Pasolini giornalista. Un’analisi di Domenico Marino

Domenico Marino, cronista calabrese studioso del giornalismo italiano, sta dedicando una sua indagine all’impegno di Pasolini per la carta stampata, dagli esordi bolognesi e friulani della gioventù agli interventi sui periodici degli anni Sessanta e Settanta, fino ai radicali affondi polemici del periodo corsaro e luterano. Con consenso dell’autore, che ringraziamo, ne pubblichiamo qui una prima bozza, destinata ad essere ampliata e ulteriormente argomentata in un saggio vero e proprio. Il testo è corredato anche da due interviste inedite a Piero Ottone, scomparso il 16 aprile 2017, e a Giulia Maria Crespi, rispettivamente direttore e proprietaria del «Corriere della Sera» negli anni tra il 1973 e il 1975 in cui Pasolini fece uscire i suoi corrosivi interventi poi confluiti in Scritti corsari e nel postumo Lettere luterane.

Pasolini giornalista
di Domenico Marino

Pier Paolo Pasolini è stato anche un giornalista. Non era impegnato quotidianamente in redazione con compiti da cronista o lavoro di “cucina”, come d’altronde non sarà mai, ma sin dai primi passi intellettuali ebbe rapporti intensi, redditizi e apprezzati con i giornali inizialmente, anche con radio e televisione nei decenni successivi.
Solitamente si fa coincidere l’avvio della sua vicenda letteraria con l’uscita del volumetto di versi in dialetto friulano Poesie a Casarsa, il 14 luglio 1942, ma già nel giugno dell’anno precedente, insieme a Luciano Serra, Francesco Leonetti e Roberto Roversi, aveva tentato l’esperienza di «Eredi», una rivistina di poesia. È il primo d’una lunga serie di impegni pubblicistici che lo accompagneranno per tutta la vita e che  saranno interrotti solo da Pino Pelosi, detto “la Rana”, all’Idroscalo di Ostia la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975. L’ultima lettera luterana (a Italo Calvino) pubblicata su «Il Mondo», è datata 30 ottobre ’75. Un giorno prima della  morte.
La vita giornalistica di Pasolini può essere organizzata in tre grandi periodi (il critico, l’eretico, il corsaro e luterano) che cristallizzano collaborazioni, linguaggi, obiettivi differenti: dalle esperienze bolognesi di «Eredi», «Architrave» e «Il Setaccio», alla rubrica di critica letteraria sul settimanale «Tempo Illustrato», dalle recensioni di poesie per  «Il Punto»  alla corrispondenza con i lettori su «Vie Nuove», dalla Tribuna aperta sul «Corriere della Sera» di Piero Ottone agli interventi sugli altri maggiori fogli di informazione nazionale nel biennio ’73-’75. Passa da critiche, recensioni poetiche, letterarie e cinematografiche, al colloquio con gli utenti, allo scontro con la classe dirigente e la società dei primi anni Settanta. Ma una scansione lineare e cronologicamente consequenziale delle tre stagioni non è possibile, né consigliabile.
Pasolini comincia con l’essere critico, probabilmente la stagione più ricca. Il progetto di «Eredi» prima, «Architrave» e «Il Setaccio» poi, insieme a «Poesia», «Fiera Letteraria» e alcune riviste locali friulane, danno sfogo al poeta, al saggista e appunto al critico. Ma in questi primi tempi pubblica anche quattro articoli sulla scuola sul «Mattino del Popolo» e commenta episodi nazionali e internazionali su sconosciuti giornali murali di Casarsa.

Pasolini giovane studente universitario
Pasolini giovane studente universitario a Bologna

Dai timidi esordi del periodo bolognese (1) alle recensioni poetiche, in parte raccolte in Passione e ideologia, agli interventi di critica letteraria per «Tempo» (’72-’75), Pasolini è una fonte inesauribile di pubblicazioni giornalistiche. Legge poeti e scrittori con la voracità intellettuale e la passione culturale che saranno sue  caratteristiche costanti. Elemento cruciale per l’analisi del Pasolini critico è Passione e ideologia:

Le formulazioni contenute in Passione e ideologia, dal Carducci-Pascoli al secondo dopoguerra, non solo enucleano i princìpi di Pasolini critico (o meglio la sua analisi critica dei testi) ma fanno da supporto alla collocazione della sua poetica nell’arco del Novecento letterario (2) .

