Bertolucci: l’incredibile presenza dell’assenza di PPP, di Manuela Grassi

Bertolucci: dopo il ’68 narro dei tupamaros

di Manuela Grassi
28 novembre 2005 – Archivio Storico di «Panorama»

Bernardo Bertolucci, regista di film molto amati e qualche volta molto odiati, è cresciuto respirando poesia. I versi del padre Attilio gli restituivano rivestito di sogno il microcosmo in cui viveva: la gramigna che bruciava nei campi, la nebbia fra le gaggie, i ragazzi smemorati intorno a un fuoco, le ginestre «grame e splendenti» sulle pendici dell’Appennino. «Per non far trascolorare quel mondo, per fermare la sparizione di quei valori», il 27 novembre a Parma, città d’origine della famiglia, verrà consegnato il premio internazionale di poesia intitolato al padre. Nella sua silenziosa casa romana Bernardo si muove impugnando due lunghi e sottili bastoni. Gli servono per camminare dopo una faticosa riabilitazione: «Sono molto in voga tra gli anglosassoni perché invitano a una corretta postura. La chiamano nordic walking» sorride. La sua fama internazionale non ha soffocato le radici parmensi, amate, rifiutate e di nuovo apprezzate, quelle di cui la sua vena si alimenta per raccontare il Novecento emiliano ma anche L’ultimo imperatore di Cina, i sognatori sessantottardi di Parigi, o i tupamaros del prossimo film.

Dopo i ragazzi del ’68 i tupamaros?
La settimana scorsa ho finito la prima versione della sceneggiatura. È tratto da un romanzo americano che si intitola Belcanto, di Ann Patchett. In Usa è stato un grande successo, più di un milione di copie (in Italia è edito da Neri Pozza, ndr). Come sempre quando un mio film è tratto da un libro c’è una grande libertà di reinterpretare. Insomma, di ritrovare l’occasione, come fosse la prima volta. Che storia racconta? La storia di Belcanto è ispirata a un fatto di cronaca. Anni fa la residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima venne invasa dai tupamaros durante una grande festa con ospiti importanti, musica, abiti da sera, smoking. I guerriglieri cercavano il presidente Alberto Fujimori, che non c’era, e rimasero bloccati con una cinquantina di ostaggi per più di tre mesi. È interessante, nel romanzo, quello che accade tra gli ostaggi e i rapitori, dopo un po’ non si distinguono più gli uni dagli altri. L’atmosfera ricorda un po’ L’angelo sterminatore di Luis Buñuel. Alla fine le forze speciali fecero irruzione e uccisero in blocco il commando. Lei ha detto che il cinema parla sempre del presente… Questo film parlerà della differenza che c’è tra quello che accade oggi e ciò che è accaduto pochissimo tempo fa. L’episodio a cui mi ispiro avvenne tra la fine del 1996 e l’aprile del 1997, eppure c’è una distanza enorme. Penso che i tupamaros fossero più guerriglieri che terroristi. Ma non voglio dire di più. C’è una grande differenza anche tra la rivolta degli anni Sessanta, Settanta e quella esplosa oggi nella banlieue francese. Quello del 1968 era un movimento borghese e piccolo borghese, con una testa, un’avanguardia che prendeva decisioni, mentre questo movimento mi dà una sensazione di pura spontaneità, non esiste un’élite che guida i ragazzi delle banlieue.

Sa qual è l’etimologia di banlieue?
Lieu, luogo; banni, bandito, escluso. I «banlieusard» vengono da un luogo per definizione stessa emarginato. Quello che li fa infuriare è questa finta identità francese: sono nati in Francia, hanno passaporto francese, hanno studiato lì e alla fine non sono veramente francesi perché non trovano lavoro. Per loro la nazionalità è una pura illusione.

Non le piacerebbe come soggetto?
È un film che hanno fatto, e continuano a fare, i francesi. L’odio di Mathieu Kassovitz era qualcosa di abbastanza profetico, come a volte il cinema sa essere. Le scene di caccia in La regle du jeu di Jean Renoir, un film del 1939, erano una profezia sulla tragedia che stava per esplodere in Europa. Il cinema, proprio per il suo carattere visionario, ha questa capacità di guardare avanti.

Dei cineasti italiani lei parla poco. Si riferisce a volte con affetto a Marco Bellocchio, divergenze a parte, ma non cita altri. E Nanni Moretti? E Marco Tullio Giordana?
Non è così, probabilmente sono ormai così defilato, proprio perché non sopportavo più questo soffoco, che non mi capita di entrare nel merito. Oggi c’è un cinema italiano che fa finalmente respirare: Respiro, per l’appunto, di Emanuele Crialese, L’imbalsamatore di Matteo Garrone, e poi Paolo Sorrentino, Pappi Corsicato. Qualche Giordana… Moretti è un caso a sé, ha fatto un suo percorso molto speciale.

A quale «soffoco» allude?
Gli anni della corruzione hanno innescato un processo di soffocamento, è stato il momento in cui l’incubo di Pier Paolo Pasolini si è materializzato.

