In viaggio con Pasolini lungo le coste dell’Italia del 1959, di Roberto Carnero

Riportiamo una bella analisi di Roberto Carnero su  La lunga strada di sabbia, il reportage recentemente riedito da Guanda (introduzione di Paolo Mauri)  in cui Pasolini  raccontò il suo viaggio in auto dell’estate 1959 lungo le coste italiane, da Ventimiglia a Palmi, per poi risalire da Taranto la costa orientale fino a Trieste. A incaricare lo scrittore di quel resoconto era stata la rivista “Successo”, che poi  pubblicò tre  lunghi articoli del geniale scrittore in veste di reporter tra luglio e settembre di quell’anno.

Ventimiglia-Trieste. L’Italia di Pasolini tra miseria e nobiltà
di Roberto Carnero
 

http://ilpiccolo.gelocal.it/ – 19 luglio 2017

Nel giugno del 1959, quando parte da Ventimiglia al volante di una Fiat 1100, Pasolini è già lo scrittore affermato e controverso che sempre più negli anni successivi il pubblico si abituerà a conoscere. Dopo il trasferimento, nel 1950, nella capitale per fuggire allo scandalo omosessuale che l’aveva coinvolto a Casarsa, ha pubblicato nel 1955 il primo romanzo romano, Ragazzi di vita, per il quale autore ed editore andranno a processo (poi assolti), e pochi mesi prima, in quello stesso 1959, è uscito il secondo romanzo ambientato nelle borgate, Una vita violenta. Il libro era in lizza per il Premio Strega, ma quell’anno il prestigioso riconoscimento letterario va, postumo, al Gattopardo di Luigi Tomasi di Lampedusa, morto due anni prima. Pasolini poco dopo riceverà, a mo’ di risarcimento morale, il premio Crotone. Non stupisce, quindi, che proprio a lui sia stato chiesto questo reportage d’autore, teso a fotografare il Paese, da Nord a Sud e ritorno, in una fase storica che vede l’avvio delle profonde trasformazioni legate al boom economico.
Ventimiglia è dunque il punto di partenza del viaggio: una città molto diversa da quella a cui ci richiamano quotidianamente le cronache di oggi, con la presenza dei migranti che stazionano al confine, respinti dalla Francia; gli “stranieri”, allora, erano i meridionali, la migrazione era tutta interna a un Paese in cui erano in corso grandi cambiamenti economici e sociali. A Sanremo, tappa obbligata è una visita al casinò: «Entro come Charlot, cercando di farmi piccolo sotto gli sguardi monumentali dei custodi». Poi Genova, Portofino, Rapallo, Lerici, fino a Livorno, dove annota lo scrittore: «Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri».
Sembra una riflessione buttata lì en passant, ma quel senso di «rispetto» reciproco è un profondo segno di civiltà, un elemento che verrà meno – nelle analisi pasoliniane degli anni successivi, fino alle pagine più cupe e disperate, scritte nei primi anni Settanta, degli Scritti corsari – con l’avanzare di uno «sviluppo» duro e travolgente, che per lo scrittore non era affatto sinonimo di «progresso», essendo il primo un concetto meramente quantitativo, misurabile dal punto di vista economicistico; il secondo, invece, qualcosa che ha a che fare con la cultura e, appunto, con la civiltà.

"La lunga strada di sabbia", riedizione Guanda. Copertina
“La lunga strada di sabbia”, riedizione Guanda. Copertina

