Su “doppiozero”, due interviste poco note a PPP (1966-1967)

A quarant’anni dalla morte, un tempo lungo e insieme breve, Pasolini,  scrittore, regista, poeta e intellettuale, è rimasto nella memoria degli italiani ed è tuttora uno degli autori del nostro paese più noti nel mondo; anzi, continua a essere oggetto di interesse non solo di critici e studiosi, ma anche di gente comune. In occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale Più moderno di ogni moderno, ideato per il quarantennale della morte e articolato in un ricco programma d’iniziative nella città delle due torri dove Pasolini è nato e ha conosciuto la prima formazione culturale, www.doppiozero.com, media partner, ha scelto di realizzare uno specifico contributo. Si articola in tre parti. La prima di queste parti è la pubblicazione di alcune interviste di Pasolini, disperse o poco note, con giornalisti, critici, saggisti italiani e stranieri.
Qui le prime due uscite, del 12 e del 19 settembre 2015.

www.doppiozero.com -12 settembre 2015 / 19 settembre 2015

Bologna. "Più moderno di ogni moderno". Manifesto
Bologna. “PPP. Più moderno di ogni moderno”. Manifesto

Intervista a Pasolini. “L’arrabbiato sono io”
Giorgio Bocca, «Il Giorno», 19 luglio 1966
(edita anche in P.P.Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S.De Laude,
“Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 1591-1596)

Certi mattini, al risveglio, il pensiero dell’età è come una folgore. L’ulcera, un mese a letto, la debolezza, i riguardi. Mi sono sentito un vecchio, per la prima volta.
Già, il vecchio Pasolini Pier Paolo, cinquanta chili di una rabbia che è solitudine, amore, timidezza, incontinenza, paura, genio. Cinquanta chili di uomo. Ma non è questo che fa tenerezza o mette a disagio, ma ben altro: sentirsi in debito con lui per conto di tutti e non sapere che fare, come ripagarlo dell’intelligenza che ci ha dato in questi anni, generosamente. Non è il denaro che vuole anche se noi ci guardiamo bene dal darglielo; né siamo autorizzati a concedergli quella esenzione dalla morale comune che chiede con tanta ingenua insistenza: diamogli almeno la stima intellettuale che merita (su diamogliela cuori spugnosi e cervellini esangui), diciamolo che è il migliore di tutti.
La mamma porta il caffè all’ospite e la camomilla al figlio. Sediamoci nel giardino, c’è un po’ di vento. Così, tanto per sfuggire al patetico, attacco un po’ alla balorda.

Senta Pasolini, per lei chi è il vero arrabbiato? Genet? Landroux? Germano Lombardi? Lenin? (Rimane male: son venuto da lui per scherzare? Ed è un altro segno del vero talento: l’ingenuità di fronte al banale. Comunque cambiamo registro.) Volevo chiederle, seriamente, qual è la differenza tra arrabbiato e rivoluzionario (Si passa la mano sul viso e socchiude le palpebre come uno che soffre di un’emicrania permanente).
La contestazione dell’arrabbiato è interna al sistema, per la modifica del sistema, ma perché esso viva. Il rivoluzionario invece lo nega sul piano reale e gli contrappone una prospettiva utopistica. No, mi lasci dire; spesso il rivoluzionario dopo aver distrutto la società costituita eccede nella ricostruzione, vuole che abbia tutti gli attributi, ci riporta anche il moralismo e il perbenismo borghesi, al punto che l’arrabbiato, a volte, incide più profondamente del rivoluzionario. Però una cosa è chiara, l’arrabbiato quasi sempre non è un rivoluzionario, mentre il rivoluzionario è sempre un arrabbiato.