Il 27 novembre, a Parma, il video dello spettacolo diretto da suo fratello Giuseppe e recitato da Fabrizio Gifuni Na specie de cadavere lunghissimo ricorderà Pier Paolo Pasolini. Che cosa l’ha colpita di più delle commemorazioni a trent’anni dalla morte?
La cosa che mi colpisce di più, dal giorno della sua morte, il 2 novembre 1975, è l’incredibile presenza della sua assenza: c’è un buco, una ferita in nessun modo rimarginata. Nella musica generale manca quella voce. Negli ultimi tempi c’è stata in molti la tentazione di buttare via il Pasolini poeta e di salvare il regista. Operazione miserella. Il fatto che fosse un poeta civile, attento alle ideologie politiche, non vuol dire che non è stato un grande poeta.

Dove ritrovare quella febbrile intensità?
I suoi film sono bellissimi, le odi straordinarie. Nel periodo in cui girava Salò, collaborava al «Corriere della sera», ha avuto una visione implacabile di quello che sarebbe accaduto nel nostro Paese.

Qualche giovane si chiede se Pasolini oggi avrebbe capito i leghisti… Avrebbe parlato di sottocultura, un vocabolo che usava spesso. Lei esordì come poeta, poi passò al cinema come assistente di Pasolini in Accattone. Che cosa le ha insegnato?
Lasciai la poesia perché mio padre era più bravo di me. Per un certo momento non sopportai più neppure la parola poetico, che lui usava moltissimo. Poi arrivò Pasolini: anche lui diceva sempre «poetico/a», era un modo per tagliare corto, se una cosa era poetica, voleva dire che andava bene. Allora io ero molto preso dalla Nouvelle vague e da Jean-Luc Godard, quello era il cinema che sognavo di fare un giorno, di sperimentazione, di rischio. Con Pier Paolo è stato come vedere la nascita del cinema, come essere accanto a David Griffith, un primo film che sentivo essere già un classico. Il suo cinema è molto vicino alla psicoanalisi. A Londra la British psychoanalitic society mi ha appena dato una honorary fellowship. Non è mai stata conferita a un non psicoanalista. La motivazione era che i miei film sono molto vicini alla lezione freudiana. Li ho fatti ridere dicendo: «Credevo mi aveste dato questa onorificenza in quanto unico sopravvissuto di quella che Freud chiamava analisi interminabile». Quella che dura tutta la vita. Io infatti ho cominciato a 28 anni e a 64 non ho ancora smesso. In Italia l’anno prossimo mi daranno il premio Cesare Musatti, il patriarca.

C’è anche Woody Allen.
Sì, ma lui ha il dente avvelenato, gli analisti li tratta male.

Lei ha una moglie inglese, Clare Peploe, e vive spesso a Londra…
Londra è una città con una offerta culturale che è quasi uno spreco. Ma negli ultimi tempi Roma ha cominciato a scuotersi dal torpore millenario.

Parla bene di Walter Veltroni perché da ragazzo fu l’unico a difendere Novecento?
Non era solo, c’era un gruppetto. E c’erano altri che difesero il povero Novecento, massacrato dai vecchi comunisti, condannato senza possibilità di redenzione, da Gian Carlo Pajetta, Giorgio Amendola, perché veniva a rompere le scatole in un momento in cui si parlava di compromesso storico, perché aveva un’aria in qualche modo estremistica. E poi Veltroni tra tutti i politici è quello che si interessa più di cinema, ne scrive addirittura.

Che cos’era Parma per suo padre?
C’era un microcosmo di cui era il monarca assoluto, fatto da borghi come Baccanelli, Casarola e da Parma, con qualche blitz fuori, a Roma, considerata luogo d’esilio. Aveva creato intorno a Parma, che chiamava «la petite capitale d’autrefois», a queste case, un’aura molto speciale. Aveva recuperato tutto quello che c’è di straordinario nel passato della nostra città, dagli scalpellini del Battistero, tra i quali l’Antelami, ai sublimi Correggio e Parmigianino, per poi arrivare all’impronta francese di Maria Luigia, una traccia questa, rimasta anche nel dialetto. Era così forte il suo attaccamento a quei luoghi, che quando mi sono trovato a passare di là meno frequentemente, ho avuto la sensazione che fossero frutto di un suo sogno, che stava un poco svanendo. Perciò quando il critico Paolo Lagazzi ha proposto a me e Giuseppe di creare una fondazione e un premio, ci è parsa un’ottima idea.

Ha senso oggi la condizione dell’intellettuale?
L’intellettuale è spesso contro tutto per mestiere, ma è anche quello che meglio capisce che cosa vuol dire la conservazione in senso positivo, la conservazione della memoria.

Lei è snob?
La parola mi fa subito venire in mente una cosa ridicola «La signorina snob», grande invenzione di Franca Valeri… Esistono persone che sono più vicine a espressioni di grande sofisticazione, sottigliezza. Io non mi sento affatto snob. Mi sento che ho un bisogno terribile di fare un film, sapere che ci sono ancora.