L’iter del processo a Pino Pelosi per il delitto PPP. I documenti (1976-1979)

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

“Pagine corsare” ha seguito con attenzione le vicende processuali legate al delitto Pasolini e alla condanna di Pino Pelosi, reo confesso dapprima giudicato colpevole “in concorso con ignoti” e in seguito valutato unico responsabile. Qui di seguito alcuni importanti documenti relativi a questo tormentato procedimento penale, tra il 1976 e il 1979 : l’arringa dell’avvocato di parte civile Guido Calvi, pronunciata il 24 aprile 1976; la sentenza del processo di Primo grado (26 aprile 1976); la sentenza della Corte nel processo d’Appello (4 dicembre 1976); la sentenza della Corte di Cassazione (26 aprile 1979)

Il processo a Pino Pelosi
per l’assassinio
 di Pier Paolo Pasolini

I. L’arringa  dell’avvocato Guido Calvi
24 aprile 1976

[1. La parte civile ritira la sua costituzione]
Le ragioni che inducono la parte civile a ritirare la sua costituzione possono trovare spiegazioni solo ricordando le motivazioni che determinarono inizialmente la scelta di essere partecipi di questo procedimento penale. Certamente più semplice, e anche sostenuta da valide e comprensibili argomentazioni, sarebbe stata la scelta di astenersi dalla costituzione di parte civile. La vita e l’opera di Pasolini sono state arrestate tragicamente e la loro perdita, per i familiari, per gli amici, per il mondo della cultura, non poteva in alcun modo trovare compensi. Né tanto meno poteva esservi proporzione o semplice rapporto tra il dolore e lo sgomento provati e la ricerca di una rivalsa, sia pure processuale, nei confronti di un assassino, così miserevole e abietto nella sua sordida insania. Solamente chi non l’ha mai voluto o potuto conoscere, chi ha odiato lui e la sua cultura, chi lo ha stimato con invidia malcelata, chi ha sperato da sempre che per sempre la sua voce fosse chiusa nel silenzio, ha potuto ricordare e giudicare Pasolini esclusivamente alla luce degli ultimi e drammatici istanti della sua esistenza. Era, dunque, semplice rifiutare quegli ultimi istanti e il giudizio che su essi sarebbe stato espresso. Ma così non è stato. Si è voluto invece essere presenti così come Pasolini avrebbe deciso: «Ho sempre pagato, sono andato disperatamente in fondo a tutto. Ho fatto molti errori, ma certo non ho rimpianti». E ciò perché, scriveva in una poesia del 1969, «Della nostra vita sono insaziabile / perché una cosa unica al mondo non può mai essere esaurita».
Senza acrimonia o iattanza, ma con l’umiltà della coscienza che solo Pasolini avrebbe potuto difendere o spiegare appieno se stesso, la parte civile ha scelto di collaborare con la giustizia, solamente perché la verità, o almeno quella parte di verità, della sua morte, non fosse ancora una volta travolta e mistificata dal risentimento e dalla incomprensione.
Abbiamo voluto offrire a voi giudici e alla opinione pubblica i nostri dubbi e le nostre certezze circa quanto accadde la notte del 2 novembre. Abbiamo voluto provare la volontarietà dell’omicidio ed esporre le ragioni che ci inducono a ritenere che Giuseppe Pelosi non fosse solo e che gli elementi obiettivi raccolti in istruttoria possono essere compiutamente valutati solo in presenza di una pluralità di esecutori.
In tutto ciò l’attenzione, la serenità, l’obiettività e l’intelligenza di tutto il Tribunale, a cominciare dal suo Presidente, ci sono stati di conforto e di aiuto. Riteniamo che, per ora, il nostro compito sia terminato.
Vogliamo che Pelosi sia condannato, ma non spetta più a noi chiedere come e in quale misura la pena sia concretata. Abbiamo fatto tutto ciò che ci è stato possibile per dimostrare la responsabilità dell’imputato e dei suoi complici. Tuttavia la pena che sarà irrogata ci è estranea e la sua valutazione preclusa, poiché Pelosi “è” di questo processo, “è” di questo Tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché “è” di un’altra realtà. L’unica e ultima richiesta che resta è dettata dalla insoddisfazione per la parzialità della verità accertata.
Il Tribunale decide ora su quanto è stato portato a sua conoscenza. Restano i complici ancora ignoti. E questi appartengono a un capitolo del processo che altri giudici dovranno riaprire e continuare.
Non possiamo ritirare la costituzione di parte civile senza aver dato prima una valutazione, sia pur sintetica, sui punti del processo che reputiamo fondamentali. Tale scelta infatti è legata al momento formale della costituzione stessa, considerando quanto eccezionale e dolorosa sia stata la riflessione giudiziaria sulla morte di Pasolini.
In altre parole, come abbiamo già scritto, il ritiro della parte civile non attiene all’accertamento delle responsabilità penali del Pelosi, anzi esso avviene proprio perché tale accertamento, a nostro parere, è stato acclarato in modo inequivoco, ed è posto in essere sulla soglia della irrogazione della pena e della richiesta del risarcimento. Di qui la necessità, in questa sede, di puntualizzare il nostro convincimento sui temi della maturità dell’imputato e delle modalità del delitto.
Uno dei momenti centrali in questo processo è, senz’altro dubbio, l’analisi circa la “maturità” dell’imputato. Su questo tema giuristi, psicologi, intellettuali anche stranieri, si sono impegnati pubblicamente in riflessioni che, non sempre, hanno offerto contributi positivi a una chiara impostazione del quesito che in sede processuale è stato posto. In ogni caso, crediamo debba essere premesso che l’art. 98 C.p., pur inserito in un quadro normativo notoriamente autoritario e conservatore, rappresenta un segno di sicura e alta civiltà giuridica. Non si dimentichi, infatti, che in altri Paesi il minorenne può essere punito financo con la pena di morte mediante ghigliottina. Ciò detto, riteniamo che il problema debba essere riproposto e valutato sulla base dei criteri interpretativi propri ed esclusivi dello specifico ambito nel quale il concetto di incapacità d’intendere e di volere è posto, e cioè sul terreno giuridico.
L’art. 85 C.p., dopo aver ribadito e ampliato il principio di stretta legalità secondo cui «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile», dichiara: «è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere». L’art. 98 C.p., poi, afferma che il minore degli anni 18 è imputabile se nel momento in cui ha commesso il fatto «aveva capacità di intendere e di volere».
Il quesito al quale il Tribunale deve rispondere è questo. E questo è anche l’ambito entro il quale i periti possono e debbono operare nel coadiuvare l’attività dei giudici. […]

[2. La personalità di Pino Pelosi]
Pelosi è imputabile? È capace di intendere e di volere? È maturo? La risposta, come abbiamo visto, non può essere data intendendo per “oggetto concreto” l’imputato, bensì il rapporto tra imputato, il suo sviluppo psichico e il fatto criminoso.
Non vi è dubbio che, anche a una osservazione superficiale, il Pelosi appaia un soggetto con gravi carenze intellettive e terribili lacune etico-sociali, ma la sua maturità, dal punto di vista giuridico, va valutata in relazione alla comprensione dell’atto criminoso e posta nel momento in cui uccise Pier Paolo Pasolini. Dunque, la vera e definitiva questione è se Pelosi, allorquando uccise Pasolini, era in grado di rappresentarsi gli effetti della propria azione e di darne comunque, e sia pure in modo informe e primitivo, un giudizio etico-sociale.
Ebbene la risposta non può darsi senza avere presente la ricostruzione. la dinamica e le modalità del delitto. Se fossimo stati di fronte a una azione improvvisa, repentina e quasi inconsulta, ben diverse sarebbero l’analisi e le conclusioni cui perverremmo. In realtà, l’istruttoria ha fornito elementi per escludere una simile ricostruzione degli avvenimenti, ed è proprio ciò che rende più complesso e assai difficile l’accertamento della capacità del Pelosi.
A nostro avviso, la volontarietà dell’omicidio è stata ampiamente dimostrata, e a sostegno di ciò sono soprattutto le perizie medico-legali, le osservazioni del nostro consulente prof. Faustino Durante, e le stesse incerte e lacunose dichiarazioni del Pelosi. Di ciò tratteremo in altra parte delle nostre conclusioni, ma qui osserviamo che, se quella notte del 2 novembre Pasolini fu colpito in prossimità della sua auto, se disperato fuggì sanguinante per oltre 70 metri, se fu inseguito e raggiunto, se qui fu di nuovo colpito, se Pelosi tornò indietro, salì sull’auto, ripartì, deviò ampiamente sulla sua sinistra, passò sul corpo martoriato con ambedue le ruote, ebbene tutto ciò non solo prova la volontarietà dell’esecuzione ma sottolinea, nella dilatazione dello spazio temporale, pervicace e reiterata volontà omicida che non poteva essere priva della coscienza di quanto stava accadendo e della intelligenza della reale situazione che stava ponendo in essere.
Pelosi aveva dunque la capacità di rappresentarsi gli effetti delle sue azioni? A nostro avviso sicuramente sì. Ma Pelosi aveva anche la capacità di esprimere un giudizio etico e sociale su quanto stava commettendo? Qui il discorso è più complesso. Il nostro consulente prof. Luigi Cancrini ha espresso con chiarezza qual è il nostro punto di vista e ad esso ci riportiamo.
Il Pelosi come tutti è soggetto ad una scala di valori che l’ambito sociale nel quale egli vive forma, e che la sua famiglia media criticamente. Ed è solamente in relazione a un tale complesso inscindibile, individuo-famiglia-società, che è possibile esprimere un giudizio di maturità.
Si tratta, insomma, di «riflettere sulla possibilità di considerare “maturo” un individuo e un gruppo che mettono in opera, nel corso dei colloqui diagnostici, comportamenti complessivi di questo tipo e di questo livello: l’indifferenza al problema proposto dalla sorte di un uomo, la preoccupazione centrata sul giudizio della gente (i giornali che hanno parlato di Pino dicendo che era “soprannominato” Rana e lui invece non rassomiglia per niente a una rana, la “famiglia esemplare” rovinata da “quello lì”), sono l’espressione evidente di una difficoltà grave, comune a tutto il gruppo famigliare, ad affrontare con la serenità e il realismo propri di un comportamento maturo i fatti di cui si sta qui discutendo. E ciò anche se è possibile ritrovare, per ognuno di essi, spiegazioni anche convincenti all’interno di un certo contesto socio-culturale e all’interno di quella che deve, comunque, essere considerata come la reazione a un momento di gravissima tensione del gruppo familiare considerato nel suo complesso».
È questo un punto assai importante «perché sarebbe impossibile giudicare il grado di maturità del Pelosi se non lo si valutasse all’interno del contesto famigliare in cui egli è cresciuto e di cui, tuttora, egli subisce gli influssi. Ben note sono infatti a tutti i moderni studiosi dell’antisocialità giovanile le connessioni esistenti fra il comportamento con cui quest’ultimo si manifesta fuori della famiglia e all’interno di questa, e l’atteggiamento fortemente contraddittorio nei confronti dei valori e degli orientamenti generali del gruppo sociale più vasto. Ben noto è, cioè, il fatto per cui il comportamento “antisociale” del figlio viene a essere regolarmente appoggiato, anche se in modo abitualmente del tutto inconsapevole, da una serie di comportamenti complessivi di un gruppo famigliare che vive ed esprime al livello del figlio una complessiva situazione di difficoltà nei confronti dell’ambiente sociale più vasto».
Non è semplice esprimere un giudizio sui comportamenti complessivi del Pelosi e della sua famiglia inquadrati all’interno di quello che è l’attuale livello di maturità della coscienza civile del Paese. Quali che siano le ragioni di questa arretratezza, in ogni caso, essa va tenuta presente «soprattutto se si tiene conto del fatto che le circostanze storiche e sociali in cui questo gruppo ha sviluppato il suo particolare tipo di orientamento e di valori costituiscono di fatto l’unica occasione offerta finora al Pelosi per progettare se stesso come individuo e come cittadino».
Non è sufficiente, quindi, proporre l’idea «per cui alla famiglia Pelosi, cioè quella particolare famiglia incarnata da quel padre e da quella madre, possa essere guardata come la causa di un comportamento inadeguato del ragazzo». In nessun caso, infatti, la famiglia può essere considerata come sistema “chiuso”: «essa subisce infatti il condizionamento dell’ambiente alle cui esigenze deve continuamente adattarsi. La dipendenza sociale ed economica e la difficoltà di confrontare i propri sistemi di riferimento culturali con quelli dominanti all’esterno sono le cause più comuni di tensione tra la famiglia e l’ambiente. Specchio di contraddizioni che crescono fuori di lei, la famiglia ripropone nel conflitto tra padre e madre, tra genitori e figli, tutti i conflitti propri della gestione autoritaria del potere e le difficoltà legate alla mancata realizzazione dei suoi membri. È per questo motivo che le difficoltà di ordine psicologico e le manifestazioni di disadattamento non si distribuiscono a caso nella popolazione: le classi sfruttate sono sempre più colpite di quelle al potere. Famiglie spezzate, alcolismo, tossicomanie e manifestazioni diverse del disadattamento giovanile possono essere studiate proprio in questo senso come conseguenza delle pressioni di ordine socio-culturale sopportate da zone della popolazione mantenute in condizioni abituali di inferiorità. Osservata da questo punto di vista la famiglia può essere considerata come un sistema di trasmissione delle pressioni esercitate sull’individuo dall’ambiente sociale più vasto. Di questo essa infatti non trasmette solo i valori ma anche le contraddizioni, il disagio e la follia. È possibile dunque, al termine di tali considerazioni, guardare alla famiglia del Pelosi come al veicolo passivo e acritico di un pregiudizio diffuso nel più vasto ambiente sociale, un pregiudizio che tende a connotare in termini dispregiativi il “diverso” e a veicolare nei suoi confronti tutto il rancore, l’odio e la incapacità di rappresentarsi obiettivi reali di critica e di protesta».
La conclusione alla quale, sulla base delle considerazioni elaborate dal nostro consulente, perveniamo, è che «l’immaturità e il comportamento antisociale in cui esse si esprimono devono essere guardate come il risultato di un processo che coinvolge l’ambiente in cui il ragazzo è cresciuto e la complessiva immaturità delle strutture che ne hanno influenzato lo sviluppo e che non hanno potuto occuparsi altrimenti di lui. Perché nessuno si è preoccupato del fatto che il minore abbandonasse la scuola? Perché nessuno è intervenuto nel momento in cui egli accettava di prostituirsi? Che diritto si ha oggi di chiedergli conto di un singolo gesto che costituisce il tragico epilogo di una storia possibile solo all’interno di una società che pretende di essere matura lasciando che i ragazzi come Pelosi affoghino nella apatia e nella indifferenza delle sue istituzioni?»
Ecco le domande dalle quali noi ci siamo mossi e di fronte alle quali, in questa sede, ci fermiamo perché esse ci avviano verso spazi che non sono più patrimonio esclusivo del diritto. Ecco anche, però, il nodo che occorre sciogliere e che noi, qui, abbiamo solo potuto prospettare e valutare nei termini più obiettivi e critici che ci è stato possibile.
Paradossalmente, sia pure partendo da così differenti assunti, siamo giunti alle medesime conclusioni dei periti d’ufficio. Pelosi è immaturo? Sì, ma solo se egualmente immature sono la società che lo ha prodotto, la famiglia che lo ha educato e i valori che queste gli hanno proposto.
Accertare la sua maturità sarebbe soltanto un alibi per assolvere i veri responsabili di un delitto atroce, rinnovato e rinnovabile. Sarebbe solamente un modo per dare ulteriore validazione a un processo sociale e culturale del quale Pelosi è, in fondo, anch’egli vittima inerme.

[3. Ricostruzione dell’assassinio]
L’istruttoria dibattimentale ha offerto con sufficiente chiarezza un quadro che consente ora una ricostruzione dei tragici fatti in termini assai credibili e vicini alla verità, pur se ci si mosse all’inizio delle indagini tra infinite difficoltà e incertezze.
È stata soprattutto la consulenza del prof. Durante che ha permesso una chiarificazione attraverso l’elaborazione logica e induttiva degli elementi non certo abbondanti che la situazione offriva.
È nostra profonda convinzione di essere riusciti a fornire al Tribunale elementi di giudizio sufficienti al fine di giungere alle conclusioni indicate circa la volontarietà dell’omicidio e la pluralità degli esecutori.
Qui desideriamo riassumere, sia pure sinteticamente e schematicamente, gli elementi che ci hanno condotto a tale convinzione e che nel corso dell’istruttoria dibattimentale hanno trovato ampio riscontro.
La volontarietà dell’omicidio emerge con assoluta certezza da tutti gli elementi di sopralluogo e dalle risultanze stesse della perizia d’ufficio, che possono essere così riassunti:

1. La reiterazione dei colpi inferti fin dalla prima fase, che è provata da:
1.1. La camicia inzuppata di sangue: sia che si tratti di sangue “scolato” dalle ferite e sia che provenga da tentativi di Pasolini di “tamponarsi” le ferite, è un chiaro segno che le ferite stesse non erano banali, e soprattutto che non si trattava di una sola lesione.
In particolare, la presenza di abbondante sangue sulle maniche avvalora l’ipotesi dei periti d’ufficio (scritta e ripetuta in aula) di una prima posizione di difesa del capo e di un probabile secondo tentativo di tamponamento dell’emorragia. In conclusione: i colpi debbono essere stati ripetuti. (Dai periti è stata negata, in aula, la possibilità di un imbrattamento nel movimento compiuto da Pasolini per togliersi la camicia: ciò in quanto essendo essa stata slacciata sul davanti non è passata sul capo.)
1.2. La presenza di capelli di Pasolini nel tragitto di fuga. Tale elemento indica la gravità delle lesioni oltreché il reiterare dei colpi durante la fuga, e prova inequivocabilmente che non era Pasolini a colpire Pelosi in fuga ma viceversa. Su questo elemento i periti in aula non hanno risposto con chiarezza avanzando addirittura la inaccettabile ipotesi del semplice strappamento di capelli a opera di “fissurazioni” del bastone. È già stato chiarito al Tribunale che la ciocca di capelli essendo stata rinvenuta a 8 metri di distanza dal cadavere (e cioè a circa 60 metri dal luogo ove fu inferto il colpo) non poteva essere in alcun modo attribuita a colpi inferti con la tavoletta “Buttinelli”, perché tale tavoletta ha agito soltanto laddove fu rinvenuto il corpo, ove appunto sono visibili, sulle fotografie in atti, tutte le schegge del legno.

2. La reiterazione dei colpi inferti nella seconda fase, che è provata da:
2.1. La presenza di sangue e di capelli di Pasolini su tutte e due le superfici larghe e sui margini della tavoletta “Buttinelli” strappata dal cancello avanti al quale fu rinvenuto il corpo di Pasolini.
2.2. La emorragia cerebrale dai periti non attribuita al sormontamento ma ai colpi inferti con mezzi contusivi prima del sormontamento.
2.3. Il calcio ai testicoli: è da precisare che si trattò di un così violento trauma da determinare una infiltrazione di sangue anche nei tessuti profondi come riportato nella perizia d’ufficio.

3. Il volontario sormontamento del corpo di Pasolini con le ruote dell’autovettura della stessa vittima, è provato da:
3.1. Lo spazio tra il corpo e la rete di recinzione situata sulla carreggiata destra opposta a quella ove fu rinvenuto il corpo era di circa 8 metri.
3.2. La distanza fra l’ultima buca e il corpo di Pasolini era di circa 8 metri.
3.3. I fari accesi: e quindi visibilità piena dello spazio antistante la vettura.
3.4. La velocità non eccessiva del veicolo: l’ing. Capuccini nella sua perizia d’ufficio dice che la velocità era «relativamente elevata e probabilmente superiore a quella normalmente tenuta da un veicolo in manovra». Quindi il “relativamente elevata” è veramente molto “relativo” perché se rapportata alla velocità di un veicolo in manovra essa sarà stata di 10-15 km/h. A ciò aggiungasi che sempre l’ing. Capuccini nella sua relazione parla di «lievi ammaccature nella zona inferiore sinistra… nonché nei condotti di scarico e nella parte anteriore e inferiore del primo silenziatore. Lievi tracce di strisciature si notano anche nella fiancata interna del secondo silenziatore nonché nella parte inferiore del serbatoio della benzina».
Se si tiene conto di due fatti, veicolo non nuovo e presenza di due grosse buche (evidentissime sulle fotografie in atti), si può concludere con assoluta certezza che nel passare sull’ultima buca (a 8 metri prima del corpo di Pasolini) la velocità doveva essere veramente bassa. Infatti, anzitutto alcune ammaccature possono essere state preesistenti (vettura vecchia), e in secondo luogo una velocità superiore ai 10-15 km/h avrebbe prodotto, a causa della buca, ben più gravi ammaccature. Ciò vale in modo particolare per il tubo di scappamento nella sua parte terminale, che al contrario non presentava nessuna alterazione.