Eppure si dice che un carattere del grande rivoluzionario sia il suo distacco, il suo sguardo gelido, da aquila, la sua facoltà di prevedere e muovere la storia trasferendo la sua rabbia ai manovali della rivoluzione: Lenin che prepara la rivoluzione in Svizzera.
La connotazione di cui lei parla, il sovrano distacco, non appartiene tanto al rivoluzionario, quanto al genio. Che Lenin fosse un genio è fuori dubbio. Eppure io non sarei tanto sicuro sul suo distacco. A scavargli nell’anima probabilmente avremmo scoperto la ferita profonda, aperta, lasciata dall’uccisione del fratello. Il Lenin arrabbiato non è quello che si scaglia contro la borghesia reazionaria, ma l’altro delle polemiche contro i menscevichi. Ed è un segno di rabbia autentica, di passionalità.

Qual è allora il modello dell’arrabbiato non rivoluzionario?
Socrate, senza esitazione. Arrabbiato, lui sì, con un distacco scientifico, al punto di rinunciare alla vita serenamente, e arrabbiato noti bene contro le mirabili istituzioni democratiche di Atene. Il caso di Socrate è perfetto: muore per rispettare le leggi di un sistema che pure consente la vita del suo accusatore Meleto.

E lei lo è arrabbiato? Le dico subito che l’avanguardia contesta…
Lasci stare, ho sempre evitato la polemica con l’avanguardia. Nei primi tempi me ne interessai, ma ci volle poco a capire che si trattava di nullità. È gente in malafede, che fa dei giochetti. Inutile discutere, sarebbe come litigare come una prostituta.

Mi scusi se insisto, non è tanto la polemica che mi interessa, ma il tema, questa rabbia di cui stiamo parlando, le forme e i contenuti che deve assumere. Di lei, per esempio, dicono: “Sì, Pasolini inveisce, maledice, dice le parolacce, ma in un contesto narrativo, vedi Una vita violenta, che ha la struttura delCuore, con la differenza che il Cuore è di sinistra e il suo libro no. Il Cuore nel senso che il protagonista è un eroe positivo, bravo e buono e che in fondo la borghesia che osserva la sua povertà non è poi così malvagia.
Boutade per boutade, potrei rispondere che anche nell’Idiota di Dostoevskij c’è un eroe positivo. Quei signori non hanno ancora capito che un personaggio, anche se descritto a tutto tondo, non assume mai un significato preciso e vincolante, non è una dichiarazione di fede e neppure di voto, ma l’espressione, la misura del grado di conoscenza della realtà cui è giunto un autore. La verità è che il mio Cuore di destra non è diventato il libro della borghesia, ma l’ha spinta a una reazione rabbiosa, razzistica di odio verso il sottoproletariato e che la mia ‘vedetta lombarda’, se lo ricordino quei signori, ha scatenato persecuzioni a cui non sono rimasto estraneo.

C’è dell’altro, Pasolini, dicono che lei è un poeta ‘da volo su Vienna’, capace di usare la lotta di classe come D’Annunzio usò la guerra mondiale, a fini estetizzanti.
È un’accusa da cui non mi difendo. Vuol dire che mi sopravvalutano. Che dicono ancora gli avanguardisti? Ah ecco, dicono che il linguaggio è di importanza fondamentale per gli arrabbiati, che è ridicolo arrabbiarsi in versi alessandrini. Non amo i versi alessandrini, ma a volte mi sembrano una novità rispetto alle codificazioni più recenti dei versi alessandrini.

Pasolini, io al suo posto non me la prenderei solo con l’avanguardia. Dove sono nella repubblica italiana delle lettere i veri arrabbiati?
I letterati italiani sono, per definizione, dei soddisfatti o dei rassegnati. Salvo i pochi che vagano come larve, nella periferia, salvo i rarissimi che operano aristocraticamente a livello internazionale.