Ma le riflessioni più nere del Pasolini maturo, in questa estate spensierata del ’59, sono ancora di là da venire. Lo scrittore trentasettenne, baciato dalla fama e dal successo, può ancora godersi, con una certa dose di felicità, lo spettacolo di un popolo italiano non ancora omologato, che assume aspetti differenti alle diverse latitudini. A Fregene incontra Alberto Moravia, che sta scrivendo La noia, e Federico Fellini, che sta girando La dolce vita, un film ai cui dialoghi Pasolini avrebbe dovuto collaborare (ma ultimamente è stato un po’ uccel di bosco, e perciò non sa con che faccia presentarsi al Maestro). Tuttavia, giunto a Ostia a fine giugno, quando comincia il rito delle vacanze di massa, è di nuovo il popolo ad attirare il suo sguardo: «Il Grande Formicaio s’è mosso».
Percorrendo la costa prima laziale e poi campana, giunge a Napoli. Pasolini ha sempre amato questa città, perché la considerava una sorta di enclave antropologica fuori dalla Storia: non a caso, anni dopo, farà parlare il dialetto napoletano ai personaggi del suo Decameron. È un po’, la sua, una Napoli da cartolina, con un’attenzione particolare agli strati sociali caratterizzati da povertà e miseria, con descrizioni che ricordano quelle tardo-ottocentesche di Matilde Serao: «Tutto il porticciolo è in subbuglio: una folla di barche sotto la luna immensa, e mucchi infiniti delle cose più incredibili, sul mare, sulle banchine. I guaglioni si gettano in mare a raccogliere le monete gettate dagli stranieri. Girano intorno ai venditori di ostriche e cozze». Lo scrittore viene presto attorniato da una folla di ragazzini che gli chiedono dieci lire: avendo commesso l’errore di darne cinquanta a uno di loro, per un bel po’ non riesce più a liberarsi del gruppo. Poi passerà la notte camminando per la città: «Tre o quattro volte sono andato e tornato da Posillipo. Ho fatto l’aurora, ho visto il Vesuvio, vicino che si poteva toccarlo con la mano».
Ischia, Capri, Vallo Lucano, Maratea, Siracusa sono le tappe successive. Poi da Reggio Calabria a Taranto. Dal tacco, lo scrittore risale lo Stivale lungo l’Adriatico, e più avanti, nel passaggio dalle Marche alla Romagna, comincia a riconoscere i luoghi delle estati della propria infanzia e adolescenza: «Non saranno più scoperte, ma verifiche». Tale verifica lo porterà a misurare la distanza, già profonda, tra i ricordi dell’Italia di vent’anni prima e un presente in cui il Paese mostra eclatanti segni di mutamento.
Ciò gli appare ancora più chiaro nell’ultimo tratto del viaggio, da Venezia a Trieste. A proposito di Caorle – la spiaggia di quando, ragazzo, trascorreva le vacanze estive a Casarsa – ricorda con nostalgia: «Era uno dei più bei paesi del mondo: lo giuro. Perduta oltre le bonifiche senza ponti, canali e lagune, che si attraversavano su lentissime zattere, nessuno la conosceva: ed essa era rimasta nascosta per secoli, strano, dolce mostro. Le case erano dipinte a colori vivi e puri: rosso, blu, nero, verde». L’impressione, oggi, è invece tutta negativa: «Ora… chi è quell’idiota, delinquente che ha permesso che si intonacassero tutte le case di nuovo, col colore della cacca dei bambini? Con gli atroci rosa e gialletti dell’eterna stupidità borghese?».
Finalmente, ad agosto, Pasolini arriva a Trieste. Sceglie di andare in una zona a lui sconosciuta, la periferia della città che si stende sulla strada dell’Istria e di Pola: «Trieste finisce, con gli ultimi cantieri del porto, gli ultimi palazzoni, contro quelle tristi colline fumose, contro la cortina bianca del cielo». Passa per Muggia, «col suo porticciolo che riproduce in piccolo quello di Trieste, in triste quello di Grado».
E arriva al Lazzaretto, l’ultima spiaggia italiana, formicolante – è Ferragosto – di bagnanti: «La breve spiaggia di Lazzaretto potrebbe essere in Calabria. Una quantità di gente, per l’angustia della piccola insenatura, si ammassa su una cerchia di pietre fangose, di sassi sporchi, sotto alberi spelacchiati e poveri prati». Pasolini scruta oltre confine, ma non vede un’anima. Si concentra dunque sulla varia umanità che lo circonda. Attira la sua attenzione un gruppo di ventenni, ragazzi e ragazze, la cui parlata lo scrittore, sempre attento ai linguaggi locali e ai dialetti (nelle vesti sia di narratore sia di studioso), non manca di registrare: «Colgo le voci, umili, sperdute, del gruppo. Una dice: “Presteme el petine!”. Il giovanotto che si sta pettinando i capelli lisci e neri, fa, indolente: “Speta!”».
Un breve spaccato, ma capace di evocare un mondo.