Ma altre tessere, alcune già comprese in Passione e ideologia, sono fondamentali per comporre il puzzle del Pasolini critico. Gli esordi bolognesi, le collaborazioni a «Paragone-letteratura» (1952), a «Orazio» e «Il Belli» (1952), alla rubrica «L’Approdo letterario» della Rai (1952), a «Il Giovedì» (1953), gli interventi critici per il settimanale «Il Punto» (1957), sino alla rubrica di critica letteraria curata per «Tempo Illustrato» dal novembre ’72 al gennaio ’75. Collaborazione, quest’ultima, da non confondere con la precedente del biennio ’68-’70, apparsa sempre su «Tempo Illustrato» nella rubrica  Il caos e successivamente raccolta in volume con lo stesso titolo (3).
La seconda fase del giornalista ci restituisce un Pasolini indicato come eretico per il titolo, Empirismo eretico (4), della raccolta di saggi che dà alle stampe nel ’72. Articolata in tre sezioni (lingua, letteratura, cinema) analizzate con un gioco tra passato e presente-futuro, antico e moderno, cristallizza i mutamenti di lingua, letteratura e cinema che si trasformano incalzati dalla modernità, dalla civiltà industriale, da un mondo in continua evoluzione. Come cambiano i costumi e i modi di vita, cambiano lingua, letteratura e cinema. Analizza le mutazioni affidandosi all’ironia e assumendo spesso posizioni critiche: contro il nuovo linguaggio tecnologico, le avanguardie, e per il cinema di poesia. Ma il Pasolini eretico non è solo Empirismo eretico. I dialoghi con i lettori di «Vie Nuove» e gli articoli de Il caos rappresentano altri elementi importanti di questa stagione; un’ultima fase saggistica molto vicina a quella politica e anticamera delle stagioni corsara e luterana del biennio ’73-’75. Pasolini attacca e discute di attualità, polemizza, interroga. Il bisogno e la voglia di scagliarsi contro il mondo sono mitigati e nascosti da argomenti culturali, tribune non ancora adeguate. Prova le armi, si prepara, cerca la misura. Lavora affinché possa liberarsi dalla rigidità d’una rubrica di corrispondenza con i lettori su una rivista comunista e dal pezzo più o meno ingessato scritto settimanalmente per un giornale di media diffusione:

sentirmi come una bestia braccata, che ha perso ogni dignità, e si irrigidisce nello scrivere un pezzo settimanale obbligatorio per un giornale (5).

Non a caso quando andrà oltre diventerà scomodo e la rubrica sarà bloccata. Nei Dialoghi per «Vie Nuove»Pasolini colloquia con lettori prevalentemente giovani e comunisti. Il polemista non è libero, deve solo rispondere e non può nemmeno farlo liberamente, come vorrebbe.
Un passo avanti importante lo muove con Il caos, perché è già un personaggio noto e di grande risonanza. Inoltre diminuiscono i dialoghi e aumentano gli interventi sull’attualità, su questioni contemporanee: le contestazioni studentesche, le repressioni, le lotte operaie, l’avvento e il potere del consumismo. Il corsaro e luterano c’è e comincia a intravvedersi:

Un Pasolini solitario, disperato, ansioso nella ricerca di superamento di certi schemi ideologici e politici, ossessivo, indipendente, diverso, quasi una voce isolata nell’immenso mare del sistema borghese-consumistico che inghiotte tutto (6).