E secondo lei perché la rabbia è così rara dalle nostre parti?
Ci sono le gradi ragioni storiche: la Controriforma, la rivoluzione liberale imitata, posticcia, la rassegnazione, l’abitudine secondare all’irresponsabilità. C’è una borghesia fragile, improvvisata, unestablishment incerto, e la grande rabbia, lei lo sa, esiste dove c’è la grande borghesia, dove c’è il grande nemico come nei Paesi anglosassoni. Poi c’è un motivo più recente: la guerra partigiana da noi è stata una cosa importante, una rabbia vera, drammatica. Una generazione vi ha dato il meglio, altre hanno creduto in buona fede, ragionevolmente, che quello fosse il canale, il modello di una rabbia seria, organizzata, esente da teatralità. È stato un bene per alcuni anni e poi forse è stato un male, ha impedito nuove e più sincere manifestazioni, ha chiuso energie giovani nel bozzolo dell’antifascismo generico.

Rabbia, protesta, il corvo rivoluzionario che muore mangiato ma prevedendo il successore. La rabbia che continua, inesausta. E l’ironia, Pasolini? La rassegnazione? La vita è vita, gli uomini uomini, e tutto è prevedibile nell’imprevedibile. Perché, alla lunga, uno non dovrebbe annoiarsi?
No, l’arrabbiato non rinsavisce, non si annoia, non trae lezioni, è come una cartina di tornasole, reagisce. Solo che quando è giovane spera nel futuro della sua vita mentre poi, con il passare degli anni, lo colgono i dubbi, gli scoramenti. Allora la rabbia aumenta, diventa ossessione. Sa perché ho fatto del cinema? Perché non ne potevo più della lingua orale e anche di quella scritta. Perché volevo ripudiare con la lingua il Paese da cui sono stato le cento volte sul punto di fuggire.

Lei si proclama arrabbiato, uno dei rari arrabbiati italiani, perseguitato per amore della rabbia. Eppure va a finire regolarmente che la sua rabbia si risolve in voglia di vita, in opere utili agli altri, in ricerche rischiose fatte anche per gli altri. Che effetto ha avuto per esempio il suo ultimo film?
Come sempre ambiguo. Io conduco una guerra su due fronti contro la piccola borghesia e contro quel suo specchio che è certo conformismo di sinistra. E così scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue. Adesso ho assunto una nuova fatica, dirigo una collana di saggi sul cinematografo.

Glielo dicevo. La sua rabbia migliore è questa, aprire nuove strade, fabbricare nuovi strumenti.
E poi il teatro. Alzatomi dal letto dopo la malattia, ho incominciato a scrivere per il teatro.

Il fiato caldo del vento muove le piccole piante, in basso, c’è un contadino vestito da portiere, quelle case di cartapesta sono Roma. Siamo rimasti in silenzio, poi lui dice: «Forse l’unica cosa da fare è di continuare a fare ciò che abbiamo fatto in questi anni». Bene, chiniamo la testa e avanti: è l’unico modo per non accorgersi che si è aperta una porta con dietro il buio.

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Intervista a Pasolini. “Se nasci in un piccolo paese sei fregato”
Manlio Cancogni intervista Pier Paolo Pasolini, 1967
La Fiera letteraria, a. XLII, n. 50, 14 dicembre 1967
(edita anche in P.P.Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S.De Laude,
“Meridiani” Mondadori, Milano 1999, pp. 1612-1622)

Se è possibile scrivere un capolavoro? È sciocco chiederselo. Il problema non esiste. E comunque, chi potrebbe saperlo?

È una domanda pretesto. Considerala come un punto di partenza. D’altra parte è pur vero che si scrivono molti libri tutti abbastanza modesti. Come mai?
Un piccolo Paese non può dare un grande scrittore. Lo ha detto Goldmann.

Tu sottoscrivi?
Sì. Ogni libro è in rapporto al suo background culturale. Se questo è mediocre anche il libro lo sarà. Possono esserci delle eccezioni, è vero, ma allora si tratta di persone culturalmente apolidi, che vivono in Italia e scrivono in italiano per combinazione. Scrittori che hanno un taglio europeo, cresciuti in un circuito culturale più vasto. L’Italia è una piccola nazione, meschina. Lo ripeto: non può dare un grande libro.

