Pelosi: maggio 2005. I commenti di 4 collaboratori di “Pagine corsare”

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

“Pagine corsare” ha ospitato anche i commenti personali di alcuni  frequentatori e collaboratori del sito, che volevano rendere pubblica la propria riflessione sulla tormentata vicenda del delitto Pasolini, specie dopo le nuove  rivelazioni, clamorose solo all’apparenza, fornite in tv da Pino Pelosi nel maggio 2005. Qui di seguito i testi “a caldo” di  quattro autori, a vario titolo turbati: Roberto Chiesi, all’epoca curatore con Loris lepri dell’Archivio Pasolini di Bologna, Maurizio Fiorino, Emanuele Di Marco (laureato  con  la tesi  Squarci della città di Dio. I racconti romani dal ’50 al ’52 di Pier Paolo Pasolini), Piero Lucarelli. 

I. Le parole che ritornano
di Roberto Chiesi

Per Laura Betti, l’omicidio di Pasolini non era avvenuto in un passato remoto di quasi trent’anni prima, ma continuava ad appartenere sempre e inesorabilmente al presente. Ne parlava ancora pochi giorni prima di morire, nel luglio 2004, ma mai direttamente e sempre per allusioni, come se fosse un segreto aperto. Senza lamenti e senza compianti. Parlava dell’Idroscalo, lei che era chiusa in un ospedale, con la dignità del dolore di chi non si è mai pacificato, di chi non ha mai accettato.
Per molti che hanno letto i libri di Pasolini e visto i suoi film anni e anni dopo la morte, come per tanti suoi contemporanei, rimane semplicemente impossibile credere alla versione secondo cui, tra l’altro, un uomo forte e vigoroso corse per settanta metri, inseguito da un ragazzetto armato di un bastone friabile. Un ragazzetto che rimane completamente illeso e coi vestiti quasi immacolati mentre il corpo di Pasolini era diventato una cosa irriconoscibile. Ma è onestamente difficile respingere i dubbi che suscita la sicurezza con cui il cugino Nico Naldini e pochi altri intimi di Pasolini hanno fatto rientrare la sua morte in un tragico, spietato e ferale “incidente” della sua vita privata.
Il senso di quella morte è sospeso a quei due estremi: l’agguato (con tutte le sue possibili spiegazioni) o un’assurda, atrocemente inevitabile tragedia privata.
Ecco che le parole della “rivelazione” di questi giorni, provenienti da un reo confesso che non vuole più essere marchiato come tale e che rovescia completamente quanto ha giurato per trent’anni, aumentano l’ansia di arrivare ad una verità che ora viene probabilmente confusa alle nuove bugie, alle nuove speculazioni di uno sbandato, ex assassino, ex rapinatore, ex galeotto. Un’ansia che forse dovremo tenerci senza rimedio.
Forse si può anche non credere alle parole di Sergio Citti, alla storia che descrive, ma non penso si possa rimanere indifferenti alla sincerità della sua disperazione: la disperazione di un amico dello scrittore che non vuole morire senza avere tentato di definire la verità di quella morte rubata.
Qualunque idea si abbia sull’omicidio di Pasolini, non credo che si possa accettare di seppellire il suo assassinio sotto la frase di Giulio Andreotti che Naldini vorrebbe iscrivere sulla tomba del cugino: «se l’è cercata».
Quella frase discende dalla stessa scuola di pensiero che cercò di soffocare il Neorealismo sotto il controriformismo censorio dei “panni sporchi si lavano in famiglia”. Quelle parole sprezzanti e abiette nel voler giudicare lo strazio che ha subito un uomo come Pasolini – «se l’è cercata» – coincidono perfettamente con le parole che il presunto assassino ha ripetuto per trent’anni e con lui la massa del peggior giornalismo e del più infimo qualunquismo italiota. Emanano un vecchio fetore: il fetore di quel cinismo imbellettato di moralismo che Pasolini ha combattuto tutta la vita e che oggi possiamo riconoscere come uno dei lineamenti del degrado italiano.

Nb. Roberto Chiesi  ha scritto nel 2005  il brano sopra riportato a titolo personale e non in qualità di curatore – allora insieme a Loris Lepri – del Centro Studi/Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna). E’ studioso, critico cinematografico, giornalista. Collabora con diverse testate specializzate. 