Dai punti 3.1, 3.2, 3.3, 3.4 si deduce facilmente la seguente dinamica: il Pelosi, conducendo l’auto con fari accesi sulle due grosse buche a velocità molto bassa, esce dall’ultima buca e immediatamente si trova sulla destra una strada di 8 metri di larghezza e davanti all’auto uno spazio di 8 metri che lo separa dal corpo di Pasolini che giace assai vicino al bordo sinistro del bivio. È per il Pelosi facilissimo mantenere la primitiva direzione di marcia e, compiendo una lieve deviazione a destra sulla sua stessa strada, raggiungere la via asfaltata senza toccare né avvicinare il corpo di Pasolini.
È inoltre molto importante ricordare che tra le stesse buche e la rete di recinzione (sulla destra) esiste un largo spazio. Quindi addirittura fin dal momento in cui l’auto si trovava nella zona precedente la buca, Pelosi aveva direttamente puntato l’auto sul corpo di Pasolini (il tutto è comprovato e documentato sulle fotografie).

[4. La presenza di più aggressori]
La presenza di più aggressori è comprovata dai seguenti elementi:
1. Entità delle lesioni preesistenti al sormontamento.
1.1. La certezza sulla genesi contusiva di alcuni gravi complessi lesivi del capo. Su questo punto valgono le affermazioni scritte e i verbali dei periti d’ufficio, i quali hanno soffermato la loro attenzione sulla lesione ad “H” (non si dimentichi che si tratta di un complesso di lesioni che nel loro insieme occupano una zona con diametri di 6 e 4 cm!), e sulle tre grosse lesioni situate nella zona del parietale di sinistra. I periti hanno affermato che, in relazione ai due mezzi rinvenuti, le lesioni suddette vanno forse attribuite al margine della tavoletta “Buttinelli” e ciò per la resistenza di essa e per il suo peso. Essi non hanno comunque escluso la possibilità di altri mezzi produttori di queste lesioni. A questo proposito va ribadito il concetto già accennato in aula dal consulente di parte civile: la tesi dei periti potrebbe essere valida qualora si fosse certi che la produzione delle lesioni stesse sia avvenuta davanti al cancello dei Buttinelli (seconda fase dell’aggressione) quando fu adoperata la tavoletta. Ma se così fosse non si spiegherebbe più la provenienza dell’abbondante emorragia verificatasi nella prima fase dell’aggressione e deducibile dal rinvenimento della camicia abbondantemente impregnata di sangue, nonché la perdita di ciocche di capelli di Pasolini lungo il tragitto della sua fuga: momenti nei quali fu usato soltanto il “friabile” bastone che gli stessi periti non hanno con sicurezza dichiarato idoneo a produrre quelle lesioni.
Su questo punto si ricordino ancora due elementi: 1° la friabilità del bastone che si ruppe nel senso della lunghezza (lo ha ricordato ai periti lo stesso Tribunale, addirittura precisando loro che una delle due metà era appena sporca di sangue e che quindi il bastone doveva essersi rotto subito!): 2° la relativa scarsa robustezza della stessa tavoletta che si ruppe dopo il primo colpo (deposizione del Pelosi, testimonianza di Buttinelli).
1.2. Le lesioni fratturative delle falangi (due fratture e una lussazione): anche su questo elemento i periti di ufficio non hanno tratto tutte le conseguenze logiche che da esso deriverebbero. Tuttavia si può avanzare il ragionevole dubbio che siano presenti altre lesioni fratturative alle braccia che per una mancata indagine radiografica particolareggiata di tutti i segmenti ossei non potranno mai essere escluse. Per quanto attiene alle fratture delle falangi, va affermata con decisione la più che verosimile azione di corpi contundenti ben più consistenti e pesanti della tavoletta.
1.3. La impossibilità di individuare altre lesioni gravi non dovute al sormontamento, ma verosimiglianza di una loro presenza. Tutti sono d’accordo, compresi i periti d’ufficio e compreso il consulente della difesa, che è pressocché impossibile distinguere altre gravi lesioni non dovute al sormontamento. Orbene: la verosimile loro presenza si basa fondamentalmente sulla constatazione anatomopatologica di una emorragia cerebrale che con certezza non è stata prodotta dal sormontamento (cosi affermano gli stessi periti), ma che è molto poco attendibile riferire soltanto al colpo che produsse la lesione ad “H”. Per essere ancora più chiari: è un dato ormai inconfutabile che la lesione ad “H” è stata prodotta dalla tavoletta, ed è altrettanto indubbio che il grave sanguinamento durante la prima fase dell’aggressione debba essere attribuito a vaste lesioni del cuoio capelluto verificatesi per le lesioni al parietale sinistro. Se a questo punto si tiene presente un fatto sicuro, e cioè che Pasolini fuggì per 70-80 metri e che quindi non poteva essere già portatore di una emorragia cerebrale, come è possibile attribuire tale emorragia interna a uno o due colpi di tavoletta? Quindi in questo momento lesivo doveva esserci un altro mezzo ben più robusto della tavoletta.
In conclusione, i corpi contundenti non rinvenuti hanno agito sia nella prima fase (determinando vaste lesioni con diffusa emorragia provata dall’insanguinamento della camicia) e sia nella seconda fase (determinando una emorragia cerebrale certamente verificatasi non nella prima fase di aggressione, poiché Pasolini non avrebbe avuto possibilità di percorrere un tragitto di 70-80 metri, e altrettanto certamente non attribuibile all’azione della tavoletta “Buttinelli”).

2.La particolare vascolarizzazione arteriosa del cuoio capelluto. Tale constatazione è stata fatta dai periti anche in aula. Si ricordino alcuni elementi significativi: l’arteria temporale superficiale che decorre proprio sotto la cute ha un diametro di ben 3 mm. Quindi si è in presenza non di semplice “fuoriuscita” di sangue, bensì di “schizzi” e “zampilli” veri e propri.

3.La scarsissimo imbrattamento dei vestiti di Pelosi con sangue di Pasolini. I periti hanno rilevato:
1° la presenza di una macchia di imbibizione rossastra interessante il polsino sinistro della maglia a carne (una zona di 3×4 cm). Da rilevare che non è una macchia intensa ma una “sbavatura”, quindi o una primitiva piccola macchia lavata o una semplice striatura (chiarissima sulla fotografia in atti);
2° l’imbrattamento sulla parte terminale del pantalone di destra: si tratta solo di alcune macchie. Se per assurdo Pelosi si fosse lavato i vestiti, anche altre macchie sarebbero rimaste quantomeno sotto forma di striature e di sbavature;
3° la presenza di sangue sotto la suola di una delle scarpe di Pelosi. Tale elemento non contrasta con l’asserito scarso imbrattamento di sangue sul Pelosi per ovvie ragioni, essendo stato, egli, sicuramente in prossimità del cadavere di Pasolini.

4.L’assenza di lesioni sul corpo di Pelosi. Su questo elemento va sottolineato:
1° quanto i periti d’ufficio affermano circa la lesione alla fronte: «Il mezzo lesivo deve aver comunque esercitato la sua efficacia lesiva in ogni caso di modesta entità in senso trasversale»;
2° che i medici della Pubblica sicurezza di Ostia parlarono di ferita da taglio, il che contrasta con l’azione di un bastone mancandovi ecchimosi ed escoriazioni;
3° che la regione frontale fu vista dai periti dopo quattro giorni e anche essi non vi rilevarono infiltrazioni ematiche circostanti. La lesione alla fronte occorre riferirla più verosimilmente a un urto contro il volante (mezzo a strettissima superficie e situato in senso trasversale rispetto al guidatore) anche per un’altra osservazione: se Pelosi avesse avuto la lesione frontale prima della fuga in auto è assurdo ritenere che, data la nota vascolarizzazione del cuoio capelluto e dato il sobbalzare dell’auto per le buche e per la fuga velocissima sulla strada asfaltata nonché per l’arresto immediato contro il marciapiede, non vi fosse maggiore imbrattamento del suo stesso sangue sulle superfici anteriori dei suoi vestiti. Fu invece rinvenuta una macchiolina sul bordo della canottiera e qualche macchiolina contro la tappezzeria dell’auto, davanti al volante. Anche quest’ultima disposizione delle tracce ematiche fa ritenere molto più attendibile la produzione della lesione frontale per urto contro il volante.
Per quanto riguarda la frattura delle ossa nasali si può non avere alcuna difficoltà a ritenere verosimile quantomeno un pugno difensivo da parte di Pasolini. Comunque non è detto che la frattura sia con certezza riferibile a quella notte (lo hanno riferito gli stessi periti) ed essa inoltre bene si accorderebbe con il sicuro trauma cranio-facciale subito dal Pelosi al momento dell’arresto improvviso dell’auto contro il marciapiede. Ciò che è importante sottolineare è l’assenza assoluta su Pelosi di lesioni da afferramento come sono tipiche in una colluttazione a due (quantomeno una escoriazione o una contusione di un certo rilievo delle mani o delle braccia): tutto quello che lamentò il Pelosi nella visita a CasaI del Marmo i periti affermano che era soggettivo senza alcun riscontro obiettivo.

5.L’assenza di sangue di Pasolini all’interno della propria autovettura e sulla portiera di guida. Su questi elementi si può considerare l’opportunità di avanzare una nuova ipotesi mai prima accennata:
l’auto non è stata spostata da Pelosi ma da un altro aggressore che ha ideato e posto in essere il sormontamento del corpo di Pasolini; solo successivamente alla guida dell’auto si è messo il Pelosi. Ciò avvalora ancor più l’ipotesi della presenza di altri aggressori. Infatti, Pelosi presentava poche tracce di sangue sulle mani così come tutti gli altri arti in quanto la molteplicità degli aggressori non ha permesso a Pasolini di difendersi mai validamente e di afferrarne mai alcuno, o al massimo gli ha permesso soltanto di raggiungere qualcuno degli aggressori (che al limite potrebbe essere lo stesso Pelosi) con un pugno scarsamente valido tanto da non lasciare tracce obiettive; essendo quindi solo contro più aggressori è stato ben presto sopraffatto e ha pensato soltanto a salvarsi fuggendo, ma raggiunto (certamente anche dal Pelosi), è stato colpito con la tavoletta (usata anche dal Pelosi) e con altri mezzi (questi ultimi giustificano la emorragia cerebrale) nonché dal calcio ai testicoli; poi, caduto a terra, probabilmente riceve un calcio da Pelosi che sporca così la sua scarpa destra e il fondo del pantalone dallo stesso lato; infine viene abbandonato ormai privo di coscienza (emorragia cerebrale).
A questo punto gli aggressori raccolgono i due pezzi di tavola e il bastone e tornano all’auto. Pelosi entra dalla parte non della guida e, trattandosi di un’autovettura a due portiere, compie la mossa istintiva tipica di questi casi: con la mano destra afferra la maniglia e con la sinistra si appoggia sul tetto dell’auto là dove si rinvengono tracce del sangue di Pasolini. Il complice (adulto, e quindi più freddo nonché più scaltro) simula l’investimento di Pasolini; poi scende dall’auto e Pelosi prende il posto della guida fuggendo.
Questa ricostruzione, che a una analisi superficiale potrebbe sembrare alquanto romanzesca, in realtà è la sola che offre una giustificazione credibile di molti dati di fatto:
1°) spiega la contraddizione tra l’ingenuità di Pelosi e l’idea di simulare l’investimento che non è affatto un’idea ingenua;
2°) spiega la frase del Pelosi laddove dice di aver smesso di colpire Pasolini perché ormai lo vedeva a terra esanime e quindi lo riteneva morto; e quindi non ha capito neanche perché lo si dovesse sormontare con l’auto;
3°) spiega la presenza di tracce di sangue di Pasolini sulla parte destra del tetto dell’auto proprio in corrispondenza del limite posteriore della portiera di destra (dato obiettivo che nella prima ricostruzione del consulente di parte civile era posto in termini ancora problematici);
4°) spiega l’assenza di sangue di Pasolini all’interno della sua auto dato che, trattandosi di più aggressori, nessuno di essi era seriamente imbrattato di sangue neanche sulle mani, ma ne poteva avere soltanto qualche traccia per avere toccato i mezzi contundenti;
5°) spiega, infine, l’assenza di grossi imbrattamenti di sangue di Pasolini sui vestiti del Pelosi perché nella dinamica di un’aggressione compiuta da più persone c’è chi sta più vicino, o meglio chi vi partecipa più attivamente, e chi no.
Tale ipotesi trova la sua base sugli elementi oggettivi che spiegano incongruenze, lacune e contraddizioni e che tuttavia non si contrappongono alla tesi della volontarietà dell’omicidio. Questa, infatti, attiene all’autore del delitto chiunque esso sia.
Se l’omicida è Pelosi, questa è soltanto una ipotesi e ferma resta la certezza della sua volontà omicida. Se Pelosi non è invece il solo omicida, la volontarietà va attribuita ad altri e, pur tuttavia, Pelosi resta comunque, e forse in forma ancor più grave, compartecipe lucidamente cosciente dell’omicidio.

Pasolini durante le riprese romane de "Il fiore delle mille e una notte" (1973). Foto di Gideon Bachmann
Pasolini durante le riprese romane de “Il fiore delle mille e una notte” (1973). Foto di Gideon Bachmann

[5. La personalità e il mondo ideale di Pasolini]
Non possiamo, infine, chiudere queste note senza ricordare la personalità e il mondo ideale di Pasolini, il suo atteggiamento verso il problema della violenza, verso i diseredati, verso i potenti, e che cosa egli è stato nella nostra cultura con le sue opere, le sue tensioni morali, il suo impegno civile.
«In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la non-violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura…». Questa dichiarazione prelude in modo conciso ma significativo a un inedito che Pasolini volle pubblicare nell’ambito della anomala ma così indispensabile raccolta pubblicistica di Scritti corsari destinata a suggellare la sua composita opera poetica – i più non lo hanno ricordato, ma, dalla letteratura più intima e clandestina al cinema più pubblico e popolare, Pasolini è rimasto saldamente poeta – con la netta impronta del reale e del quotidiano.
Un confronto arduo e sofferto, ma sempre a viso aperto, con i fatti, con gli amici, con i nemici, con gli amici-nemici. Monologo o dialogo che fosse, è stato sempre più fitto e serrato, tanto da far della sua vita un apologo, culminato tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre dello scorso anno.
In modi che qualcuno ha definito persino “maniacali”, Pasolini si batteva contro la brutale «omologazione totalitaria del mondo» oggi in atto, cioè contro quel processo consumistico-edonistico che avrebbe travolto l’individuo sino a trasformarlo in cosa: una povera cosa era infatti il corpo del giovane Antonio Corrado, ucciso a colpi di pistola nella notte fra il 29 e il 30 ottobre 1975 nel quartiere romano di San Lorenzo, vittima inconsapevole di una vendetta fascista, ammazzato al posto di un giovane extraparlamentare di sinistra perché stessa era la via, stessa la barba, stesso il soprabito; due giorni dopo, un’altra efferata violenza avrebbe ridotto anche Pasolini a una cosa senza vita, in quella notte fra il 1° e il 2 novembre cominciata proprio nelle vie di San Lorenzo, percorse a capo chino «perché si vedono facce terribili in giro, prive d’espressione»: la morte, arrivata per mano di un ragazzo-oggetto che forse sa o forse non capirà mai fino a che punto è stato tale.
Come dice Jean-Paul Sartre, può darsi che Giuseppe Pelosi guardasse, sebbene con acerba inconsapevolezza, all’omosessualità come a una «tentazione costante e costantemente rinnegata, oggetto del suo odio più profondo», ma forse la sua insicurezza non poteva ancora permettergli di «detestarla in un altro perché in questo modo si ha la possibilità di distogliere lo sguardo da se stessi». Suo padre sì, il suo contesto sì, possedevano questa ottusa e tronfia consapevolezza, e lui avrebbe preso la sua “patente” e la sua “maturità” in questo senso, nel modo più viscerale, senza sapere che ormai la società sembra “tollerare” il diverso, o forse avvertendo con il suo ultimo, definitivo sentimento che Pasolini «aveva capito che era intollerabile, per un uomo, essere tollerato».
È tragicamente singolare ritrovare oggi tutto questo in un articolo scritto da Pasolini più di tre anni fa, il 7 gennaio del 1973, sulle colonne del “Corriere della Sera”. «Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono in faccia, rendendosi laidi come vecchie puttane di una ingiusta iconografia», scriveva lo scomparso, «ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre… Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre… Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani assomigliano sempre più alla faccia di Merlino [nota: il ‘trasformista’ ideologico, il personaggio emblematico di tutta la vicenda della strage del 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana]…».
Un apologo forse incompiuto, ma certo terribilmente concluso nel momento in cui il suo cuore ha cessato di battere, il suo sguardo di svelare, la sua coscienza di fremere. Sì, perché dal 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini ha cessato di esistere e nei discorsi degli amici, in quelli dei nemici e in quelli degli amici-nemici, si è sempre sentita da allora, in modo grave, la sua mancanza, per non parlare di quanto la sua personalità sia assente nell’ingrato epitaffio offerto da questo delitto, e nel troppo intorbidito e controverso ricordo degli ultimi, drammatici momenti della sua vita, raccolti dagli impietosi occhi e orecchie di chi c’era, di chi non c’era, di chi poteva o di chi voleva esserci.
Il cadavere di Pasolini è stato divorato dalla nostra società e dal nostro tempo: è questa la nemesi che chiude, come per un’esauribile regola narrativa, l’apologo.
Si può ricordare qualcuno che non c’è più e talvolta lo si è fatto senza offesa né tradimento. Per colui che ha lasciato di sé l’impronta marcata della sua opera, poi, ciò sembrerebbe addirittura più semplice visto che ci sono i documenti a parlare in sua vece. Nonostante la incommensurabile e gravosa eredità che egli ci affida, o forse persino a dispetto di questa, Pier Paolo Pasolini ci ha precluso la via del ricordo, e ce ne siamo resi conto fin dal momento del più acuto dolore per la sua scomparsa, davvero profondamente tale perché “perdita e basta”.
Sia pure in una interpretazione esoterica, Pasolini è stato più volte definito “un testimone provocatorio”, ma la sublime maledizione non è stata dettata né da un narcisismo del poeta, né dall’estro reclamistico dì un editore: c’era in questa sorta di slogan una verità istintiva, immediata, quasi epidermica, ma profonda e implacabile proprio come lo sono i messaggi stereotipi della pubblicità, che devono prima colpire, poi manipolare le nostre insoddisfazioni.
Tutti ricordiamo come Pasolini seppe reperire nell’ineffabile inventiva consumistica dei “Jesus jeans” la crepuscolare parabola di un potere ciclopico, perché

il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende a espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro». (“Corriere della Sera”, 17 maggio 1973).