Ma chi ti obbliga a vivere nella meschineria del tuo Paese? Puoi benissimo restare in Italia in ‘terra di pipe’, come si dice, e infischiartene della sua cultura, del suo ambiente, dei suoi problemi, e della sua società letteraria. Certo che se invece di osservare la realtà e la vita, vivi in mezzo alle chiacchiere dei letterati, sei per forza condizionato dalla cultura, chiamiamola così, del tuo Paese.
Certo, ci si può estraniare. Ma in Italia questo è stato possibile solo dopo la Resistenza. Prima si viveva in un mondo chiuso, provinciale, fortemente condizionato da un regime poliziesco, da un costume piccolo borghese; non ci si poteva muovere: oggi puoi stare con un piede a Parigi e con un altro a New York, respirare un’aria più vasta… Prima uno scrittore italiano, era necessariamente italiano, e quindi condannato alla mediocrità…

Non nego che sia molto meglio vivere a Parigi o a New York, piuttosto che a Roma. Oggi si viaggia molto più facilmente di prima. Ma non è certo che prima della guerra si vivesse all’oscuro di quello che accadeva fuori. Si era abbastanza informati. Tutti i miei amici a vent’anni avevano già letto Joyce, Lawrence, Proust, Kafka, Freud, Eliot, Eluard, Rilke, Trakl, Heidegger, Jaspers, ecc. Tale e quale come ora. Forse con maggiore serietà. C’era allora chi credeva che la ‘Ronda’ fosse stata una gran cosa. C’è chi è indipendente e chi è legato al gruppo. E se uno è gregario, o ha i paraocchi, lo resta anche se passa sei mesi all’anno a New York. Fra il Babuino e il Village non farei poi tanta differenza… Ma voglio farti una domanda. Dal momento che si dice che culturalmente si va in un’epoca di confusione, di crisi, o addirittura di sfacelo, non ritieni che sia un vantaggio viverne il più estraneamente possibile, standosene alla periferia, e che da questo punto di vista stare in Italia sia un privilegio?
Non penso affatto che il nostro sia un secolo culturalmente infelice. Al contrario, da Rimbaud a Pound, mi pare che sia un grandissimo secolo. Non ce n’è altri, che mi piacciano altrettanto, che abbiano prodotto opere così attraenti. Mai la letteratura ha circolato tanto, è stata così viva, come dalla seconda meta dell’Ottocento a oggi.

Ma si dice comunemente che si tratta di una produzione incoerente, priva di un denominatore comune come è stato per altre culture, quella romantica, o illuministica tanto per dare un esempio.
Anche il nostro secolo può essere culturalmente ben definito. Te ne posso riassumere con una parabola la storia. C’era nel mondo una società molto potente, decisa a conservare il potere con tutti i mezzi. Ma che cosa c’è di più colpevole che detenere il potere? È naturale perciò che la borghesia, è di lei che si parla, si sentisse in colpa. E quando uno si sente in colpa che cosa desidera? Desidera punirsi. La borghesia oppressa dal senso di colpa, voleva suicidarsi. E l’ha fatto. Ma indirettamente, colpendosi nella cultura, cioè nella ragione. La cultura borghese infatti era all’insegna della ragione; la ragione era era il grande mito della borghesia ottocentesca. Attraverso l’uccisione della ragione, la borghesia si è suicidata espiando la sua colpa, la colpa di detenere il potere.

Non ho mai pensato che chi comanda si senta in colpa. Al contrario, ho sempre avuto la sensazione che ne goda; il potere va alla testa di chi comanda, lo fa sentire importante, vivo.
E in questo suicidio la borghesia ha trovato anche il suo carnefice: Hitler. Hitler è stato il Dio dell’irrazionalismo. Tutta la poesia europea da Rimbaud a oggi è irrazionale.