Pino Pelosi durante la trasmissione di Franca Leosini (7 maggio 2005)
Pino Pelosi durante la trasmissione di Franca Leosini (7 maggio 2005)

II. L’ennesima bugia de «La Rana»?
di Maurizio Fiorino

Era troppo facile pensare che non avremmo più sentito parlare di Pier Paolo Pasolini, uno dei più lucidi e provocatori intellettuali che l’Italia del Novecento abbia mai avuto.
A trent’anni da quella notte tra l’uno e il due novembre, la sua morte rimane un caso che ha sparato dritto alle coscienze degli italiani: per il modo in cui il poeta è stato brutalmente assassinato, per il movente dell’omicidio, per l’assassino, un diciassettenne ragazzo di vita che sembrava appena uscito dalle pagine dei più bei romanzi pasoliniani.
Ma furono soprattutto le modalità processuali, sbrigative e confuse, a fare discutere l’opinione pubblica e i legali di Pasolini e dello stesso Pelosi: l’avvocato Nino Marazzita chiese la riapertura del caso citando come testimone-chiave Renzo Sansone, ex appuntato dei carabinieri che aveva condotto le indagini, che nel 1975 disse: «Pelosi non era solo. Con lui c’erano anche i fratelli Borsellino di Catania, furono loro stessi a dirmi che quella notte si trovavano lì». Ma il giovane Pelosi insistette: «No, ero solo quella notte. Sono dei bugiardi».
La giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, amica di Pier Paolo, dodici giorni dopo l’omicidio scrisse dalle colonne dell’”Europeo”: «Esiste un’altra versione della morte di Pasolini; una versione di cui probabilmente le forze di polizia sono già a conoscenza, ma di cui non parlano per poter condurre più comodamente le indagini». Un delitto politico, quello ipotizzato dalla Fallaci? Un omicidio a scopo sessuale? O, più semplicemente, una conseguenza di un raptus istintivo e violento di Pino Pelosi? Domande, queste,  alle quali nessuno ha mai saputo rispondere con certezza e sicurezza.
Trent’anni di silenzio, poi lo sfogo: «Io sono innocente. Non sono complice di nessuno». Pelosi tira in ballo tre persone, a lui sconosciute, che avevano un forte accento del sud. Tre persone che volevano dare «una lezione a Pasolini». L’ex ragazzo di vita, oggi quarantaseienne, capovolge completamente la versione che fornì trent’anni fa: «Pasolini mi ha detto di andare a mangiare una cosa e farci qualche toccatina. Avevo diciassette anni, ero totalmente immaturo. Mi avrebbe dato ventimila lire. Lui si è comportato normalmente, da persona civilissima, un perfetto gentiluomo».
Arrivati all’Idroscalo, dopo aver fatto benzina ad un rifornitore automatico, Pelosi ebbe un rapporto orale con Pasolini. Scende dalla macchina per poter urinare e qui il racconto cambia radicalmente rispetto al passato: dal buio della notte spuntano fuori tre uomini sui quarantacinque, quarantasei anni: uno aggredisce il ragazzo, gli altri due si occupano di Pasolini. Pelosi racconta di esser stato picchiato, minacciato da una persona «con la barba, coi capelli ricci che mi ha preso per il collo, mi diceva “fatti i cazzi tuoi”».
Pasolini è stato tirato fuori dalla macchina, hanno cominciato a picchiarlo in un modo che Pelosi definisce «inaudito». Il ragazzo cominciò a reagire, «per difendere il signor Pasolini. Questo poveraccio urlava, mentre loro lo massacravano». Racconta di aver preso una mazzata sul naso, di esser stato picchiato, preso per il collo. Sui tre uomini Pelosi non fornisce alcun dettaglio fisico, ricorda solamente che l’uomo che lo minacciò aveva la barba e i capelli ricci; racconta però che avevano un accento del Sud, calabrese o siciliano, e che, mentre davano «una lezione a Pasolini», insultavano il poeta dicendogli «sporco comunista», «fetuso», «arruso», «frocio».
Ma il racconto del delitto continua: «Lui non reagiva, lo stavano massacrando, urlava. Si aggrappava al tettuccio, non voleva uscire ma l’hanno letteralmente tirato fuori. Lo hanno picchiato selvaggiamente, finché rantolava».
Poi la morte, avvenuta a causa dello schiacciamento di Pasolini ad opera della macchina Alfa Romeo GT, guidata dal Pelosi che travolge il corpo ormai agonizzante, senza accorgersene.
Nonostante queste delucidazioni, sono ancora molti i punti oscuri dell’omicidio: Pino Pelosi dichiara di aver ricevuto minacce anche dopo quella notte, e dopo aver scontato i suoi anni di carcere, ma che i genitori sono sempre stati all’oscuro di queste minacce. Qualora Pelosi abbia ricevuto solo una volta quella minacce, e solo quella notte, com’è possibile che siano state sufficienti a garantire trent’anni di silenzio?
E l’anello? Non si dimentichi che l’anello di Pelosi fu rinvenuto a pochi passi dal cadavere di Pasolini, e che il cadavere di Pasolini fu trovato a settanta metri da dove la macchina era stata posteggiata, da dove i due si erano inizialmente appartati. A domanda, il Pelosi risponde lapidario: «Non ne so niente».
