo, un’ameba ingrandita, un rudere azteco, un uomo tenerissimo, intelligentissimo, furbissimo e spaventato, un gattone siamese, una lumaca-labirinto che tutto assimila. In quale di questi essere si riconosce?

In tutti quanti – beh, un po’ meno nel lumacone – ma da un punto di vista letterario, detti da un poeta come era Pier Paolo Pasolini li accetto. Certo, siamo un po’ tutti lumaconi, anche lui aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta. La sua qualità che ho sempre apprezzato era la sua disponibilità ad essere un’artista che assorbe, assimila, trasforma ma, nello stesso tempo, una parte del suo cervello sembrava un laboratorio preciso, attentissimo dove quello che l’artista aveva creato veniva vagliato, giudicato, in generale con un consenso: essere insieme creatore e critico acutissimo, implacabile di quel che aveva inventato. Una qualità, questa inesauribile presenza critica, che a me per esempio manca completamente.

Racconti ancora qualcosa di quelle nostre passeggiate notturne alla ricerca di ambienti e di suggestioni per “Cabiria”.

Giravo con lui per certi quartieri immersi in un silenzio inquietante, certe borgate infernali dai nomi suggestivi, da Cina medievale, Infernetto, Tiburtino III, Cessati Spiriti. Mi conduceva come se fosse Virgilio e Caronte insieme, di entrambi aveva l’aspetto; ma anche di uno sceriffo, di un piccolo sceriffo che andava a controllare ambienti molto familiari. Si divertiva ai miei allarmi, era lì col sorriso di chi ha visto di più, di peggio, anzi si augura che il peggio possa accadere, da un momento all’altro, soprattutto per compiacere l’amico ospite e turista. Tanto c’era lì a spiegare e a difenderli, sceriffo conosciuto. Ogni tanto sbucavano da certe finestre, da certe porte, da angoli bui imprevedibili presenze, ragazzetti che lui si compiaceva di presentare come se fossimo in Amazzonia, tra esseri fantastici, selvaggi, antichi.

Le ha mai dato l’impressione di una persona che avesse paura di qualcosa?

Mi sembrava, per quel poco che lo conoscevo una persona che si inebriava anche del pericolo inteso nel suo aspetto diavolesco, sconosciuto, esaltante.

Ha raccontato la prima impressione che ebbe di lui. E l’ultima?

Negli ultimi tempi portava gli occhiali neri, si vestiva come un personaggio da film di fantascienza di adesso, tipo terminator, con i giubbotti di cuoio. E poi era diventato più silenzioso, tendeva all’immobilità. Ricordo una volta alla Safa Palatino rimase seduto, immobile e silenzioso, per ore, su una seggioina scomoda. Ci eravamo salutati con molta effusività, abbracciandoci, perché la nostra amicizia ricordava un po’ alla scuola, aveva bisogno anche del contatto fisico. Vedevo con piacere che la nostra amicizia continuava anche se qualche piccolo episodio avrebbe potuto allontanarci.

Di che se tratta? Che cosa era successo?

Accade quando, del tutto sconsideratamente, avevo convinto il vecchio Angelino Rizzoli a mettere insieme una casa di produzione che si chiamava “Federiz”, dove la “z” stava per Rizzoli e “Federi” per Federico. Aveva l’ambizione, la Federiz, di auitare i giovani registi a debuttare. In realtà tutto quello che riuscii a fare per quella società fu di trovare un ufficio e di arredarlo. Mi divertii per mesi a trasformarlo in un vecchio convento o nell’osteria dei Tre Moschettieri. Lì vicino a via della croce, poi c’era il ristorante Cesaretto e verso l’una era facile farsi portar su qualche piatto; era diventato più che altro una mensa. Ma i primi mesi l’entusiasmo era grande e anch’io ero convinto che avrei prodotto tanti bei film, che poi fecero altri: Il cochesito di Ferreri, Il posto di Olmi e Accattone di Pasolini. Pier Paolo era fiducioso di poter debuttare come regista. Il copione era bellissimo e lui chiese di poter fare dei provini. Si dovettero vincere le resistenze di Rizzoli e dell’altro socio, Clemente Frascassi, bravissimo ma con tendenza al pessimismo e al catastrofismo nel fare i conti. Quanto al me giocavo a fare il produttore ed ero irresponsabile più che ottimista. Pier Paolo girò i provini e io, suggestionato dai pareri negativi di Rizzoli e de Frascassi, oltre che da una troppo personalistica visione delle cose, giudicai e sbagliai.

Come andò a finire?

Fu costretto a dire Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare del cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi di fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche con un po’ di umorismo, cosa che no apparteneva alle sue corse. In quell’articolo da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul film.

E la “Bomba” che avete cercato insieme inutilmente, esisteva davvero o era solo uno dei suoi fantasmi?

Era una vecchia battona di cui avevo sentito favoleggiare da Ercole Patti i primi tempi che ero arrivato a Roma. In realtà la chiamavano “Bomba Atomica” e se ne parlava in un mitico caffè notturno che stava vicino al “Messaggero”. Al giornale andavo di notte assieme a un leggendario redattore sportivo che collaborava anche al “Marc’Aurelio”. Mi piaceva quela vita da giornalista come l’avevo immaginata stando a Rimini, come nei film americani quando Fed McMurray arriva in redazione, butta il cappello da lontano e centra t’attaccapanni. Dunque, una notte uscendo all’una dal “Messaggero” e risalendo verso piazza Barberini, ho visto la “Bomba”. Era una specie di mongolfiera, tutta vestita di bianco, scendeva camminando al centro della strada, né su un marciapiede, né sull’altro, proprio nel mezzo. È quell’apparizione che da dato vita alle varie Saraghine dei miei film. Parlando, anni dopo, con Pier Paolo mi ero messo in testa di ritrovarla, lui si era associato volentieri alla ricerca e cercava anzi di incuriosirmi ancora di più sulla vita notturna delle borgate.

Dopo tanti anni cosa resta a lei, di Pasolini?

Il rimpianto di non averlo visto più spesso, di no aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo, in qualche mondo che gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.
(
Pier Paolo, colloquio con Federico Fellini di Rita Cirio. L‘Espresso 19 gennaio 1992)

 

Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini durante le riprese del provino di Accattone (1960) © Archivio Cicconi/Riproduzione riservata

*Fotografia in copertina: Franco Citti in una scena di Accattone (1961)