Ma freni e inibizioni continuano a condizionarlo. Pasolini sarà davvero libero di scrivere ciò che vuole solo nel biennio ’73-’75, quando i  maggiori fogli d’informazione nazionale lo cercano, corteggiano, accolgono con orgoglio: Il «Corriere della Sera», «La Stampa», «Il Mondo», «Paese Sera», «Epoca», «l’Unità», «Tempo»  e altri ancora. È ormai una firma di primo piano e quindi può dibattere i temi che gli stanno a cuore e che fino ad allora aveva potuto affrontare solo in parte: la rivoluzione antropologica operata dal consumismo e dal neocapitalismo borghese, l’omologazione culturale, il terrorismo, la scomparsa del sottoproletariato, la strategia della tensione, l’inadeguatezza della classe dirigente, la crisi strutturale dell’Italia. Requisitorie giornalistiche con le quali sferza la società contemporanea, analizza con lucidità e vigore lo sfascio della realtà nazionale. Condanna il silenzio, la cecità connivente, se non l’incapacità di vedere, di intellettuali ed élite culturali. Il tono è il solito: crudo, duro, senza fronzoli.

Ora, quando si saprà, o, meglio, si dirà, tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi la loro omertà (7).

Si scaglia contro il Potere aprendo un processo pubblico alla classe politica. Arriva a chiedere un vero procedimento penale nei confronti della Democrazia Cristiana, indicata come il maggiore responsabile dell’oblio in cui è precipitato il paese, preda di affaristi e corrotti.

Allora il “corsaro” e il “luterano” (dopo l'”eretico”) testimoniano questo ruolo: il ruolo che lo ha visto scontrarsi col Potere, quel Potere che lo aveva fino ad allora perseguitato nelle piazze e giudicato nei tribunali e contro il quale lo scrittore intenta un pubblico processo (8).

Lettere luterane raccoglie diversi pezzi dedicati al processo contro il Palazzo. Apre Bisognerebbe processare i gerarchi dc pubblicato su «Il Mondo» il 28 agosto 1975. Viene inserito come secondo Il Processo apparso sul «Corriere della Sera» il 24 agosto 1975 con una successiva nota di Pasolini che scrive al direttore poiché nell’articolo  aveva sbagliato i nomi di Giuseppe Branca (indicato come Vittorio) e Livio Zanetti denominato Italo. Quindi c’è una nota, pubblicata sempre sul «Corriere» il 9 settembre, in cui risponde a Leo Valiani e Luigi Firpo. Ancora La sua intervista conferma che ci vuole il processo apparso su «Il Mondo» l’11 settembre 1975, Processo anche a Donat Cattin il 19 settembre sul «Corriere della Sera» e infine Perché il Processo il 28 settembre 1975 sempre sul «Corriere della Sera».
Pasolini accusa gli imputati di «una quantità sterminata di reati (…) indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la  mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illegale di enti come il Sid (9), responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punire gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol  dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità nell’abbattimento”selvaggio” delle campagne, responsabilità nell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori» (10).
Uno dei temi più cari a Pasolini restano i giovani, che però condanna mutando il giudizio positivo e ottimistico del passato. Agli albori degli anni ’60 li aveva indicati come le uniche forze capaci di resistere al conformismo imperante, persone di cui fidarsi.

Io so che i migliori italiani sono i giovani, dai sedici ai vent’anni: di gran lunga i migliori. Essi sono ancora alle soglie della vita sociale, e di essa vedono solo i più puri ideali: non ne sono ancora contaminati, corrotti, avviliti, livellati, spaventati. (badi che parlo della società italiana, non della società in generale). Essi sono ancora liberi, disponibili, possono “credere”. Il vizio fondamentale della società piccolo-borghese cattolica, ossia la viltà, non li ha ancora contagiati (11).

Lo scrive in un dialogo con i lettori pubblicato il 16 luglio 1960 su «Vie Nuove». Ma con il passare del tempo, la fiducia e l’ottimismo lasciano il posto a una cruda delusione. Gli studenti perdono le speranze di cambiare le cose, lasciandosi cooptare dal consumismo. Riconosce le responsabilità della sua generazione nella crisi dei giovani, i quali stanno pagando colpe dei padri che prima hanno fatto nascere e accettato il fascismo, poi hanno messo in piedi un regime clerico-fascista (quello democristiano) e infine hanno accettato il dominio del consumismo. Nei primi giorni del 1975, ne I giovani infelici, è deluso e amareggiato:

I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà. Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto (12).

Pochi mesi dopo, a maggio dello stesso anno, il tono non cambia:

La nuova generazione è infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le precedenti generazioni che si ricordino (13).