In questo modo si mettono sullo stesso piano Rimbaud e Hitler, il simbolismo e il nazismo… Le idee mi si confondono.
La ragione, il culto della ragione è borghese.

Ma anche la civiltà greca è nazionalista, vuoi dire che era anch’essa borghese? Allora bisogna dire che tu intendi per borghesia la classe al potere. Se è così tutta la storia del mondo è borghese, da Atene alla Cina di Mao.
Le civiltà del passato erano religiose, non razionaliste.

Tu contrapponi religione e ragione. Ma allora dove lo metti il cattolicesimo? Il cattolicesimo, nell’epoca della sua pienezza, quando si può parlare di una civiltà improntata da esso, il Medioevo, è una delle più grandi costruzioni razionaliste (basta pensare a san Tommaso) di tutta la filosofia occidentale.
Questo vuol dire che l’essenza religiosa del cristianesimo è stata razionalizzata dalla classe al potere.

Così tu pensi che la forza vitale della storia sia di natura religiosa e che la ragione sia lo strumento col quale le classi al potere piegano e utilizzano queste forze. Per un marxista è un’affermazione direi un po’ eterodossa. E la scienza?
Anche la scienza appartiene, nella sua essenza, più al mondo religioso che a quello della razionalità. Guarda lo scienziato. È un uomo religioso, non ha senso pratico, è disinteressato; è a suo modo un mistico, che supera, con l’intuito, con la fantasia, con la totalità del suo potere conoscitivo, la semplice ragione. L’errore della borghesia è di identificare l’intelligenza con la ragione, mentre essa è qualcosa di più.

Ebbene, noi viviamo in un’epoca scientifica; è la scienza oggi che domina nella cultura; si dovrebbe concluderne che viviamo in un’epoca religiosa…
No, perché oggi trionfa l’applicazione della scienza, cioè la tecnica, non la scienza. Il razionalismo borghese, che vede solo l’utilizzazione pratica delle cose, non ha nulla a che vedere con il vero spirito scientifico.

Ho capito. Per te ragione è l’utilizzazione pratica delle scoperte fatte dall’intelligenza, sia religiosa, sia scientifica.
Sì, l’intelligenza come poesia, saggezza, fantasia, intuito, è la capacità di capire. La ragione la limita, perché esclude tutto ciò che non si può capire rigettandolo nell’inconoscibile. Esclude per esempio l’inconscio. Nell’inconscio non vale il principio di non contraddizione che è il pilastro di ogni logica razionalistica, e quindi la ragione borghese rifiuta l’inconscio.

Veramente l’inconscio è proprio una scoperta della nostra civiltà che tu chiami borghese…
Appunto.  Appartiene a quella cultura irrazionalista che caratterizza il nostro tempo e che, come ti dicevo all’inizio, rappresenta il simbolico suicidio della borghesia…

Ogni classe al potere, tu dici, è necessariamente razionalista perché deve mettere ordine nel mondo dei fenomeni, e quindi fa violenza alle migliori capacità conoscitive dell’uomo. Io non mi illuderei molto su queste capacità, che fra l’altro avrebbero, dove esistono, mille possibilità di esprimersi. D’altra parte tu riesci a immaginare una società senza potere, e quindi senza razionalità?
Sì. Sono marxista proprio perché Marx diceva che la rivoluzione avrebbe portato al deperimento e alla scomparsa del potere così come viene concepito dalla società borghese. Il potere, insisto su questo punto, è orrendo: sia quando lo si detiene, sia quando lo si vuole conquistare. È sempre corruttore.

È una vecchia storia, credo ormai relegata dagli stessi marxisti nell’arsenale dei robivecchi. In Russia lo Stato non risulta che sia molto deperito. E in Cina… Chi ne sa nulla di come viene effettivamente esercitato il potere? Conosci comunque un esempio nella storia che si avvicini maggiormente a questo ideale di società che si autogoverna?
La polis greca.