Rimane anche il fatto, assolutamente non trascurabile, che Pelosi quella notte stessa, appena arrivato in carcere, disse al compagno di cella: «Ho ucciso Pasolini»; poi, in seguito, disse e confermò che non sapeva chi fosse quell’uomo, cosa facesse, sapeva solamente che alla trattoria in cui mangiarono poche ore prima del drammatico omicidio Pasolini era un cliente abituale, e che lì lo chiamarono Paolo.
Non ultimo il fatto che Pelosi oggi è solo, senza famiglia, senza lavoro e che quella immaturità, che aveva influito tantissimo sul processo e sulla condanna, sembra tornare oggi nelle parole del ragazzo di vita ormai quarantaseienne.
Inoltre, Pino Pelosi dichiara che quella notte fu bastonato, di aver preso una mazzata sul naso, di essere stato picchiato, preso per il collo. Ma, al momento dell’arresto, i suoi vestiti non avevano nessuna traccia di sangue, i suoi capelli erano ordinati, il suo aspetto pulito, aveva soltanto un piccolo taglio in fronte che si rivelò poi la conseguenza di una brusca frenata in macchina, quando fu inseguito dalla polizia sul lungomare di Ostia.
E se questa dichiarazione, a trent’anni dalla morte di Pasolini, fosse soltanto un modo per attirare a sé un po’ di attenzione? Non è una ipotesi da scartare: Pelosi vuole campare di “rendita”, di una rendita un po’ particolare, visto che si tratta di un omicidio; Pelosi, per lavoro, vuole fare “colui che sa della morte di Pasolini”.
La mia tesi è sostenuta in primo luogo dal fatto che Pelosi ha continuamente cambiato i fatti con piccolissimi e a volte insignificanti particolari, in modo tale che le luci dei riflettori non si spegnessero mai su di lui. In secondo luogo, fatto non marginale ma anzi significativo, il fatto che Pino Pelosi scrisse nel 1995 un libro, Io, angelo nero, pubblicato da Sinnos Editore. Il libro racconta com’erano andate realmente le cose: come ci rivela la prefazione, fu commissionato da un grosso editore, ma poi il progetto non andò in porto, forse perché il libro aveva deluso le aspettative. In effetti, leggendolo, rimane profondamente deluso chi si aspetti una qualche scottante rivelazione: Pelosi fa un copia-incolla della sua deposizione del ’75, non smuove una virgola dalla sua tesi, non cambia niente. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché pubblicare quel libro se non per continuare a far discutere di sé? Se non per campare di quella “rendita”, se non per non permettere di spegnere quella luce della ribalta? Senza di essa, Pelosi sarebbe tornato, tornerebbe tutt’oggi, il quarantaseienne ancora immaturo senza famiglia, senza genitori, senza lavoro.
Sembra ossessionato, il Pelosi, da quei quindici minuti di popolarità che teorizzò Andy Warhol: i quindici minuti si sono però duplicati, triplicati, quadruplicati sino a diventare un’ora di celebrità che va avanti da trent’anni. Sul fatto della maturità inoltre, è lo stesso Pelosi a confermare la mia tesi: «Ero immaturo, non che adesso sia maturo. Non si è mai maturi».
La nuova tesi di Pelosi non sposta di un millimetro l’opinione che si fecero di lui i legali di Pasolini, gli intellettuali amici del poeta e regista, le persone di buon senso che non riuscivano a credere, non potevano farlo, che un tale massacro fosse stato opera di un diciassettenne.
Risultano invece preziose le nuove rivelazioni di Sergio Citti, fraterno amico di Pasolini:  «Erano in cinque, Pasolini fu giustiziato: quella sera doveva incontrare chi aveva rubato le pellicole di Salò o le 120 giornate di Sodoma». Citti sostiene che Pelosi era un’esca: «C’entra perché avevano bisogno di un’esca per Pier Paolo e lo sapeva tutta Italia che a Pier Paolo piacevano i ragazzetti». E ancora: «Pelosi, con Pier Paolo, aveva una sorta di appuntamento. Era lui che doveva condurlo ad Acilia… e, siccome volevano essere sicuri che Pier Paolo ci arrivasse davvero ad Acilia, scelsero un ragazzo di vita minorenne, un tipetto come piacevano a Pier Paolo, riccio, moro, muscoloso».
Citti sostiene che Pasolini gli disse, poche sere prima di morire, che aveva trovato un contatto per riavere le pellicole del film, che aveva un appuntamento ad Acilia, la sera del primo novembre. Ovviamente, secondo Citti, il ricatto delle pellicole del film Salò o le 120 giornate di Sodoma era solo una scusa. Il poeta fu condotto a Ostia, e lì ci fu il massacro: «Picchiarono per uccidere, professionisti».
Trent’anni sono passati, e trent’anni probabilmente passeranno ancora: riusciremo ad avere la verità sul massacro di Pasolini? Appuntamento alle prossime rivelazioni di questa telenovela: al quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, cosa si inventerà l’ancora immaturo cinquantaseienne Pino “la Rana”?