Testo simbolo, costantemente richiamato, del rapporto tra Pasolini e le nuove generazioni è la poesia Il Pci ai giovani!!  pubblicata su «Nuovi argomenti» e poi apparsa pure sull’«Espresso» con un titolo più forte e non a caso decisamente più  noto e citato: Vi odio, cari studenti. Lo scrisse a commento degli scontri tra gli studenti di Architettura e la polizia a Valle Giulia il primo marzo 1968.
Il Pasolini corsaro e luterano appare come la coscienza degli italiani. Sulle prime pagine dei giornali dà inchiostro a sentimenti, delusioni e rabbia che molti provano, soffrendone e amareggiandosene, nella propria anonima quotidianità. L’intellettuale impegnato si ribella, pretende spiegazioni. È la voce del paese che vuole conoscere i segreti del Palazzo, chiede giustizia per i responsabili dello sfascio, non accetta il gioco impari tra popolo e potere. Gli articoli pubblicati dal gennaio ’73 al febbraio ’75 li ha raccolti egli stesso in Scritti corsari. I successivi, dai primi mesi del ’75 agli ultimi giorni di ottobre, sono inseriti in Lettere luterane, pubblicato postumo nel ’76. Due libri cruciali per lo studio del giornalista e del polemista. Come già successo per la fase eretica, anche le fasi corsara e luterana prendono nome dai volumi che raccolgono gli articoli del periodo.
Tre stagioni (critico, eretico, corsaro e luterano) per altrettanti tipi di giornalismo. Al di là delle differenze di linguaggio legate pure agli argomenti trattati e ai media che lo ospitano, Pasolini cambia il tono, la forza, l’incisività degli interventi, trasformandosi da recensore a opinionista, e meritando più che nel passato quel tesserino da giornalista che tra l’altro è una delle poche prove non avvolte da mistero ritrovate all’alba del 2 novembre del 1975 nell’Alfa Romeo Gt guidata da Pino Pelosi sulla strada tra Ostia e Roma.

Note
1. A parte il progetto di «Eredi», di cui resta solo il titolo, è collaboratore di  «Architrave» e del «Setaccio».
2.L. Martellini, Pier Paolo Pasolini. Introduzione e guida allo studio dell’opera pasoliniana. Storia e antologia della critica, Le Monnier, Firenze, 1984, p. 113.
3.P.P. Pasolini, Il caos, a cura di G. Ferretti, Editori Riuniti, Roma, 1975.
4. Edito da Garzanti.
5.Pasolini, Il caos, cit., pp. 93- 94.
6.L. Martellini, cit., p. 127.
7.P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 108.
8.Martellini, Introduzione a Pasolini, Laterza, Bari, 1993, p. 140.
9. Il 2 novembre 2017 «L’Espresso» pubblica un ampio servizio intitolato Pier Paolo Pasolini era spiato dall’ufficio stragi del Sid: riaprite le indagini sull’omicidio.
10. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 113.
11. P.P. Pasolini, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-196, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma, sec. ed. 1996, p. 56.
12. Pasolini, I giovani infelici, in Id., Lettere luterane, cit., pp. 7-8.
13. Pasolini, Gennariello, in Id.,  Lettere luterane, cit., p. 59.

Piero Ottone alla direzione del "Corriere della Sera"
Piero Ottone alla direzione del “Corriere della Sera”

Intervista a Piero Ottone

Piero Ottone fu direttore del «Corriere della Sera» dal marzo 1972, dopo la lunga gestione di Spadolini. Grazie al rapporto personale di Giulia Maria Crespi (1) e alla mediazione di Antonio Cederna e Nico Naldini, Pasolini accetta la collaborazione al quotidiano milanese che lo ospita nella rubrica Tribuna aperta, sempre in prima pagina dopo l’articolo iniziale (2) pubblicato invece nelle pagine interne.

La collaborazione al suo «Corriere della Sera» è un elemento fondamentale della vita giornalistica di Pier Paolo Pasolini.
Fu gestita dall’allora vice direttore Gaspare Barbiellini Amidei. Io ero uno spettatore, lo seguivo più o meno come un normale lettore anche se ovviamente ero ben felice che scrivesse per il nostro giornale.