La ‘polis’ era uno Stato. Piccolo ma sempre Stato; a volte tirannico, non sempre democratico.
Comunque permetteva che Socrate svolgesse il suo insegnamento. Comunque siamo andati fuori strada. Il punto fermo è quello che ho detto, quando mi chiedevi se fosse possibile definire la cultura del nostro tempo. È possibile: è l’irrazionalismo, che da un lato è contestazione, scandalo, violenza contro l’ordine, i codici, la società, la morale corrente, da Rimbaud a Ginsberg, tanto per intenderci; e dall’altro è autopunizione, vedi Hitler.

Bene ma con questa esplosione della cultura non vedo come vada a finire il background culturale di cui parli e che faceva dell’Italia una provincia. Per una tradizione borghese ottocentesca, eravamo periferia; ma per una cultura irrazionale non vedo più un centro e una periferia, e infatti letteratura e arte fioriscono un po’ dappertutto, ribollono in un unico calderone.
Già, ma è differente se un poeta o artista partecipa di questo irrazionalismo, di questa rivolta, se ti opponi a una grande società, o a una piccola. Nel primo caso potrai fare delle cose grandi, nel secondo delle cose piccole. Ginsberg si oppone a Johnson che è un gigante (perché rappresenta l’imperialismo americano) e quindi anche lui lo è. Da noi a che cosa serve polemizzare con la polizia locale?

Infatti, me lo sono sempre chiesto.
Prendi il caso della nuova sinistra americana, che io considero uno dei fenomeni culturali più importanti del nostro tempo. È un fenomeno interamente nuovo perché affronta una realtà nuova che lo obbliga a inventarsi un linguaggio rivoluzionario, fuori dalle formule. Ginsberg quando attacca l’America  come un poeta, un creatore, che esplora un mondo nuovo. Noi invece in Italia, e in Europa, abbiamo tutto già fatto. Dobbiamo ripeterci. C’è già pronto il linguaggio liberale-radical-marxista, da cui non si scappa. Si diventa per forza conformisti.

Ti contraddici. Prima parlavi di background culturale che fa grandi quelli che hanno la fortuna di possederlo. Ora vieni a dire che il background rivoluzionario in possesso della cultura europea ci indebolisce. Negli Stati Uniti sarebbero più liberi e più efficaci perché non hanno alle spalle lo storicismo sia liberale che marxista. Io sono d’accordo. Ma pensavo che tu partissi da una posizione opposta.
Voglio dire che quando un treno va a cento all’ora, tutti quelli che ci sono sopra vanno alla stessa velocità, anche se sono degli zoppi; se il treno come in Italia va a trenta, i passeggeri, per quanto facciano, non possono correre di più. Ma stiamo di nuovo allontanandoci dall’argomento. Hai cominciato col chiedermi che cosa è un capolavoro. Ebbene la mia risposta è questa: è un’opera piena di imperfezioni. Più grandi sono le imperfezioni e più grandi sono le cose perfette. Ecco il motivo per cui è così difficile riconoscerlo. Davanti a un capolavoro si è fuorviati dalle imperfezioni. Il lettore va dietro all’opera perfetta, si lascia affascinare dalla sua compiutezza. Ma le opere perfette, in questo senso, sono sempre minori. Aggiungi che i capolavori sono sempre ideologici e politici, e che devono pagare lo scotto all’ideologia con grigiori, sciatterie, banalità.

Dacci un esempio.
Per l’Ottocento è semplice. Dostoevskij. L’imperfezione in opere come Demoni o i Karamazov mi pare evidente.