Pino Pelosi in un sopralluogo all'Idroscalo di Ostia (1976)
Pino Pelosi in un sopralluogo all’Idroscalo di Ostia (1976)

Una brutta storia
III. Riflessioni balorde su una serata di verità balorde 
di Emanuele Di Marco 
7 maggio 2005

Dopo trent’anni Pino, bontà sua, ha deciso di parlare, di dirci quello che già sappiamo. Già so tutto, ma aspetto il momento con i crampi allo stomaco e pian piano l’attesa diventa orgasmo, diventa insopportabile.

Una brutta sigla.
Poi la donna parla,
dice cose belle
ma un po’ scontate.
Sbrigati! arriva al dunque,
fallo parlare quel poveraccio,
fagli raccontare quello che,
ignobile com’è,
ha avuto l’orrendo privilegio di vedere:
il massacro di un Poeta.

No, bisogna attendere. Rivedo, rivediamo tutti, con un groppo duro da inghiottire in gola, la storia di quella sera, le immagini, Dio mio, del suo corpo.

Sì, ti avevo già visto morto
nelle foto turpemente rubate
in un vecchio numero dell’”Espresso”.
Ma adesso il dolore si rinnova,
è più chiaro, più lucido
e per questo più lacerante.
A video passano scritte che avvertono: “Attenti,
state per vedere la morte”.
Ma non è proprio così:
quello che passa davanti ai miei occhi,
non è semplicemente la morte, una morte,
ma La Morte in persona,
la quintessenza del martirio
e della barbarie.

Sono scosso. Altri parlano. Il buon Marazzita e il mite Calvi. Un po’ ascolto e un po’ no. Infine eccolo “Pelosino”, ancora con la sua faccia da ragazzetto: non una ruga, non un dolore vero in una vita, che lui professa invece sommamente ingiusta. Comincia a parlare.

“Non ero io”,
dici, trent’anni dopo;
ti vergogni a raccontare
che tu, uomo già allora,
eri stato con un “frocio”.
Ma non ti vergogni di mentire ancora,
di piagnucolare “volevo aiutarlo”,
“sono quasi un eroe”.
Di dieci parole che escono dalla tua bocca,
due sono vere,
le altre patetiche falsità.
“Avevo paura”
“Non li ho mai più visti”.
“Sono andato a vedere e mi è caduto l’anello”.
“Era notte e gli sono passato sopra senza volere,
avevo diciassette anni”.
“In cella ho detto che l’avevo ammazzato io, perché …
perché l’ho detto”.
E altre mille bugie.
Ripetute con la stessa ostinazione,
con la stessa cocciuta convinzione
con cui hai mentito sempre;
la tua sicurezza nel barare
è la stessa di trent’anni fa,
di venti anni fa,
di cinque anni fa,
di ieri.