L’ha mai incontrato?
No, parlammo una volta telefonicamente poiché scrisse una cosa che non mi sembrava opportuno pubblicare. Non per ragioni politiche, sia ben chiaro, perché avevo la massima tolleranza e davo altrettanta libertà. Era una questione legale. Ritenevo non fosse opportuno inserire una certa frase per non incorrere in problemi giudiziari. Non ricordo esattamente di cosa si trattasse. Lo contattai, esternandogli le mie perplessità, ed egli capì subito. Non fece nessuna obiezione. Qui si chiuse la mia parte attiva nella collaborazione.

Il contatto tra Barbiellini Amidei e Pasolini fu Nico Naldini.
Non glielo so dire. Gaspare era un simpatico vice direttore, molto collaborativo, ma gestiva in prima persona tutta la parte dei collaboratori della terza pagina, i rapporti con gli intellettuali e gli scienziati che scrivevano sul «Corriere». Nei casi dubbi mi chiedeva pareri e l’eventuale consenso, ma non mi faceva lunghi racconti su quello che gli capitava. Era anche un po’ geloso della sua autonomia.
All’epoca avevo tre vice direttori: Franco Di Bella, Michele Tito e appunto Gaspare Barbiellini Amidei. Franco Di Bella era il responsabile della redazione del giornale, una sorta di capo redattore ma con la qualifica di vice direttore. Era colui il quale concretamente faceva il giornale, disegnava la prima pagina e me la mostrava per ottenere il consenso. Rimaneva in tipografia la sera fino a quando il giornale non era impostato. Faceva un po’ ciò che prima di lui aveva fatto Michele Mottola, storico capo redattore del  «Corriere». Michele Tito era il responsabile degli Esteri. Teneva i contatti con i corrispondenti e gli inviati in giro per il mondo, proponeva e impostava tutta la parte Esteri del giornale. Gaspare Barbiellini Amidei era il responsabile della Terza pagina, del settore Cultura in genere. Aveva i rapporti con scrittori, registi, scienziati e gestiva tutta la parte non politica e giornalistica in senso stretto, ma culturale.

Ha mai subito pressioni o avuto problemi per la collaborazione di Pasolini?
No, al contrario. Ricordo ancora bene quando decidemmo, la prima volta, di pubblicarlo in prima pagina. Era una domenica sera ed eravamo al giornale tutti assieme. Gaspare venne nel mio ufficio dicendomi: «Piero, la prima pagina mi pare un po’ moscia. Ho qua un bel pezzo di Pasolini, che dici, lo mettiamo in prima pagina?». Diedi il consenso. Il giorno dopo Giulia Maria Crespi, come membro della famiglia all’epoca proprietaria del «Corriere», con la quale tra l’altro avevo ottimi rapporti, parlavamo spesso, mi chiese: «Piero, come mai Pasolini in prima pagina?». Lo fece con molto garbo, senza alcun tono di dissenso e men che meno arrabbiata. Era semplicemente stupore. Le dissi: «Mi pare un bel pezzo, e poi tutta Milano ne parla». Era d’accordo. Fu l’unica volta che un membro della famiglia espresse un giudizio contenente la parola Pasolini.

In effetti in precedenza era stato pubblicato nelle pagine interne.
Quando arrivai al «Corriere della Sera», nella primavera del ‘72, introdussi la rubrica Tribuna aperta nella quale ospitavamo intellettuali. Lo feci affinché il giornale fosse arricchito da idee provenienti dall’esterno. Una tribuna sulla quale, a turno, persone di rilievo salissero per dire la loro ai lettori, al popolo. Tribuna aperta aveva dei collaboratori fissi: alcuni scrivevano settimanalmente, altri ogni quindici giorni, altri meno. Cominciammo ospitandoli nelle pagine interne, ma ci accorgemmo che pubblicando gli interventi in prima pagina si otteneva una eco migliore. Quindi trasmigrò in prima. Ma non era d’obbligo. Pasolini, comunque, dopo quel primo articolo andò sempre in prima pagina.