D’accordo. Ma Tolstoi?
Anche lui. Il suo stile è sciatto, non poetico. Intendo dire rispetto ai canoni tradizionali della perfezione. Ma forse è meglio prendere un esempio dalla letteratura italiana. I Promessi sposi. È sicuramente un capolavoro, ed è pieno di imperfezioni. Ce n’è rispetto al codice narrativo come ad esempio l’episodio della monaca di Monza. Per un lettore superficiale, narrativamente, è un errore, perché costituisce un racconto nel racconto. Piglia poi il cardinale e l’Innominato. Sono figure orribili, degne di un technicolor americano. Il loro abbraccio, con le lacrime dell’Innominato che cadono sulla porpora del cardinale, è comico. Ma vicino a quell’abbraccio c’è l’episodio di don Abbondio che va su per il monte a cavalcioni del mulo, che è stupendo. Lucia è una figura sciocca…

Meno di quello che sembra, forse. 
Ma Renzo è splendido. La sua fuga da Milano è indimenticabile.

Qui sono d’accordo. Ma nel suo insieme cosa sono I Promessi sposi?
Un grande romanzo ideologico, non c’è dubbio.

Un grande romanzo ideologico del cattolicesimo?
No, questo non si può proprio dire. È un grande pasticcio ideologico, col cattolicesimo che si impasta col giansenismo. Parlo dell’ideologia dell’autore; la forza del libro è nella natura ideologica del Manzoni.

C’è una grande forza ideologica nel Manzoni?
Sì.

Ma un’ideologia contraddittoria come la sua non è di per se stessa debole?
No. L’ideologia di uno scrittore ammette le contraddizioni.

Chiamiamola allora visione personale del mondo, che ha uno scrittore.
D’accordo. I capolavori nascono sempre da una grande visione del mondo, una visione che vuole persuadere, cambiare le cose.

E qual è l’ultimo scrittore ideologico in Italia?
Montale, Gadda e la Morante.

E D’Annunzio?
No.

Eppure c’è un’ideologia, l’estetismo.
È un’ideologia mediocre.

Allora non conta la forza ideologica, ma la qualità dell’ideologia.
Sì, perché dentro deve esserci una forza morale, creduta fino in fondo; una coerenza al sistema dei valori insito nell’ideologia stessa.

Ma perché uno non potrebbe essere morale restando fedele fino in fondo all’estetismo?
Sì, ma allora dovrebbe avere alle spalle una grande società.

Perciò Wilde sì, D’Annunzio no.
Esatto. In D’Annunzio poi non mi piace la sua mancanza di abilità. Sembra un paradosso ma è così. D’Annunzio scrive come va va. A parte qualche poesia, come La pioggia nel pineto, c’è poca abilità. Una volta trovata la chiave, apriva tutte le porte. Scriveva come mangiar bruscolini. Non c’è mai resistenza della pagina. Nella sua apparente mancanza di sciattezza è sciatto.

D’accordo per Montale. Ma ora vorrei che tu mi parlassi dell’ideologia della Morante.
È tutta ideologia. Dentro ci sono Freud, Jung. Come schema i suoi personaggi somigliano ai santi nelle vite dei santi scritte da un prete. Ma dentro sono pieni di vita, di irruenza. Anche Moravia è tra i pochi scrittori ideologici che ci sono in Italia, Sono, tutti quelli che ho nominato, persone che non si riconoscono come italiani. Il loro tipo di cultura si è formato altrove, in un terreno franco, europeo. Dietro a nessuno di loro c’è una formazione tipica italiana.

Torno a dire che allora è l’ideale per uno scrittore nascere in Italia, perché può scegliersi, come uno del Senegal, la cultura che preferisce, dimenticandosi di quella del suo paese.
No, no, no: se nasci in un piccolo paese sei fregato. Conti solo se appartiene a una cultura egemone.

E la Russia dell’Ottocento? Non era un Paese egemone e viveva di cultura importata. Eppure…
In Russia la cultura importata dalla Francia ebbe una grande risonanza per la grandezza del Paese, mentre in Italia…

La Russia, dici, era un gran Paese; sì, come territorio.
Eh no. Si stava affacciando alla ribalta della storia. Era un Paese con un destino; vergine ma forte. Fra la Russia e l’Italia dell’Ottocento c’è la stessa differenza che esiste tra la campagna e una cittadina di provincia. La campagna è un terreno fertile, dove il seme germoglia; nelle viuzze ammuffite di una cittadina, tutto intristisce e si perde.

