L’ultimo Pasolini, tra polemica e rimpianto, di Carlo Bortolozzo

Su il sussidiario.net del 28 marzo 2018 è uscita la seconda e ultima parte del saggio di Carlo Bortolozzo dedicato all’opera di Pasolini, di cui il 22 marzo abbiamo già pubblicato la prima parte.
In questo secondo contributo l’autore si sofferma sul secondo tempo dell’impegno di Pasolini, sottolineando in particolare come in esso non vengano meno i richiami alla formazione giovanile in Friuli, a contatto con la sua lingua e con la realtà contadina. Si alimentano allora le ragioni del rimpianto per il ritorno impossibile ad un mitizzato mondo antico. Una posizione che comportò anche il contrasto con Ferdinando Camon e della quale Bortolozzo non manca di evidenziare anche i limiti.
Ringraziamo l’autore per la segnalazione del suo lavoro e per il consenso alla sua riproduzione.

Storia, nostalgia e decadenza, l’errore di Pasolini
di Carlo Bortolozzo

www.ilsussidiario.net – 28 marzo 2018

L’ultima svolta di Pasolini sarà quella del commentatore politico-culturale, lucidissimo e provocatorio, segnata da una serie di articoli pubblicati soprattutto sul «Corriere della Sera» dal ’73 alla morte. Come si è già detto, negli ultimi anni di vita il poeta sentirà il bisogno di riconsiderare la materia prima della sua ispirazione, il Friuli arcaico della giovinezza. Raddoppierà infatti, lungo la polemica che aveva acceso contro il naufragio antropologico dell’Italia contadina, nella lingua della “piccola patria” acquisita, nella lingua “materna”, i versi antichi di La meglio gioventù. Investito da un’amarezza secca e impietosa, avrebbe scritto i versi di La nuova gioventù, chiosa ancora il biografo Siciliano. Appare dunque evidente, come nota Guido Crainz nella prefazione alle Lettere luterane, che l’ultimo Pasolini va letto insieme alla seconda stesura de La meglio gioventù, quella in cui l’aga frescia del me país diventa l’aga vecja di un país no me. La fontana non versa più amore per nessuno. Il ritorno è impossibile: «i no plans parsè che chel mond a no ‘l torna pí,/ ma i plans parsé che il so tornà al è finìt» (“non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito”). Il ritorno è impossibile. Per tornare, non bisogna muoversi. Chi si muove, si muove per una strada dritta e senza fine.

Pasolini, Circolo Turati di Milano, 11 novembre 1972. Foto di Letizia Battaglia
Pasolini, Circolo Turati di Milano, 11 novembre 1972. Foto di Letizia Battaglia