E i politici, le hanno creato problemi per la collaborazione di Pasolini?
Non ebbi problemi, anche perché negli anni in cui diressi il «Corriere» creai una situazione veramente ottimale: il mondo politico mi lasciava in pace. Aveva capito che non c’era colloquio su certi temi. I politici, allora come oggi, avevano l’abitudine abbastanza diffusa di telefonare ai direttori per contestare articoli e interviste. Con me non lo fecero mai, non ero un interlocutore. Sapevano che sarebbe stata fatica sprecata.

Forse intervennero sugli editori?
Può darsi. A esempio quando il  «Corriere» fu ceduto dai Crespi ai Rizzoli, seppi che alcuni politici si erano lamentati più volte per quanto scritto dal «Corriere della Sera». Però quando successe gli editori ebbero lo stile, l’eleganza, di non dirmelo nemmeno. Lo fecero dopo, a cose fatte, quando avevo lasciato il «Corriere della Sera» e anche loro avevano perso il controllo. Angelo Rizzoli mi raccontò che quando erano andati a Roma per battere cassa, con politici o alcune banche, in periodi di crisi della famiglia, qualche interlocutore aveva detto: finché c’è Ottone non vi daremo una lira. La mia conduzione non era addomesticata, era considerata un po’ troppo indipendente. Tuttavia non mi risulta ci sia mai stato un riferimento esplicito a Pasolini. Non ci furono personaggi, politici o no, che mi chiamarono per protestare contro cose scritte da Pasolini.

E le reazioni dei lettori, considerato che forse stonava un po’ con la linea tradizionale del giornale?
Non ne ricordo. Se ne parlava molto, con interesse, ma non ci furono reazioni negative.

Le collaborazioni di Pasolini ebbero riscontri nelle vendite del «Corriere della Sera»?
Francamente non credo ci siano stati vantaggi per la collaborazione di Pasolini in particolare. Quel periodo per il  «Corriere» è stato di grande successo sia come tiratura che come diffusione. Era molto seguito, andava bene. 

Oltre a Pasolini, chi collaborava a Tribuna aperta?
Ricordo Alberto Moravia, e tre persone che scrivevano di economia: Bruno Visentini, Beniamino Andreatta e Franco Modigliani.

Gli argomenti affrontati erano scelti da Pasolini?
Sì, mi pare di sì. Ma, anche per quanto detto prima circa la mia sostanziale estraneità alla gestione del rapporto, non so se a volte furono concordati in colloqui con Gaspare. D’altronde non c’era una periodicità nella collaborazione di Pasolini al «Corriere».

C’è qualche articolo di Pasolini che ha gradito più di altri?
Ritengo abbia fatto due o tre cose storiche per il loro valore simbolico. Penso all’articolo sulla scomparsa delle lucciole, che indica il passaggio da una società agraria e tradizionale a una civiltà moderna. Secondo me è stata una pietra miliare. Un’altra è il cosiddetto “Processo”, quando scrisse che bisognava processare coloro che governavano l’Italia. Si trattò di due intuizioni storiche di Pasolini, una sulla società e l’altro sul potere. Due cose molto importanti. Non dimentico il famoso «Io so», pregevole anzitutto dal punto di vista stilistico, e l’intervento sui questurini che meritavano rispetto poiché figli del popolo. Furono molti gli articoli importanti di Pasolini, ma i primi due ebbero qualcosa in più, simbolicamente importanti perché colsero due passaggi storici della vita italiana.

È vero che dopo la sua morte avete dovuto fronteggiare l’assalto di giornalisti e intellettuali che volevano prendere il suo posto, ambivano ad emularlo?
Che volevano pasolineggiare?

Esatto.
Sì, sì, certo. Dato il suo successo, è chiaro che piaceva a tutti avocarsi la qualifica di successore di Pasolini. Ma non ci fu nessuno che abbia raggiunto il suo livello.

Nemmeno adesso le pare di vederne in giro?
No, assolutamente.

Da tempo si insiste sulla mancanza di intellettuali impegnati, com’era Pasolini. Che ne pensa, ritiene sia un problema concreto?
Non lo so. Sono quelle questioni, quelle affermazioni molto generiche che ogni tanto qualcuno fa, ma dalle quali mi astengo. Come si fa a dire se ci sono o non ci sono intellettuali impegnati, quel tale è o non è impegnato? Si possono esprimere giudizi sui singoli individui, ma almeno da parte mia non lo faccio volentieri. Sono più che altro polemiche, polemiche spicciole poco aderenti alla realtà.

