“La ricotta” di Pasolini ovvero la morte della pietas, di Enzo Lavagnini

Dal numero del mese di aprile 2017 della rivista online “Diari di Cineclub”, diretta da Angelo Tantaro,  riprendiamo l’analisi del film pasoliniano  La ricotta, condotta da Enzo Lavagnini, studioso di cinema e cineasta. Tra i tanti strati che tramano il film è evidenziato  soprattutto il motivo della pietà umana che pare  definitivamente azzerata dal cinismo e dall’insensibilità al dolore degli altri.

“La ricotta” di Pasolini: la “passione” e la tragedia dell’indifferenza
di Enzo Lavagnini

www.cineclubromafedic.it  – n. 49 aprile 2017 

Si può rappresentare nello stesso modo un imprigionamento per mezzo di un altro imprigionamento come si può descrivere una qualsiasi cosa che esiste real­mente per mezzo di un’altra che non esiste affatto.
Daniel Defoe, L’anno della peste

Orson Welles, Elsa De Giorgi e Pasolini sul set de "La ricotta" (1963)
Orson Welles, Elsa De Giorgi e Pasolini sul set de “La ricotta” (1963)

La ricotta di Pier Pa­olo Pasolini (uscito in sala il 19 febbraio 1963, nel film collettivo Ro­.Go. Pa.G) è una “rappre­sentazione” (ma anche una “sacra” rappre­sentazione): c’è un uo­mo che muore, nell’in­differenza di tutti. E che muore per tutti. Aveva fame, ma ha man­giato troppo. Prima nessuno voleva dargli né cibo né bevande, poi tutti gli hanno dato, ma solo per scherno, più di quello che poteva di­gerire. Ci si sono “divertiti”: il cibo -e il resto-gli è stato tolto o dato, a piacimento, come elargizione e condizionamento. Il “povero Cristo” esposto è l’emblematico sottoproleta­rio Stracci (l’attore per “caso”, il muratore Mario Cipriani), che nella sua agonia da “la­drone buono” ora osserva tutto dalla croce, scontando comunque, sia pur con la sua “ba­nale”, affatto divina, morte, le colpe di tutti: dei violenti e dei dissipatori, degli emarginati e dei corrotti, degli sfruttati e degli sfruttato­ri. Di chi ha vissuto succhiando la vita degli al­tri e di chi non si è nemmeno accorto di aver vissuto la vita. La sua, di vita, viene giudicata soprattutto “inconsistente” al punto che della sua fine sembra poi davvero non importare nessuno. Un “accadimento” imprescindibile e fatale per lui, secondo il crudo, ma in fin dei conti realistico, giudizio degli altri. In un trionfo pacchiano di indifferenza, il film, che di questa caratteristica si è nutrito, ora conti­nuerà. Verrà tra un poco battuto un nuovo ciak, ripartirà il Bach in colonna sonora. Si può fermare una vita, non un film, non una “rappresentazione”. La “rappresentazione sa­cra” ha poi una sua eterna vita. E lo “spettaco­lo” non è da meno; come ci hanno insegnato appositi e diretti moniti hollywoodiani. Così, l’obiettivo dell’operatore cambia punto di vi­sta e focale e si posa su altro…
Nella rappre­sentazione de La ricotta, seppure il raccon­to sia chiaro ed univoco, si rincorrono tre livelli articolati di una partitura ben cadenzata. Il primo è quello della parabola (in technicolor e sfoggio manierista) della Passione del Cri­sto, con tanto di imprimatur delle gerarchie ecclesiastiche: ossia il film che si sta realiz­zando. Il secondo è la storia di Stracci, il pove­raccio, affamato e vilipeso da secoli, con il contorno delle altre comparse o figuranti. Il terzo è il livello che riguarda il regista, distac­cato dagli altri, co­me può esserlo, in taluni casi, solo un intellettuale dal po­polo. Il film in lavo­razione è (più o meno) una grande produzione; alme­no di questa vedia­mo lo “scimmiotta­mento”: l’apparato della troupe, la cor­te che circonda il mega produttore, la ricerca iconografi­ca, il distacco agio­grafico che cerca dal­la realtà, come una sorta di calco di un film alla Ben Hur. Al con­trario, le comparse, il “popolo” coinvolto, sono quanto di più ordinario, quotidiano, minuto: arrivano a dozzine diretta­mente dalle bor­gate romane, e scalpitano ora indisciplinati e ora sguaiati sui pratoni anonimi dell’Ac­qua Santa: si sono portati appresso soltanto i “bisogni primari”, cui rispondono istintivamente: il cibo e il sesso. Il regista, marxista (come Pasolini, in un gioco ironico predisposto), è sola­mente molto preso e com­piaciuto di se stesso, della propria poetica, del proprio dire sul mondo, delle pro­prie teorie; vive “galleggian­do” sulle nuvole prodotte dalla sua stessa fa­ma. Considera quel film una scocciatura, non all’altezza delle sue qualità.

Mario Cipriani in "La ricotta" (1963) di Pasolini
Mario Cipriani in “La ricotta” (1963) di Pasolini

Tra analogie e me­tafore, di cui trasuda il racconto pasoliniano, la “cornice” popolare sembra essere insomma l’unica delle tre ad accostarsi maggiormente a una visione religiosa della storia e ci pare dica molto su concetti cari a Pasolini. Nono­stante i “bisogni primari” sempre dominanti, ricattatori, c’è infatti un frame del film, quan­do Stracci (che della cornice dei bisogni pri­mari fa parte in toto) si inginocchia davanti ad un’edicola sacra e si fa il segno della croce. S’intuisce appena nel ritmo accelerato da co­mica finale, si vede bene solo fermando il fra­me. Poi Stracci prosegue la sua corsa e tutto sci­vola via. E’ un insegnamento atavico quello cui egli ha risposto; roba cui la fretta ed il consumo stanno, già all’epoca, togliendo luogo. E’ stato un “rapido” gesto di pietà verso il Cristo, di cui sta per fare la stessa fine. Un segno della croce che dice già di pietà anche per se stesso.
E’ for­se questo l’unico momento di autentica, po­polare, spontanea devozione all’interno di un film in più tratti più pagano che religioso. Un film nel quale la descrizione religiosa della realtà non genera pietà: dapprima mera osservazio­ne, poi solo ineluttabile evidenza della trage­dia. La ricotta ribadisce con una forza im­pressionante che l’interessamento (il coinvolgimento) nelle sorti di un altro s’è così perso. E’ morto, proprio come è morto Strac­ci. Morto al ritmo di un pianino che suona musichette per l’accompagnamento in sala di vecchi film muti, di una slapstick comedy, as­sieme alla morte di una comunità che ha per­so ogni radice, ogni senso di comune apparte­nenza, ogni compassione: così come è accaduto al Cristo sul Golgota, ora accade a Stracci: irri­sione, derisione, scherno e indifferenza. Pa­solini narra della Passione del Cristo, per nar­rare delle vite disorientate di tanti di noi davanti al dolore degli altri cui il consumo (anche di immagini) ha tolto peso, la cui rap­presentazione ci vede sempre più, e solo, nella parte degli spettatori.