Ma noi ci stiamo dimenticando dell’argomento principale. Tu non scrivi più romanzi o racconti, perché?
Ho perso fiducia nel genere. Non ne sono più attratto. Io penso che uno scrittore debba essere sempre realistico, unito cioè alla realtà. Ebbene la realtà che prima m’interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiano rapidamente, non lo riconosco più. II sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva realtà storica, oggi sta diventando una finzione del Terzo mondo.

Bene. È molto più importante dunque, più reale, nel senso che ora vi riconosci una dimensione ideologica. E dunque?
Sì, ma me ne rendo conto solo come cittadino, non come scrittore.

Saresti nella condizione ideale per scrivere un capolavoro.
Teoricamente sì. Solo che nel frattempo sono diventato più saggio.

E credi che questo sia una limitazione?
Non bisogna essere saggi per scrivere dei capolavori.

Ti sei ‘imborghesito’?
Forse sì. Mi si è sviluppato un senso umoristico che prima non avevo e che è un tipico carattere della borghesia.

Perché poi solo della borghesia? E nell’antichità?
Parlo dell’epoca moderna, dall’Ariosto in poi. L’umorismo è un atteggiamento della classe al potere. Seguirmi: quali sono i caratteri dell’umorismo? Il senso di colpa e la riduttività. Ora il borghese si sente in colpa (perché detiene il potere) e tende a stare in ciabatte. È un uomo pratico. L’umorismo è un atteggiamento di difesa di chi ha una visione rimpicciolita, quotidiana, della vita.

Potrebbe essere, per te, un elemento nuovo. Una chance di più per scrivere un capolavoro, dato che come mi dici, esso non può essere che un’opera composta, contraddittoria.
Infatti. Solo che non riesco a immaginarlo nella direzione del romanzo.

E su quale strada allora?
In questo momento direi: quella del teatro. Ma nota bene: si tratta di una considerazione personale. Teoricamente il capolavoro può nascere dappertutto. Ma oggi io non mi sento né di scrivere romanzi né di scrivere poesie. Non scrivo poesie perché non ha destinatario. Non so più a chi mi rivolgermi. So che ci sono in Italia un diecimila persone che amano la poesia. Ma a loro mi rivolgo lo stesso, anche senza scrivere.

E chi è il naturale destinatario di un poeta?
Chi il poeta crede idealistico, donchisciottesco, quanto lui. Quando l’idealismo del poeta comincia a incrinarsi e così anche la fede nell’idealismo altrui, allora sente che non c’è più destinatario alla sua poesia.

E perché non il romanzo?
Per le ragioni che ti ho già dette, e poi perché la realtà italiana è in assestamento mentre il romanzo ha bisogno di stabilità. Altrimenti il raccontare diventa un arrancare faticoso dietro alle cose. Il teatro invece mi consente di fare nello stesso tempo poesia e romanzo. Poesia perché come sai scrivo le mie tragedie in versi, romanzo perché racconto una storia.

E il destinatario? Per le tragedie c’è?
Il destinatario è uno contro cui polemizzo, contro cui lotto. Il destinatario è il mio nemico, è la borghesia che va a teatro. È con questo spirito che ho scritto i miei quattro drammi: Monumento, che ha come personaggi principali Oreste e Pilade, simboli delle due rivoluzioni del nostro tempo (se vuoi la rivoluzione russa, che si assesta in un ordine borghese, e quella culturale in Cina); Bestia da stile, che ho scritto per lo Stabile di Torino e due altre cose che non hanno ancora titolo.

Teatro come un comizio, dunque?
Come vuoi. Chiamalo pure Comizio.

Pier Paolo Pasolini.Foto di Angelo Novi
Pier Paolo Pasolini.Foto di Angelo Novi