Ricorda quando fu ucciso Pasolini, chi glielo comunicò?
Qualcuno mi telefonò e me lo disse. Ero in casa, qui dove sono adesso. Oltre questo non ho altri ricordi personali. Tutto finisce lì.

Credette all’azione solitaria di Pino Pelosi nell’omicidio? Negli anni passati l’inchiesta sul caso è stata riaperta per l’ennesima volta. Che ne pensa?
Mi guardo bene dall’entrare in questa cosa. Assolutamente.

Note
1.La famiglia Crespi era proprietaria del «Corriere della Sera» e lo resterà sino alla cessione ai Rizzoli.
2 Viene pubblicato il 7 gennaio 1973,  intitolato Contro i capelli lunghi. 

Giulia Maria Crespi
Giulia Maria Crespi

Intervista a Giulia Maria Crespi 

Ricorda quando e come conobbe Pier Paolo Pasolini?
Pasolini l’ho conosciuto nei famosi anni ruggenti di Milano, quando c’era il circolo Turati e tutto un fermento d’innovazione e vita con Antonio Cederna, Paolo Grassi, Carlo Ripa di Meana. Mi pare che la prima volta ci incontrammo durante uno dei lunedì letterari.

Quando parla di anni ruggenti si riferisce agli anni Settanta?
Sì, sì. Una di quelle sere conobbi Pasolini che diventò mio amico. Mai in maniera intima anche se eravamo abbastanza amici, eravamo al tu. Ogni tanto veniva a trovarmi nella mia azienda nella Bassa Padana, la Zelata del parco Ticino. Era innamorato di quella zona perché gli ricordava la gioventù e la mamma. Era attratto dai filari di pioppi, dalle risaie, dalle marcite, e mi raccontava una speciale attrazione per le donne padane. Non un’attrazione sessuale, intendiamoci, ma poetica. Secondo lui le donne della Padania avevano una dolcezza e un garbo particolari. Non una grande bellezza ma un’armonia speciale che si rispecchiava nei filari dei pioppi, nell’acqua, nei boschi, nel fluire del fiume Ticino. Aveva quasi una venerazione per la Bassa padana e le sue donne, a suo parere diverse dalle altre. A me non sembrava, sinceramente, ma diceva che gli ricordavano molto sua mamma, cui voleva molto bene. La citava sovente.

Come concordaste la collaborazione al «Corriere della Sera»?
Quando Ottone arrivò alla direzione del «Corriere della Sera», portò una grande ventata d’innovazione al giornale. Lo aprì all’intellighenzia dell’epoca: Natalia Ginzburg, Goffredo Parise, Antonio Cederna, appunto Pier Paolo Pasolini, e molti altri ancora. Quando Pasolini fu avvicinato affinché collaborasse al «Corriere», era recalcitrante perché era nettamente di sinistra mentre il «Corriere della Sera» veniva considerato di destra. Per superare le difficoltà proposi a Ottone di parlarci io personalmente. Ancora oggi ricordo quell’occasione come se fosse ieri. Fu una giornata memorabile. Erano gli inizi di marzo, passeggiavamo nei boschi tra specchi d’acqua e i primi timidi boccioli, quando gli prospettai l’importanza e la bellezza di potere raggiungere un grande pubblico con la sua poesia. Ricordo che parlammo molto anche dell’importanza della poesia e della bellezza per la vita, la gente, per nutrire lo spirito. Parlammo anche di spirito e di anima. Ricorderò sempre quella giornata d’inizio primavera. Era tutto diverso da oggi, era spirituale. Passammo quasi un’intera giornata a camminare nei boschi. A un certo momento mi disse: «Va bene, scriverò sul «Corriere»,  ma anch’io devo chiederti un favore: poter girare un film alla Zelata». Accettai e ci accordammo. Girò nella mia tenuta il film Teorema, filmando non solo la casa ma anche il cane, un grosso spinone che mio marito adorava. Lo fece senza che gli dicessi nulla, anche perché non era pro Pasolini come invece ero io. Inoltre fece girare alla sua coppia una scena d’amore sopra un sofà di cuscini della nostra residenza. E quando andammo a vedere il film in anteprima, mio marito si arrabbiò moltissimo, perché riteneva fosse stata profanata l’intimità della nostra casa. Per un giorno intero non mi parlò. Ricordo che Pasolini mi invitò anche alla prima ma il film non ebbe molto successo. Poi, lentamente, i rapporti si allentarono, cominciammo a non vederci più sino a quando seppi della morte. Ogni tanto mi scriveva, ma tutte le lettere, così come molte altre legate al «Corriere» e ad altre esperienze, per uno sbaglio d’una segretaria, sono andate al macero. Comunque non erano molte le lettere di Pasolini.