Nelle due parole “testimone provocatorio” c’è prima un elemento-chiave che illumina non tanto la personalità di Pasolini quanto, essenzialmente, il suo rapporto fondamentale con la collettività, poi segue la registrazione “a caldo” di una sensazione rapida, ancora da codificare, che è appunto quel “provocatorio”. Sovente, di un individuo in qualche modo “pubblico” si azzardano legittimi pronostici, e la gara per decifrarne con anticipo i pensieri e le reazioni di fronte a questa o a quella questione può risultare finanche poco vivace. Per Pasolini questo gioco non si metteva in moto; per lui no, oseremmo dire per lui solo. È stata questa sua caratteristica a fargli conquistare sul campo l’aggettivo “provocatorio”, che è un giudizio ottuso ma sincero, disarmante nella misura in cui ognuno potrà leggerlo, positivamente o negativamente, secondo la prospettiva preferita, senza tuttavia mai afferrarlo veramente.
Immune come per natura dal tumore conformista (in realtà, questa sua vittoria molto personale è stata sofferta, come ben si può immaginare, poiché solo un lucido, costante e dolente esame della realtà può far sì che le impennate non finiscano prima o poi nella trappola dell’anticonformismo di maniera, o nella retorica del “bastian contrario” con cui si tappa la bocca al dissenziente fino a fargli provare il senso di colpa per la propria “anormalità”, una colpa che quasi sempre prende il sopravvento sui suoi slanci), Pasolini, pur non discostandosi mai da una sua logica ostinatamente vigile, ha sempre generato, con le sue reazioni, stupore. E quest’ultimo dapprima ha coinciso con una diffusa ostilità, che malcelava quella pressoché unanime cecità culturale sempre pronta a sbarrargli il cammino, ma poi la volontà di “resistere alla provocazione” ha via via lasciato il posto a graduali, sempre più estese prese di coscienza, in un Paese che fatalmente proprio nel moltiplicarsi dei disagi e degli stenti vede più chiaramente il proprio cammino.
Non è casuale, infatti, che dal 1968 il poeta abbia progressivamente intensificato i suoi interventi, dando sempre maggiore incisività ai suoi bersagli, divenuti tremendamente congrui, e infittendo le schiere degli amici (quei movimenti politici e culturali che della sua presenza hanno sentito il bisogno: tutti coloro che con lui hanno voluto dialogare al di là delle polemiche devianti o persino delle divergenze di fondo) e dei nemici (i depositari o i servi di un potere che prima lo ha disprezzato quale intellettuale e quale omosessuale confinandolo ai margini, poi, comprendendo l’inutile sforzo di rinchiuderlo in un ghetto, ha voluto mostrargli i denti).
Né gli uni né gli altri potranno ricordarlo al presente, tuttavia, perché il suo pensiero era in costante divenire e si sottraeva a qualsiasi schema: traeva linfa dalla vita, e ne accettava le più orride beffe, ne condivideva le contraddizioni pesanti da portare. Pasolini non coltivava utopie sorde, e questo tratto così semplice e fermo è stato arduo da accettare per chi lo ha accusato di “voler tornare indietro”, di “rimpiangere il passato”, perché chi l’ha detto o solo pensato non potrà mai confessare, in primo luogo a se stesso, la disperata fragilità del proprio, preventivato futuro. Con la sua presenza, Pasolini era egli stesso l’utopia, in quanto veicolo dialettico di un’era, e di alcune generazioni. Il “testimone” si poteva arrestare solo con la morte. Ora la coscienza pubblica, straziata e straziante, di un’epoca tace, e chi ha tanto invocato il silenzio non può dolersene.
Sul “Corriere della Sera”, il 30 gennaio 1975. Pasolini ammoniva sé e noi a questo proposito:

La mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente. Dico “gente” a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la massa, nel momento in cui viene, esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. È da questa esperienza esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici.

Dal 2 novembre 1975 la memoria si è dimostrata infatti ingrata, e con lui e con noi: non ha saputo darci i mezzi per farlo rivivere, perché non poteva e mai potrà. Lo abbiamo notato nella lode o nell’infamia di tanti suoi improvvisati biografi, quasi tutti, ciascuno a suo modo, rifugiatisi nella più arida convenzionalità. Sono risbucati fuori anche i rappresentanti di un livore e di una rozzezza che credevamo, peccando di presunzione, estinti. Pasolini li conosceva bene, sono coloro che usano l’aggettivo “squallido” («… cioè l’aggettivo di sempre, sistematicamente, meccanicamente, canagliescamente usato negli articoletti di cronaca di tutta la stampa italiana…»), irriducibili perché anonimi portavoce di quella «ltalietta, paese di gendarmi» che il poeta non avrebbe mai dimenticato:

… Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo… Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona… (da ‘”Paese Sera”, 8 luglio1974).

Forse l’unico frammento di memoria che potrebbe restituirci, almeno per un attimo. Pier Paolo Pasolini vivo, è il suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, che egli aveva configurato come un elemento di rottura spontanea con le sue opere precedenti, nell’intento di fondere il “testimone” e “l’artista”, alla ricerca di una leggibilità esplicitamente attuale, fatta di riflessioni ma anche di carne e di sangue. Ma questo film il popolo italiano, considerato “immaturo” dai suoi “tutori”, pare che non possa vederlo e discuterlo. È questo l’ultimo sopruso, l’ultima violenza dell’esistenza-apologo di Pier Paolo Pasolini e, per lo meno in questo caso, il sopruso e la violenza hanno l’inequivocabile, inconfondibile sapore della “ufficialità”.

[6. “Il romanzo delle stragi”]
C’è un’altra memoria, però, che terrà in vita Pier Paolo Pasolini. È la memoria di una strana storia, che raramente accede all”‘ufficialità” poiché troppo alternativa rispetto a questa, ma non riesce tuttavia a spegnersi negli occhi e nella mente degli uomini che cercano, pensano, sanno, dibattono. Il 14 novembre del 1974, Pasolini scrisse quello che chiamò Il romanzo delle stragi:

Io so. lo so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). lo so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. lo so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). lo so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. lo so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.

Infatti, non bisogna necessariamente essere intellettuali e romanzieri per acquisire le stesse consapevolezze che armavano quel giorno la penna di Pasolini, dal momento che milioni di italiani “sanno” e manifestano ogni giorno nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque, un dissenso che è il frutto di questa consapevolezza. Allo stesso modo noi sappiamo chi sono, tra le quinte di questo apologo, i mandanti e gli esecutori “ideali” dell’assassinio di Pasolini, come lo sapeva quella folla di romani che lo ha salutato, con dolore e con rabbia, per l’ultima volta nella camera ardente a Campo de’ Fiori. Quella folla così eterogenea, così “romanesca e inattendibile” perché così popolare, sapeva e sa. Ma come noi non ha le prove. Solo qualche indizio.

Pino Pelosi in un sopralluogo all'Idroscalo di Ostia (1976)
Pino Pelosi in un sopralluogo all’Idroscalo di Ostia (1976)

II. Sentenza del processo di primo grado
26 aprile 1976

[…] Passando all’esame dei fatti contestati al Pelosi, rileva innanzitutto il collegio la necessità di una attenta disamina di tutti gli elementi di causa per una più puntuale ricostruzione di una vicenda che appare per molti aspetti oscura. E vero che esiste in atti la confessione piena dell’imputato, ma tale confessione – nel vigente ordinamento di rito penale fondato sul libero convincimento del giudice sulla base di tutte le risultanze di causa – non esime il Tribunale dal ricercare la verità sostanziale. Anche in presenza di una confessione è sempre necessario che il collegio giudicante esamini tutti gli elementi acquisiti agli atti per non lasciarsi fuorviare da ciò che viene interessatamente rappresentato ma per controllare se effettivamente ciò che viene ammesso corrisponda in pieno a ciò che è realmente avvenuto.
E ciò non solo nel presente procedimento, troppo emotivamente vissuto dall’opinione pubblica per la notorietà della vittima […]. Ritiene anzi il collegio di dover rilevare come la notorietà della vittima abbia reso particolarmente arduo e difficile il suo compito di ricerca della verità. Il clamore che l’episodio ha avuto sulla stampa, le interpretazioni non sempre obiettive e documentate che sono state proposte, la prospettazione di versioni contrastanti non basate su una “lettura” delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di una verità di comodo, il settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche, tutto ciò ha certamente resa più confusa sin dal primo momento l’indagine, inquinando quella serena atmosfera di ricerca della verità che era indispensabile in un caso così delicato.
E’ questo clima che ha favorito il sorgere di testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto o etero accuse sostanzialmente pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti.
Il Tribunale non ritiene di dover neppure prendere in considerazione, anche solo al fine di confutarlo, tutto questo ciarpame processuale, per basare il suo giudizio esclusivamente su quei dati obiettivi che pur emergono in modo cospicuo dalle risultanze istruttorie.
È solo da aggiungere che nessun serio contributo probatorio alla ricostruzione della verità può venire dalla “versione alternativa” proposta dal settimanale “L’Europeo”, i cui giornalisti, su richiesta della difesa del Pelosi,  sono stati ascoltati come testimoni al dibattimento.
I predetti giornalisti non hanno ritenuto di poter rivelare l’identità delle loro fonti di informazione, per cui il Tribunale non è assolutamente in grado di valutare direttamente – come sarebbe necessario – l’attendibilità delle dichiarazioni che si assume essere state effettuate ai predetti giornalisti. Potrebbe trattarsi di persone interessate allo sviamento delle indagini o di mitomani, per cui nessun conto può farsi di dichiarazioni rese in una simile situazione e non controllate né controllabili. Del resto i racconti così come riportati appaiono quanto meno fantasiosi e pertanto insuscettibili di alcuna utilizzazione, anche se fossero stati proposti nel corso del procedimento in osservanza di precise regole processuali.
Resta pertanto, come ricostruzione diretta delle vicende che avvennero la sera del 1^ novembre all’Idroscalo di Ostia, solo la versione data dal Pelosi. In mancanza di testimonianze dirette che suffraghino o contraddicano tale versione, il necessario riscontro può essere effettuato solo sulla base degli altri elementi probatori esistenti in atti e sulla base della stessa congruenza in tutte le sue parti delle deposizioni rese dall’imputato.
La versione dei fatti data dal Pelosi si incardina su tre punti fondamentali: ero solo; ho reagito a una aggressione del Pasolini che pretendeva da me prestazioni sessuali che non intendevo concedere; quando, a seguito della colluttazione, ho visto il Pasolini a terra rantolante, sono stato preso dal terrore e sono fuggito con la macchina senza accorgermi di passare con l’auto sul corpo accasciato a terra.
Appare opportuno esaminare distintamente le tre proposizioni, per vedere se trovino riscontro negli elementi processuali o se invece siano decisamente contrastate dalle risultanze di causa.

1) Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’idroscalo il Pelosi non era solo. Esistono infatti sia prove positive che dimostrano in modo inequivocabile che quanto meno un’altra persona era presente al fatto, sia elementi indiziari univoci e concordanti, desumibili dalle risultanze probatorie e peritali, che confortano tale tesi.
a) Al momento del fermo del Pelosi da parte dei Carabinieri di Ostia venne rinvenuto sul sedile posteriore dell’auto del Pasolini un golf verde. Tale golf non apparteneva sicuramente al Pasolini (dichiarazione della Chiarcossi in istruttoria e in dibattimento) né al Pelosi (che al momento del fatto indossava altri indumenti). Né può ritenersi che il golf verde sia uno “straccio” usato dal Pasolini per pulire parti della macchina: ciò sia perché il golf – pur avendo delle macchie sul dorso – non presenta affatto le caratteristiche di uno straccio ma piuttosto quelle di un normale indumento usato anche se un po’ logoro; sia perché la Chiarcossi, che pur esaminò la macchina e il suo contenuto poco prima che il Pasolini la prendesse nella sera fatale, ha escluso di aver mai visto nella macchina il golf verde; infine perché il golf venne rinvenuto dai Carabinieri Cuzzupè e Guglielmi (ved. dep. in istruttoria e in dibattimento) sul sedile posteriore dell’auto insieme al giubbotto e al maglione del Pelosi e del Pasolini (e sarebbe assai strano che questi indumenti fossero stati posti insieme allo straccio).  […]
Comunque, fosse il golf sul sedile posteriore o fosse nel porta-bagagli, deve in ogni caso riconoscersi che costituisce sicuramente prova della presenza di una persona diversa dal Pasolini e dal Pelosi. […]
b) Nella macchina è stato rinvenuto, e repertato come risulta dalla missiva in data 15 novembre 1975 della Legione Carabinieri di Ostia Lido, un pIantare per scarpa destra. Tale pIantare non era certamente nella macchina del Pasolini prima della notte del 1^ novembre perché la Chiarcossi ha dichiarato di aver pulito e ordinato la macchina del cugino la mattina del 31 ottobre e, se avesse rinvenuto un simile oggetto, lo avrebbe sicuramente notato e buttato via. Il piantare non appartiene inoltre al Pasolini perché da un esame delle scarpe dello stesso appare evidente che la scarpa destra presenta all’interno lo stesso stato d’uso proprio della scarpa sinistra (il che non si sarebbe verificato se nella destra fosse stato inserito un piantare e nella sinistra no). Né può ritenersi che il piantare appartenga al Pelosi, perché lo stesso non ha mai né affermato di far uso di pIantare né richiesta la restituzione del piantare rinvenuto nella macchina che pure gli doveva essere utile per ben camminare. Deve pertanto ritenersi che il plantare appartenga a una terza persona non identificata, la quale ebbe a togliersi la scarpa, e quindi il plantare, per pulire la scarpa dal fango (o dal sangue) dimenticando nella confusione necessariamente conseguente alla commissione del delitto di recuperare l’oggetto.
c) Il Pelosi, quando si fermò con il Pasolini nella macchina all’Idroscalo, aveva con sé un pacchetto di sigarette Marlboro e l’accendino […] Ma dopo l’arresto il Pelosi fece ricercare dal Cuzzupè e dal Vitali Luigi oltre all’anello anche le sigarette e l’accendino che non vennero rinvenuti nella macchina. Ora, dovendosi ovviamente escludere che i due predetti oggetti siano potuti cadere fuori della macchina, dato che erano nel portaoggetti della stessa, l’unica spiegazione logica che può darsi alla loro scomparsa è che qualcun altro nella confusione li abbia presi e portati via con sé. Ma questo indica chiaramente che all’Idroscalo doveva esserci almeno una terza persona, non potendosi altrimenti essersi volatilizzati gli oggetti suddetti.
d) Dai rilievi fotografici, nonché dal sopraIluogo effettuato dalla Polizia scientifica e dalla Squadra mobile, emerge che sul terreno dell’area di rigore sulla parte sinistra del rudimentale campo di calcio esistevano delle impronte di scarpe sicuramente non lasciate né dalle scarpe del Pasolini né dalle scarpe del Pelosi. Mentre infatti le scarpe del Pelosi e del Pasolini hanno la suola liscia, le impronte evidenziate (accanto ad altre di scarpe con suola e tacco liscio) sono sicuramente appartenenti a scarpe con suola gommata (probabilmente scarpe da tennis).
È da escludersi che le impronte fotografate possano essere state lasciate sul terreno dai ragazzi che giocarono a pallone nella mattinata del 2 novembre. I rilievi, come si evince dal verbale, sono stati effettuati alle ore 7.30 e comunque prima che arrivassero sul posto i ragazzi che poi giocarono a palla: ciò emerge chiaramente dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal dott. Masone, dal dott. Marieni, da Solimene Ciro. Oltretutto gli ufficiali di Polizia giudiziaria hanno tutti concordemente escluso che i ragazzi vestiti per giocare a calcio abbiano invaso la zona ove vennero ritrovate e fotografate le impronte suindicate.
Le impronte in questione sono state pertanto lasciate nella notte stessa in cui avvenne l’aggressione al Pasolini, insieme a numerose altre impronte (teste Solimene) che chiaramente indicano come nell’area di porta, e cioè molto vicino alla macchina del Pasolini, vi sia stato un notevole movimento di persone. Inoltre il fatto che gli stivaletti di Pasolini furono rinvenuti incrostati di fango, mentre non vennero rinvenute in altri luoghi dello spiazzo altre impronte di scarpe, dimostra che il Pasolini a un certo momento di quella notte si trovò nell’area di porta e che conseguentemente le impronte di scarpa con suola di gomma furono
lasciate dai suoi aggressori, così come le impronte di suole lisce, evidenti nella fotografia, debbono essere state lasciate dal Pasolini.
Ma se ciò è vero deve riconoscersi che oltre al Pelosi e al Pasolini vi era sicuramente almeno un’altra persona che calzava scarpe da tennis o comunque con suola gommata.
e) Sul tetto della macchina del Pasolini, dalla parte del passeggero, sono state rinvenute delle incrostazioni rossastre che, secondo le indagini peritali, sono di sangue del Pasolini.
Tali incrostazioni, che la perizia definisce “piccole e tenui”, non possono essere state depositate sul tetto della macchina dal Pasolini stesso. Questo perché:
– se la testa di Pasolini avesse battuto sul tetto della macchina si sarebbero trovate insieme alle tracce ematiche anche tracce di capelli, presenti in quasi tutti i reperti;
– se il sangue fosse schizzato direttamente dal capo del Pasolini le tracce ematiche sarebbero state assai più consistenti, data la notevole fuoriuscita di sangue dal capo del Pasolini documentata dalla camicia profondamente intrisa di sangue;
– se il Pasolini durante l’aggressione si fosse appoggiato all’auto, più vistose dovevano essere le tracce lasciate e non quelle “piccole e tenui” rinvenute dai periti, proprio perché il Pasolini era inzuppato di sangue e la lotta a ridosso della macchina avrebbe necessariamente dovuto far rinvenire altre tracce.
Né può dimenticarsi che, secondo la versione del Pelosi, il Pasolini non ebbe mai ad avvicinarsi all’auto dopo l’inizio della colluttazione, per cui deve escludersi che la traccia sia stata lasciata dal Pasolini stesso.
Ma allora la “piccola e tenue” incrostazione di sangue deve essere stata “trasportata” indirettamente dall’aggressore il quale, nella colluttazione, si era sporcato le mani con il sangue del Pasolini.
E la posizione della incrostazione (sul tetto in corrispondenza della parte posteriore della portiera destra) fa ritenere che ciò sia avvenuto a opera di soggetto che, istintivamente, si è appoggiato con una mano sul tetto dell’auto, mentre con l’altra apriva la portiera per entrare nella macchina. Il che è assai verosimile anche tenendo conto delle caratteristiche dell’Alfa 2000 GT la cui altezza massima della carrozzeria è di mm 1315 per cui è normale che chi si debba chinare per aprire la portiera ed entrare nell’abitacoIo appoggi una mano sul tetto che si presenta più basso della persona eretta. Si può pertanto ritenere che chi entrò nella macchina dalla parte dello sportello di sinistra aveva le mani sporche di sangue a seguito della lotta sostenuta col Pasolini. Ma tale persona non poteva essere il Pelosi. Deve ritenersi sicuro che il Pelosi, secondo quanto egli stesso ha affermato e secondo quanto è nella logica delle cose, guidò l’auto del Pasolini dall’Idroscalo alla fontanella posta sul Lungomare di Ostia.
Ora, se fosse stato il Pelosi che, con le mani sporche di sangue, nella confusione del momento cercò di entrare nella macchina prima dalla parte del posto del passeggero e poi dalla parte della guida (il che appare francamente poco verosimile), si sarebbero dovute trovare altre tracce di sangue del Pasolini sia sullo sportello di destra sia principalmente sul volante dell’auto. Nessuna macchia di sangue del Pasolini venne invece trovata sul volante. E allora due sole ipotesi sono possibili: o Pelosi aveva le mani sporche di sangue ed entrò nella macchina dalla parte del passeggero, mentre altra persona guidò la macchina nella fase del sormontamento del corpo di Pasolini e poi fino alla fontanella ove il Pelosi si lavò (ma sembra poco probabile che anche i complici del Pelosi siano arrivati con lui fino alla fontanella) o il complice con le mani sporche di sangue si sedette al posto del passeggero aprendo lo sportello di sinistra mentre il Pelosi, che non aveva le mani sporche di sangue, si sedette alla guida della macchina. In un caso come nell’altro appare sicuro che insieme al Pelosi entrò nella macchina altra persona che con lui aveva partecipato all’aggressione.
f) E’ accertato che il Pasolini, prima di essere colpito allo scroto, di stramazzare a terra esanime e di essere quindi sormontato dalla macchina, riportò diverse lesioni che, se pure non ne causarono la morte, provocarono una violenta emorragia di sangue. Lo dimostra la imponente imbibizione di sangue della camicia di Pasolini, le notevoli chiazze di sangue sulle tavolette e sul bastone, lo strappo di capelli, le stesse caratteristiche delle ferite alla testa e cioè in una zona fortemente vascolarizzata. Deve pertanto ritenersi che, a seguito delle lesioni, non vi fu una semplice fuoriuscita di sangue bensì vi furono veri e propri “schizzi” di sangue.
Ora, se la colluttazione fosse avvenuta solo tra il Pasolini e il Pelosi, come quest’ultimo sostiene, vi dovevano essere necessariamente, sulle mani e sui vestiti del Pelosi, cospicue macchie di sangue.
[…] Deve pertanto ritenersi che non fu solo il Pelosi ad avere la colluttazione con il Pasolini, perché altrimenti egli avrebbe dovuto necessariamente avere sulle mani e sugli indumenti più rilevanti macchie di sangue.
g) In una colluttazione tra due soggetti, a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano fisico, è impossibile che solo uno dei contendenti riporti gravi ferite mentre l’altro esca praticamente indenne dalla lotta. Nel caso di specie invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, con abbondante perdita di sangue, mentre il Pelosi non ha subito significativi traumi. Eppure il Pasolini, come è notorio, non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa: era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari.
È vero che il Pelosi ha affermato di avere riportato nella colluttazione diverse lesioni, ma all’esame peritale è risultato che «la maggior parte dei rilievi è stata indirizzata da atteggiamenti soggettivi che tendevano a localizzare in varie parti del corpo zone asserite dolenti. All’esame obiettivo queste zone non hanno dimostrato alterazioni apprezzabili né tanto meno ripercussioni funzionali di qualsivoglia natura». I periti obiettivamente hanno potuto rilevare soltanto «la ferita lacero-contusa nella regione frontale alta, in via di cicatrizzazione, la lievissima escoriazione in corrispondenza della coda del sopracciglio sinistro, l’altrettanto lievissima escoriazione superficiale lineare sul margine dell’avambraccio destro, la sfumata area ecchimotica sulla faccia mediale del sesto superiore dello stesso avambraccio, la piccola escoriazione in corrispondenza della regione dorsale della falange prossimale del terzo dito della mano sinistra, la tenue ecchimosi alla superficie mediale della coscia destra nella quale si inserivano tre escoriazioni puntiformi. In sostanza l’unica lesione di un qualche rilievo e di un qualche interesse traumatologico può essere considerata quella a carico della regione frontale alta».
Ma in ordine a questa  che costituisce l’unica vera lesione riportata dal Pelosi  i periti hanno rilevato che il mezzo contusivo non poteva avere una larga superficie e che esso ha esercitato la sua efficacia lesiva, in ogni caso di modesta entità, in senso trasversale.  […]
Il Pelosi ai Carabinieri di Ostia e al Pronto Soccorso dell’Ospedale disse di aver riportato la lesione battendo la testa contro il volante dell’auto durante la fuga: tale mezzo contundente presenta effettivamente una superficie stretta e può aver operato in senso trasversale e non sagittale. Deve anche aggiungersi che solo una ferita riportata all’interno della macchina durante la fuga può spiegare appieno le piccole tracce di sangue di Pelosi rinvenute all’interno della macchina, sulla tappezzeria della stessa verso l’alto, davanti al volante.
Un’altra lesione di un certo rilievo è stata successivamente riscontrata dai periti a seguito dell’annullamento della prima indagine radiografica sul naso: è stato infatti accertato che il Pelosi presenta «esiti di frattura incompleta senza spostamento dell’osso nasale di destra funzionalmente irrilevante». […] Poiché è stato accertato che il Pelosi urtò con il capo sul volante dell’auto, come egli stesso ha affermato e come è stato comprovato da quanto sopra detto, deve ritenersi che anche la lesione al naso possa essere conseguenza di quel trauma (mentre la fronte urtava contro il cerchio, il setto nasale ben poteva urtare contro la “razza” del volante).
Comunque, anche a voler far risalire la frattura alla colluttazione con il Pasolini a cui del resto sicuramente il Pelosi in qualche modo ha partecipato, resta il fatto che la modestia del complessivo quadro lesivo riscontrato sul Pelosi, specie se in relazione all’imponente quadro lesivo riscontrato sul Pasolini, mal si concilia con l’ipotesi di un duello a due, con violento e reciproco scambio di colpi. Oltre tutto sul luogo della lotta sono stati trovati un bastone e due parti di una unica tavola divisa al primo colpo in due tronconi, entrambi utilizzabili come arma di offesa: è seriamente pensabile che, ove la lotta si fosse svolta solo tra il Pasolini e il Pelosi, quest’ultimo abbia avuto la possibilità di utilizzare tutti e tre i mezzi contundenti (tutti sporchi del sangue di Pasolini) mentre il primo non ebbe mai la possibilità di impossessarsi di uno dei mezzi per organizzare un minimo di difesa colpendo il suo aggressore?
La differenza tra le lesioni subite dal Pasolini e la sostanziale mancanza di lesioni sul Pelosi può spiegarsi solo ritenendo che non vi fu una colluttazione a due ma una aggressione di più persone nei confronti di un uomo solo.
h) Le lesioni riportate dal Pasolini e il luogo in cui vennero ritrovati i vari reperti escludono nel modo più sicuro che i fatti si siano svolti così come li ha rappresentati il Pelosi e danno nello stesso tempo una significativa prova della necessaria presenza sul posto di più persone.
Deve innanzi tutto in proposito rilevarsi che la camicia di Pasolini, profondamente intrisa del suo sangue, venne ritrovata sul retro dell’area di porta, a una notevole distanza dal luogo in cui Pasolini venne rinvenuto esanime. È anche da aggiungere che il Pelosi ha sempre decisamente escluso di aver raccolto la maglietta intrisa di sangue del Pasolini e di averla spostata, il che fa ritenere che la camicia venne tolta dal Pasolini stesso, o al Pasolini da altri, nella parte dello spiazzo vicino alla porta ove era parcheggiata l’auto.
Ora, poiché la maglietta del Pasolini era profondamente imbevuta di sangue, deve ritenersi che una prima fase della colluttazione, con violenta emorragia ematica da parte del Pasolini, avvenne sicuramente nelle vicinanze o proprio nella area di porta (è sintomatico che in questa area vennero, come sopra detto,– rinvenute numerose impronte di scarpe diverse) e che questa prima fase non è immediatamente collegata con la seconda fase che si sviluppò nei pressi della baracca del Buttinelli.  […]
Ma, se tutto ciò è vero, non solo “salta” completamente la ricostruzione dei fatti fatta dal Pelosi ma prende consistenza la ipotesi che le ferite inferte al Pasolini nella prima fase dell’aggressione siano state prodotte da corpi contundenti diversi da quelli rinvenuti sul posto e repertati. Non può esser stata infatti utilizzata nella prima fase la tavoletta con la scritta “Buttinelli” sia perché la tavola era collocata molto lontano dal luogo ove la prima fase della aggressione avvenne […] sia principalmente perché numerosi frammenti del legno della tavoletta sono stati rinvenuti «sul terreno sottostante il tronco del cadavere e nelle immediate vicinanze dello stesso».
Non appare probabile neppure l’uso del bastone nella prima fase, sia perché la friabilità dello stesso mal si concilierebbe con il pesante quadro emorragico che pure il Pasolini dovette presentare quando si tolse la camicia per tamponare le ferite, sia perché il bastone venne sicuramente usato nella seconda fase (lo dimostra il fatto che la parte più imbibita di sangue venne rinvenuta sotto il corpo di Pasolini e che il Pelosi ha ammesso di aver preso l’altro pezzo del bastone che era vicino al corpo del Pasolini per buttarIo poi nel campo vicino alla porta). Ma se il bastone, che sicuramente dovette spezzarsi al primo colpo perché una parte non è quasi sporca di sangue, si ruppe nella seconda fase, è da escludere che abbia potuto operare nella prima fase producendo al Pasolini quelle notevoli ferite da cui uscì una così copiosa quantità di sangue. Deve pertanto necessariamente concludersi ritenendo che nella prima fase dell’aggressione, che si svolse nei pressi della porta di calcio, altri mezzi produttivi di lesioni vennero usati, mezzi che non sono stati rinvenuti e che conseguentemente debbono esser stati portati via da persone diverse dal Pelosi […]
Deve inoltre rilevarsi che altri elementi portano a ritenere che anche mezzi diversi da quelli rinvenuti sul posto e repertati abbiano prodotto le lesioni riscontrate sul Pasolini e non siano riconducibili al sormontamento della macchina. Le lesioni fratturative alle falangi (due fratture e una lussazione) poco verosimilmente possono esser state procurate da un bastone estremamente friabile e da due tavolette del peso di 765 grammi una e di 700 grammi l’altra; […] È pertanto assai probabile  sulla base di queste lesioni  che a provocarle siano stati mezzi di maggiore consistenza di quelli rinvenuti, e questo elemento, collegato con quello precedentemente analizzato, dà la sicurezza della presenza di altri corpi contundenti e quindi di altre persone.
Vi sono infine altri due elementi desunti dalle lesioni e dalla dinamica degli avvenimenti ricostruita sulla base dei rapporti in atti che fanno ritenere la presenza di una pluralità di persone al momento dell’aggressione al Pasolini.
Se il bastone e le tavolette furono usati nei pressi della baracca del Buttinelli, e ciò è comprovato dagli elementi sopra indicati, deve escludersi che siano stati usati dalla stessa persona in momenti successivi e deve invece ritenersi che furono tutti usati contestualmente da una pluralità di persone. Secondo la tesi del Pelosi, nella zona ove poi cadde esanime il Pasolini, lo stesso venne prima colpito dal bastone che si ruppe; poi il Pelosi buttò via il bastone, raccolse la tavoletta, colpì con questa il Pasolini, la ruppe, continuò a colpire con l’altro moncone di tavoletta.
Ma, se ciò fosse stato vero, il bastone si sarebbe dovuto trovare per lo meno qualche metro distante dal luogo ove successivamente stramazzò il Pasolini, mentre il pezzo del bastone che colpì più pesantemente la vittima fu rinvenuto proprio sotto il corpo della stessa. È infatti evidente che Pasolini non poteva, in una colluttazione a due, rimanere immobile sullo stesso posto attendendo che il suo aggressore, momentaneamente sfornito di un’arma, si chinasse, raccogliesse la tavoletta e ricominciasse a colpirlo.
Delle due ipotesi l’una: o Pasolini era in fuga rincorso dal Pelosi […] o era in corso un avvinghiamento tra Pelosi e Pasolini e allora quest’ultimo avrebbe potuto approfittare del periodo in cui il Pelosi aveva buttato il bastone ed era chinato per raccogliere la tavoletta per soverchiarlo e per impedirgli di prendere la tavoletta e ricominciare a colpirIo. In realtà nessuna delle due ipotesi appare accettabile. […] Assai più logica appare invece l’ipotesi che il Pasolini, mentre stava fuggendo, venne raggiunto da più persone che, dopo averlo fermato per i capelli, iniziarono a colpirlo tanto con il bastone che con la tavoletta (e probabilmente anche con altri mezzi contundenti, come sopra rilevato).
Il secondo elemento che fa presumere la esistenza di una pluralità di persone è dato dalla lesione che in sede peritale è stata così descritta: «ampia soffusione ecchimotica all’emiscroto destro estesa al versante infero-laterale destro del terzo medile del pene con zona escoriativa di cm 2 circa localizzata al centro della superficie anteriore dell’emiscroto medesimo» e che, sempre secondo i periti, è stata cagionata dalla «applicazione violenta di un mezzo contusivo che ha agito sulla regione determinando una infiltrazione emorragica anche del piano profondo».  (Una simile lesione non può certo essere stata cagionata se il Pasolini era in fuga rincorso dal Pelosi, né se vi era una colluttazione a breve distanza tra due contendenti più o meno avvinghiati, come è la lotta descritta dal Pelosi). La precisione e la violenza del calcio inferto ai testicoli, che come affermano i periti provocò una sensibile riduzione della capacità di difesa del soggetto, fa presumere non solo che il calcio costituì l’atto terminale della seconda fase di aggressione ma anche che esso venne assestato da una persona mentre altre tenevano ferma la vittima perché subisse il colpo di grazia.
i) È provato, dal rinvenimento di un pezzo del bastone sotto il corpo del Pasolini, che bastone e tavolette sono state usate nella fase che si è svolta vicino alla baracca del Buttinelli. Anche il Pelosi riconosce ciò, aggiungendo che, quando la colluttazione ebbe termine per l’abbattimento del Pasolini, egli “d’istinto” raccolse i pezzi della tavoletta e il paletto e li buttò vicino alla macchina.
Ora, a parte l’evidente stranezza di un ragazzo terrorizzato che, volendo scappare dal luogo ove vi è stata una così grave colluttazione, si attarda al buio alla ricerca delle tavolette e del paletto e li porta tutti insieme senza minimamente macchiarsi di sangue gli abiti di cui pure le tavole erano assai imbevute, deve rilevarsi che il paletto venne rinvenuto a una notevole distanza dalle due tavolette (a 56 metri dal cadavere, mentre le tavolette erano a 90 metri dallo stesso).
Non è questa una ulteriore conferma che se il bastone, meno imbrattato di sangue, venne preso e poi buttato dal Pelosi, le due tavolette, che dovettero necessariamente lasciare delle macchie di sangue sulle mani e sugli indumenti di chi li raccolse, vennero prese da una terza persona che le buttò poi più vicino alla macchina?

1) Un ulteriore elemento che fa ritenere la presenza di più persone sul luogo del delitto, e un loro concerto successivo alla commissione del reato, è dato dal tempo che trascorse tra l’arrivo del Pelosi e del Pasolini all’Idroscalo e l’arresto del Pelosi da parte dei Carabinieri sul Lungomare di Ostia.
È accertato (deposizione Panzironi) che Pasolini e Pelosi lasciarono la trattoria a mezzanotte e cinque e che impiegarono non più di venti minuti per raggiungere l’Idroscalo (la distanza dalla trattoria era di 30 km circa per cui, anche se la macchina fosse andata a soli 120 km all’ora – ma il Pelosi ha dichiarato in dibattimento che la macchina “correva”, il che è logico dato che a quell’ora la strada era completamente sgombra e l’auto aveva un motore assai potente –, il tempo impiegato doveva essere di circa un quarto d’ora): può pertanto ritenersi, anche calcolando la fermata per il rifornimento di benzina, che i due arrivarono all’Idroscalo non oltre mezzanotte e mezza. L’altro dato certo è che il Pelosi venne fermato dai Carabinieri alla 1 e 30.
La domanda che ci si deve rivolgere è se appare pienamente coperto l’arco di un’ora dalla descrizione degli eventi così come l’ha raccontata il Pelosi. Appena giunti – dice il Pelosi – fumai una sigaretta: 5 minuti circa; quindi Pasolini cominciò ad accarezzarmi i genitali e «mi prese il pene in bocca per circa un minuto»: può ritenersi, con criteri di larghezza, che siano trascorsi altri 5 minuti; quindi scesi dalla macchina si iniziò l’aggressione, la fuga, la colluttazione, l’abbattimento del Pasolini, senza alcuna soluzione di continuità ma in modo piuttosto concitato e veloce: al massimo può ritenersi che in questa fase sia stato impiegato un quarto d’ora; corsi quindi alla macchina in preda al terrore, misi in moto l’auto, mi allontanai dall’Idroscalo e mi fermai alla fontanella per lavarmi: in questa fase non poté impiegare più di 5 minuti. Nell’insieme dunque può ritenersi che al massimo sia stata impiegata mezz’ora. E seriamente pensabile che un’altra mezz’ora sia stata impiegata dal Pelosi per lavarsi sommariamente e per raggiungere il lungomare vicinissimo alla fontanella, dove la macchina fu vista dai Carabinieri procedere a 180 km all’ora (teste Guglielmi)? Non è invece molto più logico ritenere che il tempo “vuoto” sia stato impiegato per decidere una comune linea di condotta tra le più persone che avevano partecipato all’aggressione?
Certo questo elemento, come tutti gli elementi sopra considerati,  da solo non potrebbe avere valore determinante e costituire prova sicura della presenza di più persone: ma la pluralità di elementi tutti gravemente indiziari e tutti concordanti in un unico senso, la imponenza di essi, la univocità della loro direzione, nonché l’esistenza di alcune prove positive della presenza di altre persone, danno, attraverso l’esame globale della situazione, la tranquillante certezza che la proposizione del Pelosi “ero solo” non è affatto veritiera.

2) Neppure la proposizione del Pelosi «Fui aggredito dal Pasolini e per difendermi dovetti colpirlo» trova riscontro negli atti di causa; anzi, è chiaramente smentita da tutte le risultanze probatorie.
Appare innanzitutto evidente che, se più persone furono quella sera presenti all’idroscalo e parteciparono all’aggressione del Pasolini, la tesi dell’aggressione subita dal Pelosi diviene automaticamente priva di ogni fondamento.
Inoltre deve rilevarsi come molte delle argomentazioni poste a base della dimostrazione che il Pelosi non era solo valgono comunque a escludere che vi sia stata un’aggressione da parte del Pasolini al Pelosi: basta qui accennare, riportandosi a quanto sopra già detto, alla divisione della colluttazione in due fasi e alla assurdità che il Pasolini, già grondante di sangue e quindi in qualche modo menomato, abbia spontaneamente aggredito nuovamente il Pelosi,dopo averlo rincorso e raggiunto, presso la baracca del Buttinelli; alla ciocca di capelli del Pasolini ritrovata lungo la stradetta, che dimostra come lo stesso mentre fuggiva venne raggiunto e afferrato per i capelli; alla mancanza di significative lesioni sull’aggredito Pelosi mentre rilevanti lesioni furono rinvenute sul corpo del presunto aggressore.[…]
Appare molto strano che il Pelosi, profondamente traumatizzato e sconvolto, come afferma di essere stato, per l’aggressione subita,  fermato dai Carabinieri nella imminenza del fatto non abbia raccontato immediatamente di esser stato vittima dell’aggressione di un bruto: ciò avrebbe anche pienamente giustificata l’appropriazione della macchina. Invece il Pelosi con molta padronanza di sé dice prima ai Carabinieri che la macchina l’aveva avuta in prestito da un amico, poi di averla rubata davanti a un cinema, senza minimamente accennare alla aggressione a cui si era sottratto. E nasconde pure di aver subito lesioni durante l’aggressione, affermando, oggi, dice, falsamente, di averle riportate urtando contro il volante della macchina.
Ma la mattina dopo con assoluta tranquillità racconta al primo venuto (un vicino di cella di Casal del Marmo) di aver ammazzato Pasolini, specificando che era in carcere «perché ho ammazzato un uomo e precisamente Pasolini: tanto tra poco lo vengono a sapere; mica sono deficienti quelli». E al Procuratore della Repubblica dà quella versione dei fatti, incentrata sulla subita aggressione, che poi manterrà fino in fondo. Non può non lasciare estremamente perplessi questo modo di fare: sia perché innaturale in chi si sente sicuro di aver agito in stato di legittima difesa, sia perché oggettivamente tende a far ritardare la scoperta del cadavere e lo scattare delle conseguenti ricerche, il che non ha senso per chi ha tutto l’interesse a far emergere al più presto la realtà dell’aggressione subita.
In realtà l’unica logica spiegazione al comportamento tenuto con i Carabinieri è che il Pelosi volesse consentire ai suoi complici di allontanarsi indisturbati facendo perdere le loro tracce, proprio per poter poi avvalorare la tesi predeterminata della aggressione subita. […]
Sulla base dei numerosi elementi di prova raccolti deve pertanto ritenersi non attendibile la versione dei fatti prospettata dall’imputato, e invece accertato che il Pasolini subì una aggressione da parte di più persone restate sconosciute, e che lo stesso Pasolini, dopo essere stato ridotto all’impotenza, fu volontariamente ucciso mediante il sormontamento da parte della sua macchina.
Contro una simile ricostruzione del fatto […] la difesa del Pelosi muove due obiezioni: nessuno poteva sapere ove il Pasolini avrebbe accompagnato il Pelosi; nessuna causale del delitto è stata individuata e provata.
Le due obiezioni non sembrano rilevanti:

1) Di fronte a prove precise della presenza di più persone sul luogo del delitto e della loro partecipazione allo stesso, non può essere esclusa tale partecipazione solo perché non si è potuta trovare la prova dell’accordo né si sono potuti identificare i coautori del reato. Deve comunque rilevarsi come anche nella fase precedente all’arrivo del Pelosi e del Pasolini all’Idroscalo esistono molti punti oscuri che lasciano seri dubbi sulla versione data dall’imputato:
a) Pur non conoscendo affatto gli amici del Pelosi che erano alla Stazione Termini e che, a quel che essi dicono,non erano affatto “ragazzi di vita”, il Pasolini si mostrò nei loro riguardi estremamente diffidente e prudente. […] Come mai, pur avendo tanta diffidenza nella frequentatissima piazza dei Cinquecento, il Pasolini accolse con tanta facilità nella macchina il Pelosi che pur faceva parte di quel gruppo di ragazzi di cui diffidava e che non conosceva affatto secondo l’affermazione di Pelosi?
b) Non si comprende perché il Seminara entrò nel bar a chiamare il Pelosi perché andasse a parlare con il Pasolini. Quale era il motivo per cui il gruppo ritenne opportuno far conoscere al Pasolini il Pelosi?
c) Non si comprende bene perché, con quali argomenti e con quali promesse il Pelosi  dopo essersi allontanato da piazza dei Cinquecento insieme al Pasolini per una mezz’ora e cioè per un tempo sufficiente ad avere un rapporto, convinse il Pasolini riluttante a tornare in piazza dei Cinquecento e a impegnarsi a riaccompagnarlo nella tarda notte fino al Tiburtino. E non può non esser fortemente sospetto il particolare, riferito dal Seminara, secondo cui il Pelosi, tornando alla Stazione,  avvertì gli amici «di non farsi vedere dall’uomo in macchina».
d) Pelosi doveva conoscere bene la zona dell’Idroscalo per esservi stato altre volte; in sede di interrogatorio dibattimentale il Pelosi ha dichiarato che, volendosi lavare le mani alla fontanella, lasciò la macchina in una traversa vicino alla fontana perché aveva paura che qualcuno vedesse la macchina che aveva rubato, e in sede di ispezione dei luoghi ha specificato che la macchina la posteggiò all’inizio di via delle Caserme,  che è una strada che sbocca in piazza Scipione l’Africano ove è collocata la fontanella. Ma poiché via delle Caserme, per chi viene dalla via dell’Idroscalo, è prima della piazza e la fontanella è alla fine della piazza all’angolo della stessa con il Lungomare, il Pelosi,per posteggiare la macchina in via delle Caserme quando ancora non poteva conoscere che alla fine della piazza vi era una fontanella, doveva perfettamente conoscere i luoghi. Ma se il Pelosi conosceva l’Idroscalo (mentre non risulta agli atti che Pasolini conoscesse tale luogo) è assai probabile che il luogo del convegno fu proposto e scelto dal Pelosi e non dal Pasolini, con la conseguente possibilità che il Pelosi abbia comunicato a qualcuno  non identificato – al momento in cui tornò alla Stazione – dove si proponeva di andare con Pasolini.
e) Assai oscura appare anche tutta la vicenda dell’anello rinvenuto sul luogo del delitto e che il Pelosi fece cercare dai Carabinieri. A parte l’ovvia considerazione che in una persona particolarmente agitata per quanto era avvenuto si può comprendere il desiderio di recuperare sigarette e accendino per potersi calmare fumando ma si comprende molto meno il desiderio di recuperare un anello di scarsissimo valore commerciale e di nessun valore affettivo, deve rilevarsi come non sembra possibile che l’anello sia caduto al Pelosi durante la colluttazione. Questo perché l’anello non era affatto largo sul dito del Pelosi […] appare assurdo che l’anello sia caduto spontaneamente dal dito perché andava strappato dal dito con una certa violenza, dato che era stretto; ma se ciò è vero appare strano che possa essere stato strappato dal Pasolini durante la colluttazione poiché, come si è già visto prima, tale colluttazione avvenne tra più persone e non vi furono avvinghiamenti tra Pasolini e Pelosi perché questi avrebbero lasciato segni vistosi sulla persona e sugli indumenti del Pelosi. […] Non si può quindi quanto meno escludere che l’anello sia stato tolto dal dito dallo stesso Pelosi e lasciato cadere nelle immediate vicinanze del cadavere per fini che non è possibile in questa sede individuare.

2) La mancanza di un preciso accertamento della causale del delitto non può portare alla esclusione della responsabilità.  […] In realtà possono farsi varie ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una lezione per un precedente “sgarbo”, che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che un “protettore” vigilasse su di lui.
Non esistono elementi, di fronte al mutismo sul punto del Pelosi. sempre ancorato alla sua versione difensiva originaria,  che possano far preferire una delle causali sopra riportate o anche una causale diversa. allo stato non facilmente ipotizzabile.
Resta comunque il fatto che gli abbondanti elementi probatori positivi, e l’assoluta inattendibilità della versione dei fatti data dal Pelosi, danno la tranquillante certezza che almeno due persone aggredirono prima e poi volontariamente uccisero il Pasolini, per motivi che non si sono potuti accertare. Potrebbe astrattamente ritenersi, una volta accolta la tesi della presenza di altre persone all’idroscalo, che il Pelosi sia restato estraneo al delitto, semplice spettatore di una drammatica scena in cui altri soli erano i protagonisti.
L’ipotesi, che il collegio si è dovuto porre per scrupolo ricostruttivo, non appare attendibile: perché, sia pure in misura assai limitata, qualche traccia del sangue di Pasolini era sugli indumenti del Pelosi; perché il Pelosi era in possesso della macchina con cui il Pasolini venne ucciso; perché, se avesse solo assistito alla scena, avrebbe dovuto dirlo e non proclamarsi ripetutamente unico uccisore del Pasolini: perché se fosse stato estraneo all’omicidio non avrebbe cercato di coprire i suoi complici affermando ai Carabinieri di aver rubato la macchina e ritardando cosi la scoperta di un delitto che era per proprio conto pronto a confessare.
[…] Ricostruito il fatto, riconosciuto che il Pelosi lo ha commesso, valutata l’esatta configurazione giuridica dei fatti contestati, resta al Tribunale il compito di esaminare, prima di una eventuale affermazione della penale responsabilità dell’imputato, il problema se al momento dei fatti, e in ordine agli stessi, il Pelosi fosse o meno imputabile.
Il che significa dovere affrontare la complessa questione – che ha dato luogo a profonde dispute dottrinarie e a molte incertezze giurisprudenziali – del significato della formula usata dal legislatore nell’art. 98 C.p. […]
Premesso tutto ciò, deve rilevarsi che i periti hanno ritenuto immaturo sul piano psicologico il Pelosi perché presentava:
a) Una notevole povertà di contenuti culturali, evidenziata dalla incapacità di uscire dal particolare per esprimere una valutazione critica della situazione. Hanno affermato i periti in dibattimento che «malgrado le nostre domande non è emerso un suo concetto sulla funzione del lavoro, della giustizia, della vita politica, della scuola, il tutto era ridotto al contingente senza alcun giudizio critico», anche se hanno pure ammesso che «il ragazzo è in grado di dare alcuni giudizi morali ma riteniamo che questi giudizi non siano tali da raggiungere la maturità che dovrebbe avere in rapporto all’età cronologica».
b) Una superficialità affettiva per carenza affettiva larvata del soggetto con le figure genitoriali.
c) Una conseguente debole strutturazione dell’Io e delle sue funzioni per una non raggiunta fase della propria identità intesa come consapevolezza del raggiungimento di uno stile individuale. Ritiene il collegio di poter condividere il giudizio dei periti sulla povertà culturale e sulla superficialità affettiva del Pelosi: il problema è però quello di vedere se tale povertà e superficialità sia di cosi alto livello da escludere del tutto la capacità di intendere il significato antisociale dell’uccisione di un uomo e di essere inconsciamente determinato a un atto di così rilevante gravità, o se invece essa possa giustificare la diminuente di pena per la minore età e la concessione di eventuali attenuanti ma non escludere tale capacità.
Al riguardo il collegio osserva:
– che il non essere in grado di concettualizzare la funzione del lavoro, della giustizia, della vita politica, della scuola non implica di necessità una incapacità di valutare il significato della vita e di comprendere l’elementare concetto che non si può privare un uomo di tale bene. Anche perché, se si può non avere una concreta e interiorizzata esperienza del lavoro, della scuola, della giustizia, della vita politica, si ha certamente una profonda esperienza personale di cosa significa vivere e di come la vita debba essere preservata. Questo anche perché l’elementare concetto che la vita è un valore e l’uccisione di un essere umano un disvalore è largamente percepito in ogni ambiente sociale e largamente trasmesso come un punto fermo in una sia pur traballante scala generale dei valori della nostra vita comunitaria;
– che gli stessi periti hanno riconosciuto che il Pelosi non è assolutamente privo della capacità di formulare o esprimere giudizi etici: ma se una anche elementare capacità sussiste in questo campo non può non riconoscersi che la valutazione negativa della uccisione di un uomo doveva essere presente in un soggetto di quasi diciassette anni e mezzo;
– che il Pelosi non è affatto apparso tanto sprovveduto culturalmente nel corso del procedimento: ha saputo infatti imbastire con estrema abilità una tesi difensiva che occultasse la realtà di ciò che all’Idroscalo era effettivamente avvenuto e ha mantenuto tale tesi senza cedimenti lungo tutto l’arco dell’istruttoria e del dibattimento […]; ha mostrato di non lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti ma di saperli prevedere e controllare […]
– che le carenze affettive familiari possono aver ritardato un regolare processo di strutturazione dell’Io e di compiuta assunzione di una identità, ma che questo non appare sufficiente a escludere che il Pelosi potesse percepire il significato antisociale dell’atto omicida e fosse in grado di autodeterminarsi in ordine a un fatto di così rilevante gravità.  […]
– come il Tribunale ha accertato, con freddezza venne architettata una abile tesi difensiva che il Pelosi ha saputo mantenere anche di fronte a tutte le contestazioni; non si può pertanto dubitare che l’imputato aveva al momento del fatto quella capacità di intendere e di volere che lo rende pienamente imputabile.
Accertato che il Pelosi ha realmente commesso i delitti ascrittigli e ritenutane la piena imputabilità, occorre infine procedere alla determinazione della pena equa.
Deve a tale scopo osservarsi in via preliminare che la compiuta istruttoria dibattimentale ha confermato il fondamento, anche giuridico, delle contestazioni, mettendo in luce che il Pelosi pose in essere comportamenti indirizzati al perseguimento di fini autonomi, e cioè azioni diverse, in momenti diversi. Tali autonome azioni non si inseriscono in un piano criminoso unitario e quindi deve escludersi il vincolo della continuazione tra i vari delitti. Da questo punto di vista deve essere sottolineato che lo stesso furto dell’auto del Pasolini è stato contestato come aggravato solo perché commesso al fine di conseguire l’impunità del delitto di omicidio.
Ne deriva che anche nell’esercizio del potere discrezionale di determinare l’entità della pena i delitti contestati possono essere diversamente considerati. […]
Per l’omicidio, ferma la gravità del reato per tutte le ragioni esposte in precedenza, debbono trovare considerazione alcuni degli elementi già messi in luce nell’affrontare il problema dell’accertamento dell’imputabilità. […] È pacifico che il Pelosi appartiene a un gruppo sociale di livello culturale abbastanza povero e che nelle dinamiche dei rapporti familiari deve esserci qualche motivo di disturbo che può dar ragione dell’instabilità scolastica prima e lavorativa poi e della attività criminosa anteriore a quella che è oggetto del presente procedimento.
[…] Ponendo come base per i delitti di atti osceni e di omicidio la pena, rispettivamente di mesi tre e anni 21 di reclusione, attraverso la concessione delle attenuanti generiche e con la diminuente della minore età di obbligatoria applicazione, si perviene alla pena rispettivamente di mesi uno e giorni 10 e anni 9 e mesi 4 di reclusione.
Lievemente diverso è il problema della determinazione della pena per il delitto sub c) e cioè per il delitto di furto pluriaggravato dell’auto del Pasolini. Per questo reato infatti pur rimanendo ferma la concessione delle attenuanti generiche fondata su ragioni di equità, e della diminuente della minore età, deve innanzi tutto affermarsi che può ritenersi la equivalenza tra attenuanti e aggravanti contestate. Nell’applicare la pena prevista per il furto semplice deve essere tuttavia tenuto presente che il Pelosi è stato già altre volte arrestato per furto d’auto e che pertanto la sua capacità a commettere tale tipo di reato […] è abbastanza elevata. Pena equa stimasi pertanto quella di mesi due di reclusione e lire 30.000 di multa.
La condanna per il più grave delitto di omicidio importa necessariamente anche la pena accessoria della perpetua interdizione dei pubblici uffici ai sensi dell’art. 29 C.p.
Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali e di custodia preventiva.

P.Q.M., Visti gli artt. 483, 488 C.p.p. dichiara Pelosi Giuseppe colpevole del delitto di omicidio volontario in concorso con ignoti, così modificato al capo b) della rubrica, nonché degli altri delitti a lui ascritti e, con la diminuente della minore età e la concessione delle circostanze attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle aggravanti relative al delitto di furto, lo condanna alla pena complessiva di anni 9 mesi 7 e giorni 10 di reclusione e lire 30.000 di multa oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia. Visto l’art. 29 C.p. dichiara Pelosi Giuseppe perpetuamente interdetto dei pubblici uffici.

Roma, 26 aprile 1976

Tribunale composto da Alfredo Carlo Moro, Presidente; Giudici: Giuseppe Salomè, Matteo Guarino, Maria Grazia Milone.

Pasolini. Disegno di Davide Toffolo (2011). Tecnica mista su cartoncino
Pasolini. Disegno di Davide Toffolo (2011). Tecnica mista su cartoncino