Pelosi, Pino, Rana o, maledetto, chi tu sei davvero, mi hai tolto, sì, un piccolo peso dal cuore. L’hai detto. Hai detto: «non l’ho ucciso io». E hai confermato quello che abbiamo sempre pensato; ma poi hai ricominciato subito, ladruncolo da quattro soldi, ad affermare la tua storia sconcia, non credibile neanche per la più sprovveduta delle educande.
Voglio la verità! Voglio la verità! Voglio la verità! Forse non servirebbe a niente sapere tutto per filo e per segno, forse non servirebbe. Ma tu, Pelosino, la sai la verità, e vogliamo saperla anche noi, e vuole saperla anche il povero Sergio Citti, che oggi, su tutti i giornali, dice la sua con l’ultimo filo di voce. Perché la verità, vedi, la conosco, la conosciamo, ma, in questo paese farsesco e fariseo, per una volta sarebbe bello sentirla la verità, sentirla tutta, e goderne per una volta sola il sapore.

La trasmissione finisce:
la sigla rompe, forse per sempre,
quell’esile filo di speranza
che giustizia potesse essere fatta.
Sono sconcertato, stralunato:
sì, un po’ stupito
che la Rana abbia parlato,
ma anche profondamente ferito
dalla delusione:
la delusione di chi sa
di essere stato, un’altra volta, preso in giro,
truffato;
lo sconforto di chi sa bene
che questa mezza vittoria
non porta che all’ennesima, intera, sconfitta.

Decido di passare il resto della notte bevendo e pensando: decido che domani comprerò tutti i giornali per vedere che si dice, che si pensa, che eco hanno avuto queste mezze verità sull’opinione pubblica, se sia possibile riaprire il processo. Poi, intronato di sonno, vino, stanchezza e dolore, me ne vado a letto: e penso che, forse, il giornale non lo prenderò nemmeno, che all’opinione pubblica, in realtà, non gliene frega niente di quale sia la verità di quella notte, che tutti hanno altro a cui pensare: a Milan-Juve, al “nuovo governo”, o più semplicemente a quale cellulare da comprare domani che ci sono i saldi nei centri commerciali.

Caro,
amato Pier Paolo,
ecco cosa rimane
di questa serata strana,
piena di speranze deluse:
proprio la speranza.
La speranza
che non tutto vada come deve andare
che, infine, ci sia una sorpresa
che, inaspettatamente, qualche vecchia coscienza si smuova.
Ma, per questa notte,
di nuovo muori,
e, di nuovo,
anche questo ti nuoce.

Pino Pelosi durante un sopralluogo all'Idroscalo di Ostia (1976)
Pino Pelosi durante un sopralluogo all’Idroscalo di Ostia (1976)