Rimase sorpresa dalla pubblicazione di Pasolini in prima pagina?
Sì, anche perché fui molto criticata. Mi consigliarono, almeno all’inizio, che non fosse pubblicato in prima. Fu uno choc grandissimo per gli altri proprietari e per il pubblico. Ma io appoggiavo molto Pasolini, perché era un vero poeta.

Ebbe altri problemi per la collaborazione di Pasolini al «Corriere»?
Mi scusi ma del «Corriere» non parlo, perché un giorno vorrei scrivere le mie memorie. Chissà se un giorno lo farò…

Capì già all’epoca che quegli articoli avrebbero fatto epoca, avrebbero rappresentato un elemento fondamentale della sua storia intellettuale, e anche per la cultura italiana?
Beh, era bravo, era bravo, era bravo. Era un poeta, un essere tormentato.

Si parla spesso della mancanza di intellettuali impegnati, Pasolini lo era.
Non solo lui, era un altro mondo, un’altra epoca. La politica aveva meno influenza.

Si facevano sentire di meno?
Sì, c’era un senso di libertà, grande entusiasmo per un’Italia che risorgeva e anche  per il manifestarsi di tutte quelle personalità, erano davvero un bel gruppo.

All’epoca vi crearono problemi per la collaborazione di Pasolini.
È vero che il mondo politico, come pure quello dei grandi imprenditori, guardavano malissimo alla collaborazione di Pasolini e in generale a quell’apertura voluta da Ottone. Infatti venne fuori la P2 e mi mandarono via. All’epoca il  «Corriere» superava il milione di copie come tiratura e a volte anche come vendite.

Come seppe della morte di Pasolini?
Dal giornale e fui scioccata.

Cosa ricorda dell’uomo Pasolini?
Era molto modesto. Ricordo che ogni tanto, quando lo incontravo a una serata a Milano, mi confessava che non gli piacevano simili appuntamenti, la mondanità. Preferiva vedere poca gente. Era molto rustico, ruvido, semplice. Aveva quasi sempre un abbigliamento dimesso. Anche alle serate magari più importanti veniva vestito come un uomo di campagna, dei boschi. Gli volevo molto bene e credo che anche egli avesse simpatia per me, anche se inizialmente mi vedeva come la ricca proprietaria, un po’ snob.

Piero Ottone ha sostenuto di non avere avuto meriti nella collaborazione di Pasolini al «Corriere», attribuendo tutti i meriti a lei e a Gaspare Barbiellini Amidei.
A Ottone do grandi meriti perché se non ci fosse stato lui, altri non avrebbero mai osato ospitarlo sulle pagine del «Corriere». Io eseguivo semplicemente, credendoci molto. Come dicevo, Ottone aprì il giornale a tutta la cultura italiana. E naturalmente Barbiellini, che era anche molto colto, lo coadiuvò in questo. Era così, un bel lavoro di gruppo, erano altri tempi, era tutto più facile, più bello, più armonioso.

Negli ultimi mesi è stata riaperta l’inchiesta sull’omicidio di Pasolini. Lei credette alla versione all’epoca data di quanto successo all’idroscalo di Ostia?
Non lo so. Non me ne sono mai occupata, ero solo triste. E basta. Non si sa mai cosa c’è dietro. Ma lasciamo perdere, guardiamo alle cose belle, quello che ci ha donato…Sì sì, guardiamo a questo!