III. Sentenza della Corte d’Appello
4 dicembre 1976

[…] In sostanza ogni strada è stata percorsa e  tutte le indagini ragionevolmente possibili sono state svolte e hanno avuto esito negativo, come risulta dai relativi atti allegati al processo […] Nessun elemento è emerso che potesse essere utilmente fatto oggetto di ulteriori accertamenti da parte del Tribunale, e che possa ora giustificare l’avvio di una attività istruttoria da parte della corte. Non sono ravvisabili, in definitiva, lacune di sorta negli accertamenti compiuti in primo grado, cui occorra rimediare attraverso una rinnovazione di indagini, la quale non soltanto sarebbe quanto mai aleatoria e riferibile, al di fuori della funzione del dibattimento, a oggetti privi di sufficiente concretezza, ma non potrebbe consistere che nella negativa ripetizione di tentativi di ricerca già inutilmente compiuti. […]
La corte non ritiene di dover procedere a una più estesa analisi dell’intera narrazione dell’imputato, che pure presenta non pochi elementi di inattendibilità, ma di dover prima tentare di accertare se egli abbia agito da solo, come si sostiene nei motivi d’appello, oppure insieme ad altri, come ha affermato la sentenza impugnata. Quest’accertamento, se dovesse concIudersi nel secondo senso, sarebbe infatti risolutivo quanto alla natura dolosa del fatto.
Va ancora una volta ribadito che nessun dubbio consistente circa la partecipazione di terzi al delitto trae origine da elementi o da seri sospetti ricavabili da dati diversi da quelli offerti dal racconto dell’imputato e dall’analisi dei reperti, delle tracce, dei risultati delle perizie: cosicché si tratta di vagliare se questi dati giustificano le deduzioni attraverso le quali il Tribunale è giunto a una ricostruzione del delitto implicante il concorso di altre persone.
Un elemento essenziale di tale ricostruzione è la scissione della vicenda in due fasi ben distinte, la prima delle quali, secondo la sentenza impugnata, si sarebbe svolta vicino alla porta del campo di calcio, la seconda nel luogo in cui il corpo di Pasolini tu ritrovato. A questo riguardo il Tribunale attribuisce determinante valore al rinvenimento della camicia di Pasolini nella prima zona, e inoltre al fatto che sul terreno dell’area di rigore furono rilevate impronte di scarpe con suola gommata (probabilmente scarpe da tennis) sicuramente non appartenenti né a Pelosi né a Pasolini, e insieme a esse altre numerose impronte denuncianti che nell’area della porta vi fu quella notte un notevole movimento di persone. Vari indizi portano poi a ritenere che il bastone e la tavola siano stati usati soltanto all’ultimo momento. […]
La corte rileva in contrario un primo dato di grande importanza e dal Tribunale taciuto: ed è che nella zona attorno alla porta del campo di gioco e al punto in cui la camicia rimase abbandonata non è stata trovata la minima traccia di sangue. Se si considera che avrebbe dovuto trattarsi (dato lo stato in cui fu rinvenuta la camicia) di perdite di sangue abbondanti, le quali certamente avrebbero lasciato tracce vistose sul terreno, si può subito negare con tutta sicurezza che vi sia stata una prima aggressione nel modo e nel luogo ritenuti dal Tribunale.
Per di più alle impronte di scarpe gommate, le quali avrebbero costituito un elemento di per sé decisivo se si fosse potuto stabilire che furono lasciate contestualmente alla vicenda delittuosa, non è invece possibile attribuire alcun rilievo indiziario. La sentenza impugnata si dà carico di escludere che le impronte potessero essere state lasciate sul terreno dopo il delitto (e in particolare da un gruppo di ragazzi che giocarono a pallone nella mattinata del 2 novembre, ma quando i rilievi della polizia erano già stati eseguiti); trascura però di domandarsi se non potessero essere state lasciate prima, e precisamente nel corso della giornata festiva del 1° novembre, in cui è probabilissimo che il campo di calcio fosse stato frequentato da giovani giocatori, come fa ritenere il fatto che sul posto fu rilevata la confusa presenza anche di moltissime altre impronte. Così stando le cose, e non essendo stato possibile escludere che queste altre numerose impronte fossero state lasciate in ore precedenti e tanto meno attribuirle soltanto a Pelosi e Pasolini, non si può assegnare alle impronte di scarpe gommate, solo perché isolabili per la loro peculiarità, alcun significato.
Approfondendo l’analisi delle deduzioni del Tribunale, si deve poi rilevare che appare difficilmente spiegabile perché mai l’uso iniziale di strumenti di offesa più consistenti ed efficaci, che sarebbero stati sufficienti a far stramazzare la vittima, avrebbe dovuto essere seguito dall’impiego di strumenti meno efficienti (e che peraltro i periti hanno giudicato perfettamente idonei a provocare le lesioni riscontrate). Se ne deduce che la scissione dell’aggressione in due distinte fasi sarebbe resa meno verosimile dall’uso dei mezzi supposti dal Tribunale: ma più in generale essa appare meno verosimile in rapporto all’ipotesi stessa della presenza di più aggressori, i quali è difficile credere che avrebbero concesso a Pasolini una tregua sufficiente per sfilarsi la camicia e asciugarsi il sangue, o ai quali certo più difficilmente egli sarebbe riuscito per qualche tempo a sfuggire. Cosicché l’episodio della camicia, pur restando oscuro per più aspetti, s’accorda meglio con l’ipotesi che Pasolini e Pelosi siano stati soli a fronteggiarsi, e non può essere affatto utilizzato per desumerne la partecipazione di terzi all’aggressione.
Gli altri elementi che la sentenza impugnata ha considerato come indizi del concorso di più persone sono i seguenti:
– nell’automobile di Pasolini furono rinvenuti un golf verde e un pIantare per scarpa destra non appartenenti né a lui né al Pelosi;
– non furono rinvenuti il pacchetto di sigarette e l’accendisigari che il Pelosi, prima di scendere dall’auto insieme a Pasolini, posò sul portaoggetti situato vicino al cambio;
– sul tetto della macchina furono rinvenute, dalla parte del passeggero, incrostazioni di sangue di Pasolini: nessuna traccia di sangue di Pasolini fu invece rinvenuta dall’altro lato dell’automobile, né, soprattutto, sul volante;
– troppo scarse furono le tracce di sangue rimaste addosso a Pelosi, in rapporto all’entità delle emorragie subite da Pasolini e alle modalità della colluttazione descritte dall’imputato; troppo scarse ugualmente, le lesioni riportate da Pelosi, in confronto a quelle riportate da Pasolini;
– il calcio ai testicoli fu troppo violento e preciso per poter essere stato assestato durante una colluttazione a due, svoltasi a distanza ravvicinata;
– un pezzo del paletto e un frammento della tavola furono entrambi trovati sotto il corpo di Pasolini (il che fa pensare a un uso  contemporaneo dei due legni da parte di più persone); l’altro pezzo del paletto e i due della tavola furono trovati a notevole distanza fra loro (il che fa pensare che siano stati presi e gettati via da persone diverse, anche perché la tavola, più insanguinata, avrebbe lasciato su Pelosi maggiori tracce di sangue);
– il tempo di circa un’ora fra l’arrivo all’Idroscalo e l’arresto dell’automobile da parte dei Carabinieri non poté essere tutto impiegato nel modo raccontato da Pelosi (il che fa presumere che il tempo vuoto sia stato utilizzato per decidere una comune linea di condotta tra le più persone che avevano partecipato all’aggressione).
Ancora una volta gli elementi che potrebbero avere rilevanza decisiva, il plantare e il golf appartenenti a sconosciuti, rinvenuti nell’automobile,  si rivelano in realtà privi di valore indiziario. La loro importanza dovrebbe desumersi, nell’argomentazione del Tribunale, dal fatto che la mattina del 31 ottobre la cugina di Pasolini (teste Chiarcossi) ripulì sommariamente la macchina e non li notò. Ma è da ritenere che quando fece, secondo le sue parole, “un minimo di pulizia” della vettura (probabilmente, come ha detto in istruttoria, ma non sicuramente, il giorno 31), la teste non vide i due oggetti perché il plantare si trovava in posizione nascosta (cioè sotto il sedile del posto di guida) e perché il golf si trovava nel portabagagli (ove fu rinvenuto al momento dell’ispezione, e non sembra da ritenere più attendibile, come fa il Tribunale, il ricordo dei due Carabinieri che fermarono Pelosi, secondo i quali il golf sarebbe stato sul sedile posteriore insieme agli altri indumenti rinvenuti, giacché non si spiegherebbe perché durante le poche ore precedenti l’ispezione esso soltanto, e non gli altri oggetti di vestiario, sarebbe stato spostato nel bagagliaio). In ogni caso non sarebbe possibile escludere che il plantare e soprattutto il golf siano stati lasciati nell’autovettura da qualche accompagnatore di Pasolini dopo la ripulitura da parte della Chiarcossi, cioè nel corso delle giornate del 31 ottobre o dello stesso 1° novembre, durante il quale la macchina, secondo le dichiarazioni istruttorie della stessa Chiarcossi, fu usata due volte prima di sera. Senza dire che ben poco verosimile è che qualcuno abbia potuto togliersi il golf di dosso nella fredda notte del delitto; e inoltre i supposti complici, se veramente avessero freddamente concordato col Pelosi la linea di condotta immaginata dal Tribunale, avrebbero certamente avuto cura di non lasciare loro tracce sull’automobile.
Maggiore rilievo deve essere invece attribuito al mancato rinvenimento, nell’interno dell’autovettura e sul luogo del delitto, dell’accendisigari e del pacchetto di sigarette che Pelosi ha detto di aver lasciato nella macchina e che ricercò subito dopo l’arresto. In effetti, se egli li lasciò veramente sul portaoggetti della vettura, la loro sparizione non sarebbe facilmente spiegabile. Non può però escludersi che il ricordo dell’imputato non sia stato preciso, o il suo racconto non sia stato fedele, e che ad esempio egli abbia nuovamente fumato dopo essersi lavato le mani alla fontana e abbia smarrito i due oggetti in quel luogo, o che questi, caduti a terra sullo spiazzo dell’Idroscalo, siano stati prelevati da una delle persone che giunsero sul posto prima dell’arrivo della polizia. Deve anche osservarsi che l’ipotesi del prelevamento da parte di supposti complici non s’accorderebbe con l’atteggiamento tenuto da Pelosi quando fu fermato giacché egli si sarebbe ben guardato dal far balenare la possibilità che accendisigari e sigarette potessero essere stati presi da altre persone. Tutto ciò, peraltro, non toglie che la circostanza della sparizione desti qualche perplessità, anche se non è possibile ritenerla un indizio univoco nel senso voluto dal Tribunale.
– Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull’imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi, l’assenza di tracce di sangue di Pasolini sul volante e la presenza d’una traccia sul tetto dell’autovettura dal lato opposto a quello di guida, il rinvenimento di frammenti di due corpi contundenti sotto il corpo della vittima. Che questi elementi possano spiegarsi con l’ipotesi della partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare. Il Tribunale ha fatto di essi una analisi acuta e dettagliata, senza però raffrontarli a sufficienza con l’ipotesi alternativa che Pelosi fosse solo, mentre è evidente che, se con questa essi si mostrassero compatibili, la loro forza indiziaria ne sarebbe incrinata. Orbene, se si procede a questo necessario raffronto, si deve ammettere che la detta compatibilità non può essere esclusa rispetto a nessuno degli elementi considerati.
Per quanto riguarda, in primo luogo, la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti, essa certo s’accorda malamente con la versione dell’imputato, ma può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato aggredito, sia stato lui ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall’agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1.67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente d’una determinazione a offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d’improvviso. Cosicché, a questo riguardo perde altresì importanza stabilire se le due più rilevanti lesioni riscontrate su Pelosi gli furono prodotte da Pasolini o furono da lui riportate nel brusco arresto della macchina quando fu fermato dai Carabinieri.  […]
Ciò che qui è da rilevare, a ogni modo, è che la lieve entità delle lesioni subite da Pelosi non è indice univoco della presenza di altre persone, ma al contrario, e a maggior ragione se le due lesioni più importanti furono da lui riportate nell’automobile,  può convalidare l’ipotesi d’una aggressione improvvisa e violenta da parte sua, alla quale Pasolini non poté reagire in modo efficace.
Ciò vale anche a fornire una plausibile spiegazione della limitatezza delle tracce di sangue di Pasolini riscontrate su Pelosi. Queste tracce, in verità, non furono sproporzionate a quelle rinvenute nell’ambiente circostante. E vero, infatti, che l’imbrattamento della camicia e le macchie sulle tavole e sul bastone dimostrano che Pasolini subì forti emorragie, ma il luogo del delitto non rimase cosparso di sangue in modo esteso (oltre alle chiazze sotto il corpo, soltanto tre piccole macchie e alcuni schizzi in zona, a circa sette metri dal cadavere, secondo la descrizione della polizia scientifica), cosicché non pare esatta l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui le percosse con i corpi contundenti dovettero provocare veri e propri getti di sangue. D’altra parte sangue di Pasolini è stato rinvenuto sul polsino sinistro della maglia a carne di Pelosi, sulla parte terminale del suo pantalone destro e sotto la suola di una scarpa, e altre tracce possono essere state completamente eliminate con il lavaggio, senza che ne rimanessero residue sbavature. Senza dubbio l’imputato sarebbe rimasto sporcato in maniera più evidente se la lotta, com’egli ha dichiarato, si fosse svolta in fasi alterne con continui afferramenti, senza che fino all’ultimo egli riuscisse ad avere il sopravvento. Ma da ciò, come s’è detto, si può trarre la deduzione che egli abbia mentito intorno allo svolgimento della colluttazione, e non soltanto desumere che egli abbia avuto una parte secondaria nella vicenda e Pasolini sia stato colpito anche da altri.
Anche la presenza di una piccola traccia di sangue di Pasolini sul lato destro del tetto dell’autovettura (immediatamente al di sopra dello sportello posteriore) e l’assenza di tracce sul volante possono spiegarsi in modo diverso da quello supposto dal Tribunale. Anzitutto può ipotizzarsi che Pelosi, lasciato Pasolini esanime al suolo e direttosi nuovamente verso l’area della porta, abbia urtato contro il tetto dell’autovettura.
[…] Che poi il volante non sia rimasto sporco di sangue di Pasolini può spiegarsi pensando che Pelosi ne fosse imbrattato solo al dorso delle mani e non sulle palme – cosa del tutto verosimile se durante l’intera aggressione egli continuò a stringere nelle mani uno dei corpi contundenti, con cui può anche aver cagionato lo strappo della ciocca di capelli rinvenuta sul terreno – oppure che si fosse in qualche modo ripulito strofinando le palme sulla camicia di Pasolini o più probabilmente sullo straccio celeste, trovato in terra sporco di sangue di Pasolini, oppure ancora che prima di salire in macchina abbia indugiato i pochi minuti sufficienti a far coagulare le macchie che avesse avuto sulle palme, o infine che le incrostazioni rimaste sul volante siano state asportate dal successivo attrito delle mani di Pelosi stesso e di chi guidò poi la macchina fino alla caserma.
Le possibili spiegazioni, tutte ragionevoli, sono dunque più d’una, e per conseguenza a quella prospettata dal Tribunale non può essere attribuito il preteso valore.
La stessa cosa è da dire quanto alla contemporanea presenza di frammenti dei due corpi contundenti sotto e intorno al corpo di Pasolini. Anche a questo riguardo la supposizione fatta nella sentenza impugnata, che i due legni siano stati usati nello stesso tempo da diverse persone, è in astratto ammissibile, ma non può escludersi che sia stato soltanto Pelosi ad adoperarli nello stesso luogo in tempi consecutivi, tanto più se la vittima, già raggiunta dai calci ai testicoli, era ormai già immobilizzata e probabilmente in ginocchio, fino a quando, colpita ancora ripetutamente, cadde bocconi. […]
Da ultimo la corte deve attribuire mero valore congetturale alle induzioni che la sentenza impugnata vuole trarre dalla precisione e violenza del calcio ai testicoli, che sarebbe stato inferto da uno dei complici mentre Pasolini veniva tenuto da altri, e dal tempo di circa un’ora trascorso fra l’arrivo all’Idroscalo e l’arresto dell’imputato, che sarebbe stato in buona parte impiegato dai concorrenti per decidere il da farsi dopo il delitto. Trattasi in verità di illazioni che non sono suffragate da alcun elemento, non potendosi escludere che Pelosi sia riuscito a colpire Pasolini al basso ventre quando l’altro non se l’aspettava, né essendo in alcuna maniera individuabili i risultati della supposta concertazione, che del resto troverebbe spiegazione in una ricostruzione dei tempi basata sul racconto di Pelosi, per altri versi dimostratasi non credibile.
L’ipotesi del concorso appare poi improbabile per alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto non è facile ipotizzare che Pelosi e Pasolini siano stati preceduti o seguiti sul luogo del delitto da terze persone. I sospetti dovrebbero restringersi (com’è prospettato anche nella sentenza impugnata) agli amici con cui Pelosi si trovava al momento dell’incontro con Pasolini, perché questi soltanto avrebbero potuto sapere da Pelosi in quale luogo lui e Pasolini sarebbero andati, e là attenderli o raggiungerli, oppure avrebbero potuto seguire la macchina di Pasolini fino all’Idroscalo
Secondo la prima ipotesi, l’informazione avrebbe potuto essere data da Pelosi quando egli ritornò a piazza dei Cinquecento, dopo circa mezz’ora, per richiedere al Seminara le chiavi di casa (e in quel momento la scelta dell’Idroscalo avrebbe già dovuto essere stata concordata con Pasolini). Stando invece alla seconda ipotesi, gli amici di Pelosi avrebbero dovuto porsi all’inseguimento della macchina di Pasolini, arrestarsi e attenderla durante le soste, non perderla di vista fino all’Idroscalo.
Ma se la prima alternativa fosse vera, cioè se il piano criminoso fosse stato concordato quando Pelosi ritornò indietro, è da credere che tutti avrebbero taciuto di questo ritorno, che invece fu subito dichiarato sia da Pelosi sia dai suoi amici uditi come testi. Se invece i compagni di Pelosi avessero deciso di seguire i due, è da supporre che l’inseguimento sarebbe incominciato subito, senza che il gruppo si intrattenesse ancora per più di mezz’ora, come fece, in piazza dei Cinquecento. Se poi la decisione dell’inseguimento fosse stata presa dopo il ritorno di Pelosi, ancora una volta varrebbe l’osservazione che verosimilmente questo ritorno non sarebbe stato confessato.
D’altra parte, con riferimento alla prima ipotesi, deve osservarsi che è molto più verosimile che sia stato Pasolini, da cui era provenuto l’invito, a scegliere il luogo di destinazione, quasi certamente a lui noto per averlo frequentato altre volte (così come scelse la trattoria per la cena, dove, a detta del teste Panzironi, si era più volte recato), mentre nessun elemento è emerso da cui possa desumersi che Pelosi lo conoscesse. (La contraria illazione che il Tribunale ha voluto desumere dal fatto che Pelosi, quando volle lavarsi le mani e i vestiti, arrestò l’automobile prima della piazza in cui si trovava la fontana, appare arbitraria, posto che si trattò di una distanza di pochi metri, appena dieci o quindici dalla fontanella, e l’imputato è credibile quando dichiara che decise di non parcheggiare la macchini rubata nella piazza perché temeva che qualcuno lo vedesse). […]
Con riferimento all’ipotesi dell’inseguimento deve invece rilevarsi anche l’improbabilità che gli inseguitori, rimasti all’esterno della trattoria in attesa che Pasolini e Pelosi finissero la cena, non siano stati notati dal trattore che accompagnò i due clienti all’uscita del locale (teste Panzironi), né successivamente, al distributore di benzina, dall’altro automobilista sopraggiunto (teste De Angelis). Con riferimento all’una e all’altra ipotesi non può poi non rilevarsi che, se è vero che Pasolini, come afferma la sentenza impugnata, aveva motivi di diffidenza verso i compagni di Pelosi, egli non avrebbe mancato di mettersi in sospetto e invertire la marcia notando le luci del veicolo inseguitore. Inoltre è assai importante la circostanza che nessuna traccia di veicoli, oltre quelle ben evidenti lasciate dall’auto di Pasolini, sia stata trovata sul terreno dell’Idroscalo.
Quanto alla conciliabilità dell’ipotesi del concorso con l’atteggiamento tenuto dal Pelosi dopo l’omicidio, le ragioni di dubbio sono molteplici. In primo luogo non pare credibile che Pelosi non avrebbe lasciato il luogo del delitto insieme con i suoi complici, a bordo del veicolo o dei veicoli da loro utilizzati per arrivare sul posto. Anche se si temeva che Pelosi avrebbe potuto alla fine essere rintracciato attraverso le testimonianze del De Angelis e del Panzironi, per le autorità inquirenti egli sarebbe stato l’unico addentellato per poter giungere all’identificazione dei concorrenti, e costoro avrebbero avuto tutto l’interesse a occultare ogni connessione fra lui e il delitto, in primo luogo non esponendolo a essere trovato in possesso dell’automobile di Pasolini. Se poi nel piano comune fosse rientrato anche il furto dell’autovettura, o se per altra non comprensibile ragione si fosse deciso di far esporre Pelosi all’arresto, concordandosi che avrebbe allora dovuto raccontare di essersi difeso perché era stato aggredito, ebbene in tal caso Pelosi, per essere credibile, avrebbe subito dovuto avanzare questa versione una volta arrestato.  […]
In definitiva, le conclusioni che da tutta la disamina che precede la corte trae intorno alla possibilità della partecipazione di altre persone al delitto, anche se non possono essere espresse in termini di totale e assoluta certezza, sono tuttavia sufficientemente tranquillanti, e possono essere riassunte come segue:
a) Un primo punto è certo, ed è che non può assolutamente essere condivisa, e anzi deve essere considerata ingiustificata alla luce di una più approfondita e completa analisi dei fatti, la sicurezza con cui il giudice di primo grado ha affermato l’esistenza del concorso di persone. Non esiste infatti alcuna prova fisica della presenza di terzi sul luogo del delitto: ma non esiste neppure quella molteplicità di indizi seri e concordanti, per la quale i singoli elementi, pur se dubbi o insufficienti ove presi singolarmente, acquisterebbero forza probante proprio in virtù della loro coesistenza. I dati che il Tribunale ha considerato imponenti e univoci, e dunque decisivi anche perché collegati all’esistenza di prove positive della presenza di altre persone, sono invece per la massima parte – come s’è visto ampiamente – inesistenti o labili, e per la parte residua privi di univocità, cioè perfettamente compatibili anche con l’ipotesi che Pelosi abbia commesso da solo il delitto.
b) La valutazione complessiva delle circostanze, dei tempi, delle possibilità in genere del raggiungimento del luogo del delitto da parte di altre persone, la mancanza di tracce della presenza di altri sul luogo del delitto, nonché la supposizione del comportamento successivo che i concorrenti, compreso il Pelosi, avrebbero ragionevolmente dovuto tenere, portano a escludere, piuttosto che ad ammettere, l’ipotesi del concorso. Certo, la possibilità che chi ha commesso un omicidio tenga atteggiamenti irragionevoli non può essere negata, ma la cosa è meno verosimile quando si tratti di un delitto preordinato da più persone, che denuncia maggiore freddezza di propositi e quindi maggiore capacità, almeno da parte di qualcuno dei compartecipi, di concepire e imporre la condotta che meglio possa servire ad assicurare l’impunità. Ciò che deve recisamente escludersi, a ogni modo, è che il comportamento tenuto da Pelosi dopo il delitto possa essere meglio spiegato, come si pretende nella sentenza impugnata, se lo si collega alla complicità di altre persone.
c) Restano tuttavia alcuni lievi margini di dubbio sul concorso di terzi, nascenti da alcune lacunosità del racconto di Pelosi e dalla astratta possibilità di interpretare in maniera diversa alcune delle circostanze sopra esaminate: in particolare la sparizione dell’accendisigari e delle sigarette, il ritrovamento di pezzi del bastone e insieme della tavola sotto il corpo di Pasolini, la sproporzione fra le lesioni subite dalla vittima e quelle riportate dall’imputato: e insieme a esse la ciocca di capelli ritrovata prima del punto in cui Pasolini cadde, che potrebbe far pensare che egli sia stato afferrato mentre fuggiva: la stessa distanza fra l’automobile e il punto di caduta, che pure potrebbe essere attribuita a un tentativo di fuga. Trattasi però di circostanze che possono tutte trovare spiegazioni anche escludendo che Pelosi fosse con altri, e dunque non costituiscono indizi univoci del concorso di persone.
In definitiva, esprimendo il proprio definitivo giudizio sull’ipotesi del concorso di altri nell’omicidio, la corte afferma di ritenere estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici.
Quanto alle conseguenze giuridiche di tale residua e pur marginale incertezza, esso impedisce certo di affermare che su tutte le modalità del delitto si sia potuto fare piena luce (ciò che del resto era tanto più vero secondo la tesi della sentenza impugnata, la quale dal suo punto di vista non ha certo potuto chiarire quale sarebbe stato il numero dei concorrenti, quale la concreta partecipazione di ognuno, quale la ragione del supposto concerto criminoso), ma non ha influenza sull’accertamento della responsabilità dell’imputato, accertamento che non rimane pregiudicato – come s’è detto a proposito della correlazione fra accusa e sentenza – dal lieve dubbio residuale che Pelosi possa avere ucciso Pasolini anche con l’aiuto di terzi.
In linea giuridica, invero, vale il principio che, quando il giudice non arriva ad appurare in maniera totale e dettagliata ogni modalità del fatto criminoso, non ne rimane perciò incrinato il giudizio di colpevolezza ove sia dissolto ogni dubbio sugli elementi essenziali dell’azione e sul rapporto di causalità fra l’azione stessa e l’evento: in particolare, poiché nel diritto penale la concausa è trattata come causa, la residua incertezza che non sia stato possibile sciogliere intorno al carattere concorrente o esclusivo dell’azione non influisce sull’accertamento del nesso di causalità.
Mentre l’opinione che Pasolini fosse stato vittima di più persone aveva facilitato al Tribunale il proprio giudizio sulla colpevolezza dell’imputato, essendo implicito nella partecipazione di più complici il carattere doloso dell’azione di tutti i compartecipi, la corte deve ora giudicare della colpevolezza muovendo dal presupposto che Pelosi agì da solo: ma ritiene ugualmente, con tranquilla coscienza, che non possa aversi alcun dubbio sulla natura dolosa dell’azione dell’imputato e sull’assenza di cause di giustificazione.
Alla formazione di questo fermo convincimento valgono già gran parte dei rilievi fin qui fatti, e innanzitutto l’acclarata falsità del racconto dell’imputato, che certamente non appare attribuibile, se collegata con i dati obiettivi, a un maldestro tentativo di difesa.
S’è visto che la narrazione di Pelosi s’è rivelata anzitutto menzognera in rapporto alla circostanza della camicia e dell’effetto dei calci ai testicoli. Ma le sue menzogne non finiscono qui. È falsa, in primo luogo, l’affermazione che egli non sapeva di essersi accompagnato con Pasolini. In piazza dei Cinquecento lo scrittore era stato riconosciuto dagli amici dell’imputato, due dei quali avevano anche conversato con lui, gli avevano proposto un giro in macchina e scherzando gli avevano chiesto una particina in un film. Sia i due sia il Seminara dissero a Pelosi che l’uomo della macchina era Pasolini. […]
Le menzogne sulla conoscenza dell’identità di Pasolini e delle sue tendenze sono evidentemente un accorto tentativo di non far apparire che egli aveva accettato l’idea delle prestazioni sessuali che poi sostenne di non aver voluto, e per opporsi alle quali avrebbe reagito. L’imputato si è reso ben conto che la sua versione d’essersi difeso contro un’aggressione alla libertà sessuale sarebbe stata in contraddizione con un suo iniziale consenso a rapporti sodomitici indifferenziati, e ha contestato ogni elemento da cui quel consenso potesse implicitamente apparire.  […]
Quanto alla materialità dell’aggressione, che secondo l’imputato sarebbe stata tale da giustificare la propria violenza difensiva, la corte rileva che se si ricerca a fondo nel suo racconto, anche senza voler tener conto delle incongruenze di cui è infarcito, in quale modo l’aggressione stessa si sia estrinsecata, non si trova nulla che possa far credere che la libertà sessuale dell’imputato o la sua integrità fisica siano state veramente messe in pericolo o siano potute a lui apparire gravemente minacciate.  […]
È ben vero che qualche lesione Pelosi l’ha riportata, e dunque un qualche scambio di colpi fra lui e Pasolini ci deve essere stato, ma la sola ipotesi che appare verosimile, data la sproporzione delle conseguenze dall’uno e dall’altro subite e date le caratteristiche di molte delle lesioni riscontrate sul corpo di Pasolini (contusioni a carico dell’avambraccio e del dorso delle mani, che secondo i periti denotano un atteggiamento difensivo), è che Pasolini si sia limitato a cercare di difendersi e, se pure raggiunse Pelosi con qualche percossa, lo fece soltanto per contrastare un attacco, senza avere l’intenzione o la possibilità di arrecare grave offesa, e probabilmente rimase  incredulo ulle reali intenzioni dell’altro, venendo ben presto raggiunto da colpi di calci ai testicoli che gli tolsero ogni capacità di resistere. Ciò è convalidato dal fatto che sul paletto sono stati trovati soltanto sangue e capelli di Pasolini, il che da un lato fa escludere che il legno sia stato da lui stesso usato, o semmai soltanto in una fase iniziale e (data la friabilità) senza particolare violenza, e dall’altro dimostra che Pelosi ebbe modo di adoperare entrambi i corpi contundenti, così come egli ha finito per ammettere (pur mentendo circa l’ordine del loro impiego, e mentendo altresì sul fatto che la tavola si sarebbe rotta a primo colpo, giacché tracce di sangue di Pasolini sono state trovate su entrambe le facce di tutti e due i pezzi) negli ultimi interrogatori.
In definitiva, la generale inattendibilità del racconto di Pelosi dimostrata dalle sue menzogne circa la camicia e circa le conseguenze dei calci ai genitali, l’incongruenza dei particolari da lui descritti, e infine l’analisi dei dati obiettivi portano a ritenere che, quando i due finirono per trovarsi, per ragioni che rimangono non chiare, a una cinquantina di metri dall’automobile (ma occorre ricordare che in uno dei suoi interrogatori l’imputato ha dichiarato che Pasolini gli aveva proposto di fare un giretto), vi dovette essere fra loro una colluttazione durante la quale Pelosi riuscì ad afferrare Pasolini per i capelli […] e a raggiungerlo con violenza ai testicoli. Subito dopo, mentre Pasolini era incapace di difendersi, lo colpì alla testa con il paletto; quindi prese la tavola e continuò a dar colpi con furiosa insistenza […]
Nello stesso tempo, si deve affermare che dal racconto dell’imputato non appare verosimile che Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenza carnale o altra immotivata aggressione fisica […j. […]
Infine, contro la tesi dell’aggressione si pone nettamente il comportamento successivo dell’imputato. A parte il fatto che la preoccupazione di disperdere i mezzi di offesa e di eliminare da sé ogni traccia di sangue coi lavaggio alla fontana, oltre che priva di giustificazione, sarebbe stata incompatibile con lo stato d’animo di chi avesse dovuto difendersi da una violenza, è certo che se Pelosi avesse agito per legittima difesa avrebbe mostrato ben diverso atteggiamento di fronte ai Carabinieri che lo fermarono: non avrebbe cercato di sfuggire loro per occultare il furto della macchina, avrebbe raccontato immediatamente l’accaduto, non avrebbe tentato di far apparire legittimo, come fece in un primo tempo, il possesso dell’automobile, e poi di far credere che se ne era impossessato in luogo e circostanze diversi […]
Intorno alla propria consapevolezza che Pasolini fosse a terra esanime sulla strada percorsa dall’automobile l’imputato ha fornito versioni contraddittorie. Ha detto infatti in dibattimento «credevo che l’uomo si fosse rialzato e se ne fosse andato»; «ero sconvolto perché forse si era recato al commissariato a denunciarmi»; ma ha detto anche «avrei fatto una telefonata anonima perché qualcuno andasse a soccorrerlo»; «non volevo assolutamente confessare l’omicidio ai Carabinieri perché avevo paura che mi picchiassero»; «per scherzare dissi in carcere a un amico che avevo ammazzato Pasolini»; e in istruttoria aveva detto «di lì  Pasolini non si mosse più»; «al mio vicino di cella dissi di avere ammazzato Pasolini perché pensavo che per tutte le botte che gli avevo dato e perché era rimasto lì fosse morto o potesse essere morto». Tale contrasto di dichiarazioni non sembra casuale, ma piuttosto diretto ad accreditare l’affermazione che quando ritornò verso la macchina egli era sconvolto e non fu più in grado di pensare o stabilire dove la sua vittima fosse o non fosse, non la vide più, non fu capace di rendersi conto che passando con l’auto avrebbe potuto investirla.
Ciò su cui, tuttavia, non può nutrirsi alcun dubbio è che l’imputato, quando cessò di vibrare colpi, per simulare un incidente o comunque confondere gli indizi, raccoglie i due pezzi della tavola e il pezzo più lungo del paletto (il più corto era rimasto sotto il corpo di Pasolini), raccoglie anche la camicia (non è infatti dubbio che questa deve identificarsi con lo “straccio o carta” di cui egli ha parlato, perché solo così si spiega che l’indumento sia finito accanto ai pezzi di tavola), pone attenzione a non insanguinarsi troppo e avvolge i pezzi di legno nella camicia, supera poi il punto in cui è l’automobile per andare a gettarli oltre la porta del campetto di gioco, in una zona erbosa e piena di detriti.
Successivamente, nonostante non conosca il tipo di autovettura, riesce ad avviarla, ad accendere le luci, a compiere con precisione una manovra di retromarcia, passando sotto la porta larga non più di sei metri.
A questo punto la narrazione dell’imputato comprende due circostanze del tutto inattendibili: la prima è che egli avesse il volto e gli occhi coperti di sangue, tanto da rimanergliene ostacolata la vista; la seconda è che fosse partito “a tutto gas” (interrogatorio del 5 novembre) e che la macchina sbandasse perché non riusciva a dominarla (interrogatorio dibattimentale). La prima circostanza è certamente falsa, poiché – come si è visto – egli non aveva riportato alla testa alcuna lesione che potesse produrgli una abbondante emorragia, né poteva essersi imbrattato a tal punto il viso entrando in contatto con Pasolini (cosa di per sé da escludere alla luce dei rilievi sopra fatti intorno allo svolgimento della colluttazione) senza che anche i suoi indumenti ne rimanessero sporcati in modo molto più vistoso. La seconda circostanza non è credibile perché la presenza di profonde buche nel terreno (salvo che nell’ultimo tratto più vicino al punto in cui giaceva Pasolini), che anche a detta dell’imputato facevano sobbalzare la macchina, non consentiva di spingere ai massimo la velocità e perché le tracce rimaste sul terreno non denotano alcuno sbandamento, ma sono invece perfettamente rettilinee.
Quanto all’illuminazione del percorso, l’imputato ha in un primo tempo dichiarato che aveva acceso le luci (interrogatorio del  2 novembre), poi che non ricordava se aveva acceso i fari (interrogatorio del 15 novembre), quindi che era riuscito ad accendere i fari e anche a riaccenderli dopo che essi si erano spenti durante la retromarcia (interrogatorio del 9 dicembre), infine (nel corso del dibattimento) che quando accese il quadro si accesero i fari, ma che non sapeva se fossero «le luci di posizione o altro».
Da tali dichiarazioni, le quali rivelano ancora una volta l’accortezza con la quale in dibattimento l’imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni, la corte trae la certezza che Pelosi non procedette con le insufficienti luci di posizione ma con i proiettori a luce abbagliante o anabbagliante, anche questi ultimi idonei, data la bassa velocità tenuta, a illuminare il corpo di Pasolini da una distanza sufficiente per riuscire a evitarlo.
Quanto a questa possibilità e alla conseguente volontarietà dell’investimento, la difesa ha preteso di attribuire molta importanza alla presenza di un’angolatura nella recinzione delimitante la strada, rasentando la quale l’automobile avrebbe necessariamente dovuto, seguendo un percorso rettilineo, passare sul punto in cui giaceva il corpo. Sta però di fatto:
a) che il corpo di Pasolini, posto in posizione obliqua rispetto all’asse stradale, aveva la testa a m 4,10 dalla recinzione delimitante la strada a sinistra secondo il senso di marcia dell’auto (e il tronco e le gambe a distanza ancora minore) e a m 8,50 dalla recinzione di destra:
b) che lo spigolo della recinzione di destra sopraddetto, oltre il quale la recinzione stessa subiva un’ampia rientranza, era a m 22-23 dal corpo:
c) che, se dopo l’investimento l’auto avesse conservato la medesima direzione rettilinea, che tenne fino al corpo, sarebbe andata poco dopo a urtare contro la recinzione di sinistra:
d) che in effetti, dopo il punto dell’investimento, le tracce dei pneumatici, com’è agevole rilevare dalle fotografie e dalla pIanimetria, deviano verso destra di quel tanto che fu sufficiente per riprendere la direzione esatta.
Se ne desume che l’imputato, a parte la cautela con cui avrebbe dovuto procedere sapendo della presenza del corpo di Pasolini, aveva uno spazio ampiamente sufficiente sia prima di raggiungere il corpo (m 22 partendo dallo spigolo della recinzione) sia sulla destra di esso (m 8,50), per evitare con tutta facilità di investirlo, senza dover compiere una brusca manovra ma soltanto con una lieve e progressiva correzione di direzione. Ma se ne desume anche che il percorso naturale dell’automobile, se il conducente non avesse voluto portarla proprio sopra il corpo, avrebbe piegato leggermente verso destra subito dopo lo spigolo della recinzione. Non è credibile, in altre parole, che una tale leggera necessaria deviazione sarebbe stata ritardata fino a che non fosse stato raggiunto il punto dove in effetti fu eseguita, e, correlativamente, si deve pensare che se fu operata proprio nel punto dell’investimento, quando le ruote di sinistra erano venute a trovarsi a meno di quattro metri dal limite sinistro della strada e a circa nove metri dal destro, ciò fu dovuto alla volontà di investire. Desta anzi impressione l’inesorabile precisione con cui, nelle fotografie. le tracce dell’automobile puntano direttamente fin da lontano verso il corpo di Pasolini, ne sormontano (quelle delle ruote di sinistra) il tronco, e riprendono poi, per effetto di una immediata correzione di marcia, la giusta direzione.
Da tutto quanto precede la corte ricava il duplice convincimento che, dopo aver colpito Pasolini con insistente reiterazione, Pelosi conservò il dominio di se stesso, e volle l’investimento con uguale determinazione.
La lucidità e freddezza del suo comportamento sono convalidate dall’atteggiamento che egli tenne subito dopo, quando, invece di fuggire in preda al panico, si preoccupò di eliminare le tracce della lotta che ancora conservava su di sé e si arrestò alla fontana, ebbe cura di non esporre troppo in vista la macchina rubata, si lavò accuratamente gli indumenti e le mani. Pochi minuti dopo, quando venne avvistato dai Carabinieri, decise immediatamente di darsi alla fuga guidando con perizia e elevatissima velocità, fu capace di simulare di arrestarsi per poi ripartire all’improvviso, seppe subito inventare bugie a proposito del furto dell’auto. La piena consapevolezza delle azioni che aveva compiuto e delle conseguenze di esse è poi dimostrata dalle dichiarazioni fatte la mattina successiva al suo vicino di cella, al quale disse che stava in prigione perché aveva ucciso Pier Paolo Pasolini. Ciò fa anzi supporre che, dopo l’investimento, egli possa essersi arrestato per assicurarsi che Pasolini non desse più segni di vita.
L’azione finale si collegò, dunque, nella sua fredda determinazione a quella precedente, quando Pasolini, ormai in balia del suo aggressore, venne colpito ripetutamente, senz’altro scopo che quello omicida, alla testa e alla nuca. Allo stesso modo Pelosi, salito sull’automobile, non soltanto non si curò di evitare il corpo di Pasolini giacente a terra, che sapeva bene dove fosse e che altrettanto bene vedeva alla luce dei fari, ma si diresse decisamente su di esso e non cambiò direzione che quando l’ebbe schiacciato con le ruote.
[…]
Quanto precedentemente esposto sulla mancanza di prova che il delitto di omicidio sia stato commesso da Pelosi in concorso con altri comporta l’eliminazione della modifica al capo b) della rubrica, apportata dal Tribunale.