Il recupero dialettico del Friuli, dopo la lunga eclissi, era stato anticipato e forse favorito dalla lettura dei romanzi dello scrittore padovano Ferdinando Camon, di cui scrisse la prefazione a Il quinto stato. Nel Veneto contadino descritto da Camon egli rivide, con lancinante consonanza, alcuni tratti del suo antico Friuli: una civiltà millenaria travolta in pochi decenni dalle nuove parole d’ordine del consumismo. Così sarebbero sparite, o almeno avrebbero mutato radicalmente volto, le borgate romane, cioè tutti i luoghi che avevano alimentato il suo vissuto e la sua immaginazione poetica. Il dolore provato è immedicabile, come di fronte a una persona amata perduta per sempre. Per questo, scrive, quello che viviamo non è un «cambiamento di epoca, ma una tragedia». Da qui, nasce uno «scandaloso rimpianto»; quello per l’Italia fascista o dei primi anni dopo la guerra. Non rimpianto politico, dato che Pasolini avversò sempre sia il fascismo sia la Dc, ma per quell’Italia agricola e paleoindustriale, mantenutasi miracolosamente fedele a una forma di vita che sembrava immutabile. Era il paese prima della scomparsa delle lucciole, per citare la famosa metafora sviluppata in un articolo per il «Corriere» del febbraio ’75: usando parole che verranno riprese, quasi letteralmente, da Papa Francesco, sostiene che non ci troviamo di fronte a «tempi nuovi», ma a «una nuova epoca della storia umana». L’originalità dell’analisi pasoliniana sta nello sguardo, vissuto, esistenziale, non puramente intellettuale, che egli riserva a questo cambiamento. Per «capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla», afferma. E i cambiamenti non sono stati intercettati né dagli intellettuali, né tantomeno dalla classe politica democristiana, la quale ha continuato come se nulla fosse, tanto da credere nella vittoria del “Sì” al referendum sul divorzio dell’anno precedente. Non avevano capito che il nuovo potere non sapeva più che farsene del Vaticano; che le famiglie italiane avrebbero accettato il divorzio e, dopo qualche anno, anche l’aborto, con percentuali ancora più schiaccianti. Non avevano letto le facce di chi avevano intorno; la grande omologazione ha reso del tutto superate le vecchie interpretazioni, uniformando tutti gli italiani, a cominciare dai giovani. Essi compiono degli atti che non sono naturali, ma culturali, cioè indotti dal Potere: «l’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato». Come appaiono sciocche le polemiche su fascismo e antifascismo! Quel fascismo è un pietoso rudere, l’omologazione ha livellato tutto. «In una piazza piena di giovani, nessuno potrà distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968».
Sarebbe facile constatare che le profezie di Pasolini si sono tutte avverate, che la forza e l’originalità di queste riflessioni non avevano uguali nell’Italia di quegli anni, tranne, probabilmente, per quanto attiene alla secolarizzazione, a quelle pronunciate da Augusto Del Noce. Camon, peraltro, non le condivise: nessun contadino veneto avrebbe sottoscritto l’affermazione di Pasolini, «darei l’intera Montedison per una lucciola». Non avrebbe mai voluto tornare indietro, «perché allora si stava male, malissimo, da crepare» (si veda l’intervista a G. Imperatori in Profondo Nord). Pasolini, che non aveva vissuto direttamente quella condizione, la interpretava secondo categorie estetiche, di matrice decadente: in effetti, c’era in lui, segnato da ragazzo dall’influenza di Rimbaud, qualche tratto che lo avvicinava ai decadenti moderni, D’Annunzio o Mishima.
Se quindi, da una parte, ancora oggi restiamo colpiti dalla forza visionaria delle sue analisi, non possiamo fare a meno di coglierne i limiti: aveva una visione apocalittica della realtà, che lo rese incapace di scorgere i lati positivi di un progresso economico il quale, pur tra squilibri e disuguaglianze, aveva condotto nel giro di pochi anni un Paese uscito sconfitto e stremato dalla guerra a diventare una delle maggiori potenze industriali dell’Occidente, migliorando decisamente il tenore di vita degli italiani; una visione che lo indusse a sottovalutare il contributo culturale e linguistico offerto dalla televisione degli anni Cinquanta e Sessanta, dalla scuola, dall’industria culturale nel suo complesso. Tutto questo aveva permesso di estirpare la piaga dell’analfabetismo, aveva svecchiato una tradizione culturale arretrata. Era condizionato da una visione in fondo romantica e, ancor di più, da un drammatico groviglio psicologico ed esistenziale, piegato verso una vitalità disperata, che lo portava a cercare frammenti di felicità esponendosi a rischi quotidiani. Come quello che lo condusse a quell’ultima sera, all’idroscalo di Ostia, all’appuntamento con la morte. Gli amici di Pasolini ancora adesso stentano a credere che la morte sia dovuta a un litigio di natura omosessuale, invocano complotti politici. Negano anche che Pasolini cercasse la morte, come in un suicidio per delega. Non si può negare, tuttavia, come ricorda il cugino Nico Naldini nel fondamentale Pasolini, una vita che esistevano in lui pulsioni di morte, narcisistiche, sadomasochiste. Ma di tutto Pasolini resterà soprattutto l’uomo che aveva gridato l’urgenza di legare l’arte al senso della vita, come aveva scritto nei suoi anni giovanili: «Può educare solo chi sa cosa significa amare, chi tiene sempre presente la Divinità».  Così scriverà nei versi famosi delle Ceneri di Gramsci: 

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato amore.

(2- fine)