Sono perplesso…
di Piero Lucarelli
10 maggio 2005

Sono perplesso, fino all’altro giorno chissà cosa avrei dato per sapere come erano andate le cose a Ostia lido quella sera. Ma ora, dopo le “nuove” rivelazioni di Pelosi in tv, non sono tanto convinto che sia meglio andare avanti, che con questi presupposti si possa concretamente sperare di raggiungere la verità sui fatti del ’75.
Inoltre al momento non è dato sapere cosa pensino i parenti di Pasolini, se riaprire una ferita rimarginata con sofferenza o se invocare la pubblica pietas sul corpo del poeta, data l’esigua probabilità di risoluzione del delitto.
In effetti nell’ultima apparizione, il “Rana”, invitato su Raitre dalla Leosini, scandalosamente non dice nulla di nuovo. Non erano soli quella sera? Lo sapevamo già. Lo si deduceva fin troppo facilmente dalle condizioni della scena criminale e dal cadavere.
Pasolini non provò a violentarlo? Non occorreva certo Pelosi per affibbiare a Pasolini la palma di uomo mite. E per riallacciarmi a Siciliano su “Repubblica”, sapevamo anche che era stato appellato “fetuso comunista”.
Poco di nuovo arriva quindi da questa puntata di Ombre sul giallo. Fatta salva la passione civile della conduttrice e l’autorevolezza degli altri due ospiti in studio, è l’intera operazione televisiva che mi lascia scettico.
Mandare in etere le immagini del cadavere stride non poco con i film di Pasolini che dopo tutti questi anni e alle 4 di notte continuano a passare completamente sforbiciati e censurati anche delle più banali allusioni erotiche (andate a rivedere Il fiore della Mille e una notte trasmesso lo scorso anno…). Qualcuno mi spieghi come mai queste discrasie editoriali, e calmi il mio senso paranoico di opportunismo.
Ridare il megafono televisivo in mano a Pelosi è la cosa che più infastidisce, tanto più per il nulla detto. Anzi ha fatto capire che cercò di difendere il regista durante il pestaggio … Va a finire che lo dovremo ringraziare per il suo gesto!
Che poi il Pelosi continui a non dire il vero o per lo meno sia in cattiva fede lo dimostra anche il fatto che adduca alla morte dei suoi genitori il decadimento della sua ricattabilità. Vista la sua recente paternità, c’è da chiedersi legittimamente se non sia ricattabile o se non sia a corto di liquidi ora più che mai. Mi domando se la Leosini sia a conoscenza di ciò.
Un merito e non da poco, però, la trasmissione di Raitre lo ha avuto: scuotere dal torpore Sergio Citti.
Citti la sa lunga, ha sempre affermato di sapere molto, ne sono testimonianza anche alcuni articoli pubblicati nel passato, ma non ha mai aperto bocca. Il perché di questo lungo silenzio rimane esso stesso un mistero. La speranza è che dopo questa improvvisa esplosione non torni nel suo silenzio.
Indagine riaperta quindi, e ipotetica possibilità di giungere a nuove conclusioni, ma a questo punto siamo sicuri che non rimanga che attendere l’esito di questa nuova indagine? I rischi di questo polverone sono molti, anzi, pochi e sempre i soliti!
Quello che temo di più è il modellino plastico del campetto di Ostia lido nel prossimo “Porta a Porta” di Vespa. Seguendo il filone Cogne e il più “recente” delitto del Circeo, non basteranno le foto già note, in un vortice sempre più avido di sensazionalismo.
E non consola troppo scoprire su internet come questo rimescolamento spinga centinaia di giovani, ignari finora dell’esistenza di Pasolini (grazie Moratti!) a conoscere lo scrittore non entrando dal portone della poesia, ma sbirciando morbosamente dagli scarichi dei sanitari.
Un altro rischio, essendo evidenti gli schieramenti ideologici in ballo (ma anche qui ci sarebbe da ricordare che il PCI di allora “scaricò” Pasolini e il suo omicidio per non lasciarsi confondere con i “frosci”), è ritrovarsi, nel caso un giorno le indagini realmente concludano qualcosa, nell’arida polemica della giustizia politicizzata. Stando alle dichiarazioni di Citti, potrebbe non essere una sorpresa scoprire retroscena, come dire, “deviati”.
Il problema è più radicale: l’œouvre pasoliniana per sua natura non è adatta, se non è perfino antitetica, all’odierno contesto socioculturale e mediatico generale, un’intrattabilità che tragicamente collima anche con la sua “morte violenta”. Impossibile chiamare in causa Pasolini oggi e non trovarsi quasi automaticamente spiazzati. Si pensi solo che proprio in uno dei suoi ultimi articoli sul “Corriere” propose l’abolizione della televisione per combattere il dilagare della cultura criminale.
Lungi da me l’idea di doversi arrendere a questa complessità, ma l’Italia purtroppo comincia ad avere un’invidiabile collezione di buchi neri nella sua memoria: penso a fatti come la strage di Piazza Fontana che proprio in questi giorni vede la sua beffa conclusiva; a un Sofri in carcere e ad un omicida del Circeo in circolazione.
Penso anche all’invidiabile raccolta di oggetti materiali che stiamo organizzando a Pratica di Mare. Forse che assieme al DC9 Itavia ed alla Toyota di Calipari dopo tanto tempo ci sia ancora posto per l’Alfa GT di Pasolini?
Sono pessimista? Forse un po’, vi prego datemi un aiutino…

Ps: Sono sinceramente dispiaciuto per un’altra vittima di Pelosi, la Maraini, che nel ‘95 nella postfazione di Io, Angelo Nero (autore Pelosi, Sinnos editrice, Roma) avallò forse un po’ “affrettatamente” l’ipotesi del Pelosi come unico colpevole.

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