P.Q.M. – Visto l’art. 523 C.p.p. in parziale riforma della sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma in data 26.4.76, appellata dall’imputato Pelosi Giuseppe e dal Pg, assolve Pelosi Giuseppe dal reato di atti osceni a lui ascritti al capo a) dell’imputazione e conferma le statuizioni della impugnata sentenza relativa ai due reati al Pelosi ascritti ai capi b) e c) dell’originaria imputazione

Roma, 4 dicembre 1976

Corte composta da: Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Presidente; Consiglieri: Almo Fratoni, Giovanni Del Basso, Maria Luisa Lanza, Marcello Vacchini.

Idroscalo di Ostia. Il monumento. Foto di Jordi Corominas i Julian
Idroscalo di Ostia. Il monumento. Foto di Jordi Corominas i Julian

IV. Sentenza della  Corte di Cassazione
26 aprile 1979

Svolgimento del Processo
Nella notte tra l’I e il 2 novembre 1975 fu ucciso al Lido di Ostia Pier Paolo Pasolini.
Il corpo, rinvenuto al mattino su una strada di fondo naturale conducente a uno spiazzo in parte occupato da un rudimentale campo di calcio, presentava gravi ferite alla testa e al torace. Sotto di esso furono rinvenuti frammenti di legno insanguinati; a pochi metri un anello con la scritta ‘United States Army” e una ciocca di capelli; più oltre, verso Io spiazzo, un paletto macchiato di sangue; infine, a 90 metri dal corpo, dietro la porta di sinistra del campo di calcio, gettati tra i rifiuti, due pezzi di una tavola rotta e una camicia di lana, macchiati anch’essi di sangue. Furono rilevate altresì tracce continue di pneumatici di autovettura che, partendo dai pressi della porta, raggiungevano direttamente il cadavere e proseguivano oltre.
Frattanto, all’una e trenta della stessa notte una pattuglia di Carabinieri aveva fermato un giovane, poi identificato per il diciassettenne Giuseppe Pelosi, che, sorpreso mentre guidava a forte velocità e contromano un’autovettura Alfa 2000, non si era arrestato all’alt. In caserma il giovane ammise di aver rubato l’auto (che risultò appartenere al Pasolini) e aggiunse tra l’altro di aver smarrito un anello (che dalla descrizione fattane risultò corrispondere a quello rinvenuto presso il cadavere).
Interrogato poche ore dopo dal magistrato, il Pelosi confessò di aver ucciso il Pasolini, sostenendo di aver agito per legittima difesa, dopo essere stato aggredito per essersi rifiutato di sottostare a una prestazione sessuale. Descrisse minutamente le vicende di quella notte, dall’incontro col Pasolini, verso le ore 22, presso la Stazione Termini, all’invito da lui ricevuto (del quale aveva ben intuito lo scopo), alla cena offertagli in una trattoria presso la Basilica di San Paolo, alle manovre tentate dal Pasolini dopo che avevano raggiunto lo spiazzo isolato alla periferia di Ostia, all’aggressione subita mentre cercava di sottrarvisi, alla sua viva reazione, protratta fino a quando aveva visto l’uomo cadere a terra rantolante, alla fuga – infine – con l’autovettura del Pasolini, durante la quale non si era accorto di essere passato sopra il corpo dello scrittore. Precisò che durante i fatti erano stati sempre soli, lui e il Pasolini.
In base agli elementi acquisiti si procedette contro il Pelosi per i delitti di omicidio, atti osceni e furto aggravato.
Nel corso dell’istruzione furono disposte, tra l’altro, due perizie medico-legali, l’una per accertare le cause della morte del Pasolini e i mezzi che l’avevano prodotta, l’altra per accertare le lesioni riportate dal Pelosi.
Risultò dalla prima che la morte del Pasolini era stata determinata da rottura del cuore, con emopericardio, causata dalla compressione esercitata sul torace dal passaggio del l’autovettura, che aveva cagionato la frattura del corpo sternale e di numerosi elementi costali. Dalla seconda risultò che, a prescindere dalle numerose dolenzie accusate dal Pelosi, l’esame obiettivo aveva consentito di riscontrare solo una ferita alla regione frontale e alcune contusioni ed escoriazioni di limitata entità in varie parti del corpo.
Altra perizia fu successivamente disposta per accertare se il Pelosi fosse capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Le conclusioni dei periti furono negative.
Ampie indagini furono inoltre svolte per accertare se col Pelosi, contrariamente al suo assunto, avessero concorso nei fatti altre persone.
Con sentenza del 26 aprile 1976 il Tribunale per i minorenni dichiarò il Pelosi colpevole di omicidio volontario, commesso in concorso con altre persone rimaste ignote, nonché dei delitti di atti osceni e di furto aggravato, e, con la diminuente della minore età e le circostanze attenuanti generiche (ritenute per il furto equivalenti alle aggravanti), lo condannò alla pena complessiva di anni nove, mesi sette e giorni dieci di reclusione e lire 30.000 di multa.
Contro la sentenza del Tribunale proposero appello il Procuratore generale e l’imputato. Entrambi denunciarono la nullità della decisione per difetto di correlazione con l’accusa contestata. Per il Pelosi furono inoltre formulate le seguenti conclusioni:
«Assolvere l’appellante dai reati di atti osceni e di furto con la formula più ampia, ovvero per insufficienza di prove: assolverlo dall’imputazione di  omicidio volontario per legittima difesa oppure per insufficienza di prove sul fatto o sul dolo; ritenerlo semmai colpevole di omicidio preterintenzionale o colposo e condannarlo al minimo della pena unificando i reati; riconoscere all’imputato le attenuanti di cui agli artt. 62 n° 1, 2, 5 e 62 bis, tutte prevalenti su qualsiasi aggravante; dichiarare l’imputato non punibile perché immaturo; ordinare la rinnovazione totale o parziale del dibattimento; concedere tutti i benefici di legge».
Specifiche impugnazioni furono contestualmente proposte contro alcune ordinanze pronunciate dal Tribunale nel corso del dibattimento.
La Sezione per i minorenni della Corte d’appello di Roma, con sentenza del 4 dicembre 1976, assolse il Pelosi dall’imputazione di atti osceni, mentre confermò le statuizioni della sentenza di primo grado relative agli altri due reati (omicidio e furto) ascritti al Pelosi, secondo “l’originaria imputazione” (non menzionante il concorso di ignoti).
Avverso tale decisione il Pelosi ha ritualmente proposto ricorso per Cassazione, a sostegno del quale sono stati presentati motivi, nei termini, dal difensore di fiducia.

Motivi della decisione
1. È opportuno premettere che il giudizio di questa Corte è limitato – nell’ambito delle funzioni di mera legittimità attribuitele – all’esame e alla soluzione delle questioni ad essa ritualmente sottoposte con i singoli specifici motivi di ricorso prodotti nell’interesse del Pelosi, unico ricorrente.
Ne restano escluse pertanto le varie e a volte complesse questioni, trattate ampiamente nelle fasi di merito, che non sono state riproposte in questa sede.
Nell’esposizione che segue saranno dunque esaminate specificamente le singole doglianze formulate nei sei motivi di ricorso prodotti, con i quali la decisione impugnata è stata censurata – sotto il profilo del vizio di motivazione – in ordine ai punti concernenti:
a) la rinnovazione del dibattimento;
b) la ricostruzione dei fatti;
e) la volontà omicida e l’esimente della legittima difesa;
d) le circostanze attenuanti;
e) la capacità di intendere e di volere;
f) la qualificazione giuridica del furto.

2. Con il primo motivo di ricorso viene testualmente denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. in riferimento all’art. 520 C.p.p., per erronea, contraddittoria e mancante motivazione. Si sostiene, in particolare, che «la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto la inutilità della rinnovazione del dibattimento, cadendo in contraddizioni e omettendo una adeguata motivazione». E si segnala, a spiegazione della censura, che la Corte «mentre esclude la possibilità, anzi la necessità, di integrare l’indagine», si chiede poi, d’ufficio, «se non esista la possibilità di una qualche utile estensione dell’istruttoria dibattimentale».
La doglianza non appare fondata. Non si ravvisano, invero, sul punto, nella sentenza impugnata, i denunciati vizi di “mancanza” e “contraddittorietà” della motivazione che ne giustificherebbero l’annullamento. […]
Ma a tale obbligo la Corte di merito non si è certamente sottratta. Essa ha infatti esaminato minuziosamente l’istanza di rinnovazione del dibattimento in relazione alle singole specifiche richieste (acquisizione del film “Le giornate di Sodoma”; acquisizione dei fascicoli intestati al Pasolini eventualmente esistenti presso gli organi di polizia; ripetizione del sopralluogo; nuova assunzione di testimoni; ecc.), e in relazione a ciascuna ha esaurientemente esposto le ragioni del mancato accoglimento, chiarendo di volta in volta la ritenuta inutilità, inefficacia o irrilevanza dei mezzi indicati, la genericità di alcune istanze, il contrasto di altre con la tesi difensiva.
Contro la completa e sistematica enunciazione delle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di non poter accogliere la richiesta di rinnovazione del dibattimento, nessun argomento critico specifico è stato addotto dal ricorrente a chiarimento della generica censura di mancanza di motivazione, la cui infondatezza risulta evidente.
Né ha maggior fondamento la censura di contraddittorietà, fondata sul preteso contrasto tra la reiezione della richiesta della difesa e il quesito postosi d’ufficio dalla Corte circa l’eventuale «possibilità d’una qualche utile estensione dell’istruttoria dibattimentale», quesito risolto anch’esso, dopo accurata analisi, negativamente. Invero, col rigettare l’istanza difensiva di rinnovazione del dibattimento, la Corte ha affermato – e dimostrato – l’inutilità di quegli specifici mezzi di prova che l’appellante aveva richiesto, mentre attraverso il quesito postosi ex officio ha inteso accertare se sussistesse la possibilità e l’utilità di altri, diversi, mezzi di prove atti a consentire un più completo accertamento della verità, soprattutto in relazione a un punto (eventuale partecipazione di altri soggetti) nettamente contrastato dalla tesi difensiva. Risulta pertanto palese la piena compatibilità logica tra le due parti della motivazione in argomento.

3.Con il secondo mezzo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per erronea, contraddittoria e travisata ricostruzione dei fatti». Si lamenta, in particolare, che la Corte di merito abbia «con una… valutazione apodittica… ricostruito gli avvenimenti di quella malaugurata notte», attribuendo ingiustificato rilievo alle discrepanze esistenti tra le varie dichiarazioni del Pelosi (discrepanze ritenute tali da inficiarne la piena credibilità), e si censurano specificamente le affermazioni inerenti agli effetti dei calci sferrati ai testicoli della vittima (calci che la Corte avrebbe confuso, secondo il ricorrente, con travisamento di fatto, con quelli dati in faccia).
La doglianza non può essere accolta.
L’accertamento dei fatti, attraverso la valutazione delle risultanze processuali, è compito esclusivo del giudice di merito. Il relativo giudizio non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il caso in cui si dimostri che esso è stato fondato su elementi inefficaci o manifestamente esclusi dalle risultanze processuali, ovvero su argomentazioni affette da vizi logici.
Tale condizione non ricorre nella fattispecie. Il ricorrente ha formulato solo i due specifici rilievi surriferiti in ordine alla valutazione delle risultanze e all’accertamento di fatto conseguente: entrambi privi di fondamento. Risulta infatti dalla motivazione della sentenza impugnata che la Corte non ha disatteso alcune affermazioni del Pelosi soltanto per le rilevate discrepanze bensì per averne accertato – dopo un approfondito esame di ogni elemento acquisito – l’insanabile contrasto con sicure risultanze obiettive, specificamente indicate. E per quanto concerne il riferimento critico all’affermazione contenuta in sentenza circa l’effetto immediatamente debilitante dei violenti calci ai testicoli, va osservato che la Corte ha dato congrua giustificazione di quanto asserito, anche con riferimento alle risultanze autoptiche e alle precisazioni dei periti. Né sussiste il preteso travisamento di fatto derivato, secondo il ricorrente, da un equivoco in cui sarebbe incorsa la Corte confondendo i calci nei testicoli con quelli in faccia, giacché dalla stessa dichiarazione del Pelosi, richiamata nella doglianza, chiaramente risulta la successione dei due distinti atti di violenza, nel detto ordine.
Ma, a parte tali secondari e infondati rilievi, il ricorrente non ha addotto contro la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di merito alcuna specifica e motivata censura. Nel motivo in esame, come anche, incidentalmente, nel successivo, si fa riferimento in proposito a una valutazione “apodittica” e ad “affermazioni arbitrarie”… che travisano la verità dei fatti”, ma tali generiche doglianze non sono poste in relazione con singoli punti della decisione impugnata, né viene addotto alcun argomento per dimostrare la fondatezza dell’assunto, né indicato da quali risultanze processuali i pretesi travisamenti debbano desumersi. Si tratta dunque di censure prive della necessaria specificità, non idonee a consentire un controllo di legittimità, nei sensi suindicati.

4.Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p.» per avere la Corte «ritenuto di natura dolosa l’azione dell’imputato e ritenuta l’assenza di cause di giustificazione». Si critica in particolare che la Corte di merito abbia illogicamente tratto il proprio convincimento su tali punti essenziali da elementi (quali “i calci ai testicoli”, “la camicia intrisa di sangue”, “la conoscenza che il Pelosi aveva delle tendenze omosessuali del Pasolini”, “la circostanza che… non rifiutò le prestazioni… , i dubbi sulla colluttazione”), che sarebbero altresì frutto di erronee valutazioni.
La doglianza, che concerne due affermazioni fondamentali della decisione di merito, vivamente contrastate dalla difesa, si riallaccia per un verso alla critica della “ricostruzione dei fatti” formulata nel precedente motivo di ricorso, mentre per altro verso può considerarsi denuncia di vizi logici nelle deduzioni e conclusioni tratte dagli elementi acquisiti.
Sotto il primo profilo si è già dimostrata la inaccoglibilità della censura. Resta dunque a questa Corte da controllare – sulla base dell’insindacabile accertamento dei fatti operato dalla Corte di merito – se sussistano vizi logici, nelle deduzioni tratte dalle circostanze accertate e nelle conclusioni derivatene, tali da giustificare la denuncia di mancanza e contraddittorietà di motivazione sui punti indicati, posta a base della richiesta di annullamento.
Dall’attento esame dell’ampia ed esauriente motivazione svolta sull’argomento nella sentenza impugnata non può non dedursi che la censura è priva di fondamento.
È opportuno ricordare, ai fini della valutazione della adeguatezza e coerenza logica del ragionamento seguito dalla Corte, che questa aveva stabilito in fatto:
a) che il Pelosi era pienamente consapevole, accompagnandosi quella notte fuori città col Pasolini e accettando da lui la cena e la promessa di un compenso in denaro, della natura delle prestazioni che in cambio gli sarebbero state richieste;
b) che deve escludersi che il Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenta sottoposizione del giovane ai suoi desideri;
c) che nella colluttazione il Pasolini (il quale riportò lesioni sproporzionatamente più gravi) cercò sostanzialmente di difendersi da un attacco, senza avere intenzione o possibilità di recare grave offesa, finché non fu raggiunto da colpi (calci nei testicoli) che gli tolsero ogni capacità di reazione.
d) che successivamente, caduto in ginocchio, fu ancora colpito alla testa e alla nuca, finché cadde esanime, come riferito dal Pelosi («… L’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare»);
e) che in seguito il Pelosi, dopo aver gettato lontano, tra i rifiuti, la camicia e le tavolette insanguinate, si impossessò dell’auto del Pasolini, che diresse a fari accesi, senza deviazioni, sul corpo inerte, schiacciandolo con le ruote di sinistra e volgendo poi a destra per allontanarsi.
Sulla base di tali accertamenti la Corte di merito ha ritenuto provata sia la sussistenza della volontà omicida, sia l’insussistenza della causa di giustificazione.
La sussistenza dell’animus necandi è stata dimostrata dalla Corte con riferimento a due momenti distinti: quello della fase finale della colluttazione (nella quale il Pelosi, quando ormai il Pasolini era accasciato, prono, nell’impossibilità non solo di offendere, ma anche di difendersi, infierì – come egli stesso ha ammesso – colpendolo ripetutamente, di taglio, in parti vitali – nuca, collo – e desistette solamente quando lo sentì cadere a terra e rantolare), e quello successivo e determinante del passaggio con I’autovettura sul corpo inerte (passaggio la cui asserita accidentalità è stata esclusa dalla Corte con argomenti ineccepibili, in base a una scrupolosa valutazione delle risultanze obiettive, denotanti la rettilinea conduzione del mezzo – nonostante l’ampio spazio esistente a destra verso il corpo della vittima – sicuramente visibile alla luce dei fari e in posizione nota al conducente – e la successiva sterzata a destra subito dopo il sormontamento.
Ha argomentato la Corte che il comportamento del Pelosi nel primo dei due momenti considerati – anche se non giunse a cagionare direttamente la morte (che, secondo i periti, fu causata dallo schiacciamento del torace con le ruote del l’autovettura) – è certamente dimostrativo della volontà di uccidere, non potendosi attribuire altro significato al suo infierire sulla vittima accasciata finché non la sentì rantolare, cioè finché non ebbe la convinzione della sicura fine. Ed ha aggiunto che tale comportamento «riveste grande importanza anche al fine di intendere il successivo», allorché il Pelosi, dopo aver gettato tra i rifiuti la camicia e le tavolette insanguinate, avviò l’autovettura, accendendo le luci, e senza sbandamenti la diresse sul corpo inerte (che facilmente avrebbe potuto evitare tenendo la propria mano), per riprendere, subito dopo averlo sormontato, con una immediata correzione di marcia, la giusta direzione.
Dai due successivi univoci comportamenti, unitariamente considerati, ha tratto la Corte il sicuro convincimento che il Pelosi, nel colpire accanitamente il Pasolini fino a sentirne il rantolo e nello schiacciarne il corpo con l’autovettura, non poté che essere animato da volontà omicida, attesa l’inequivoca efficacia dei mezzi usati e la persistenza e rinnovazione dell’azione lesiva, condotta fino all’eliminazione di ogni possibile dubbio di sopravvivenza della vittima.
E una significativa conferma della piena consapevolezza del delitto da parte del Pelosi la Corte ha ritenuto di dover trarre dalla circostanza che il giovane, accompagnato dopo il suo arresto per il furto dell’autovettura nel carcere minorile di Casal di Marmo, confidò poche ore dopo a un compagno,  quando ancora nulla gli era stato contestato in ordine alla morte dello scrittore e nulla sapeva del rinvenimento del cadavere e delle indagini appena iniziate, di avere «ammazzato un uomo, e precisamente Pasolini», aggiungendo, come egli stesso ha ammesso,  «tanto fra poco lo vengono a sapere; mica son deficienti, quelli!».
Il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nei termini sopra riassunti, è limpido e coerente, immune da lacune e da vizi logici, in armonia con i criteri accolti dalla giurisprudenza per la determinazione dell’animus  necandi. Esso costituisce congrua giustificazione del convincimento espresso sul punto e adeguata risposta alle osservazioni formulate dalla difesa in sede di appello: non merita pertanto le censure, per altro superficiali e sostanzialmente generiche, contenute nel motivo di ricorso.

5. Altrettanto esaurienti e corrette sotto il profilo logico appaiono le considerazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine all’esclusione dell’esimente della legittima difesa.
Perché si configuri tale causa di giustificazione occorre, com’è noto, che il soggetto abbia commesso il fatto preveduto dalla legge come reato perché costrettovi, non avendo altra scelta, da un’effettiva (o ragionevolmente supposta) necessità di difesa dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta. E occorre altresì che sussista un rapporto di proporzione tra l’offesa e la difesa.
La Corte di merito ha espresso il convincimento che nella fattispecie non solo manchi la prova degli elementi richiesti per la configurabilità dell’esimente, ma siano emerse risultanze atte a escluderla.
Al riguardo essa ha tra l’altro posto in rilievo che il Pelosi, il quale aveva accettato per denaro di sottoporsi a pratiche omosessuali, avrebbe certamente potuto eludere, senza difficoltà e senza gravi conseguenze, l’eventuale richiesta, certamente non violenta, di prestazioni meno gradite. Ha poi osservato che nel litigio successivamente insorto, anche se per iniziativa dell’insoddisfatto Pasolini, il comportamento di quest’ultimo, come è apparso evidente dalle risultanze obiettive, non costituì mai un pericolo per il giovane, tale da richiedere una così violenta e protratta azione difensiva. E ha posto in evidenza che, essendosi l’episodio svolto in più fasi, «la volontà offensiva con cui vennero inferti i colpi decisivi rimase in ogni caso del tutto svincolata da qualsiasi, anche solo supposta, necessità di difesa». Infine, a ulteriore conferma dell’insussistenza di una situazione di giustificata difesa, la Corte ha segnalato la palese incompatibilità dei comportamento del Pelosi (sosta alla fontana per eliminare le macchie di sangue, risposte date ai Carabinieri) con lo stato d’animo di chi fosse stato poco prima costretto a difendersi da una grave violenza.
Le argomentazioni svolte in sentenza, con piena aderenza alle risultanze processuali e alla ricostruzione dei fatti, non presentano lacune né vizi logico-giuridici: la censura di «insufficiente e contraddittoria motivazione» sul punto è dunque infondata.

6. Con il quarto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per carenza di motivazione sia circa la richiesta di qualificare il fatto come omicidio preterintenzionale o colposo, sia circa la richiesta di concedere le attenuanti di cui all’art. 62 n° 1, 2, 5 e 62 bis prevalenti su qualsiasi aggravante». La doglianza, che non contiene alcun’altra specificazione, è infondata in ogni sua parte.
Per quanto concerne il riferimento critico alla mancata qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale o colposo, la doglianza si risolve in una parziale immotivata ripetizione della precedente censura con la quale si era criticata la qualificazione del fatto stesso come omicidio doloso. Le ragioni addotte al riguardo costituiscono pertanto una valida risposta alla censura in esame.
In ordine alla mancata applicazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, a prescindere dalla evidente non configurabilità a favore del Pelosi della intenzione di eliminare una situazione di fatto ritenuta immorale (che costituisce il richiesto elemento soggettivo dell’attenuante), atteso che egli stesso di tale situazione immorale era ampiamente e volontariamente partecipe, e in senso più spregevole, perché mosso da intento di lucro, correttamente la Corte ha rilevato che «la dimostrata scissione tra la prima fase della vicenda e la finale azione omicida rende chiara l’inesistenza dell’attenuante».
Per quanto riguarda la circostanza di cui all’art. 62 n° 2 C.p. la Corte d’appello ha osservato che non può invocare la provocazione chi, in relazione al fatto commesso, si sia posto in una condizione di immoralità, perché l’ordinamento non può tutelare situazioni giuridicamente o moralmente illecite. E ha rilevato altresì che ai fini della configurabilità dell’attenuante deve necessariamente esistere un nesso di causalità tra il fatto ingiusto del soggetto passivo e la reazione dell’agente, il che postula un rapporto di proporzione, o almeno di non grave sproporzione, tra il primo e la seconda.
Sulla base di tali considerazioni di diritto, sostanzialmente conformi al costante orientamento giurisprudenziale, la Corte di merito ha osservato che, accertata in fatto la conoscenza, da parte del Pelosi, delle tendenze omosessuali attive del suo accompagnatore, e la libera accettazione, per un compenso in denaro, di intrattenere con lui rapporti innaturali, non può configurarsi come fatto provocatorio, ai fini dell’attenuante in esame, la richiesta di una prestazione risultata in pratica non gradita; né il fatto ingiusto può ravvisarsi nelle modalità della richiesta, non essendo risultato, neppure dal racconto dell’imputato, che la libertà sessuale e l’integrità di quest’ultimo siano state seriamente messe in pericolo dal Pasolini, che non aveva alcuna logica ragione per farlo, anche se contrariato da un inatteso rifiuto. A ciò ha aggiunto la Corte il rilievo, decisivo, ad avviso di questo Collegio, per l’esclusione dell’attenuante, che, secondo lo stesso racconto del Pelosi, «gli ultimi e più violenti colpi furono inferti al Pasolini quando questi, prono a terra, incapace di qualsiasi reazione, era ormai un bersaglio immobile e innocuo in balia della furia scatenata del suo antagonista; ed è indubbio che la determinazione omicida dimostrata dal Pelosi nella fase finale della lotta, e ribadita dal successivo volontario sormontamento del corpo esanime della vittima, non può, per la macroscopica sproporzione con il presunto fatto provocante, essere ritenuta in rapporto di causalità con lo stesso».
Per quanto concerne poi l’attenuante di cui all’art. 62 n° 5, la Corte di merito ha esattamente osservato in diritto che «per l’integrazione dell’attenuante in esame è necessaria la presenza di due elementi, l’uno materiale, e cioè l’inserimento dell’azione della persona offesa nella serie delle cause determinatrici dell’evento, l’altro psichico, consistente nella volontà di concorrere nella produzione dell’evento medesimo»: elementi palesemente non ravvisabili, nella fattispecie, nella condotta del Pasolini, la quale, in estrema ipotesi, avrebbe costituito soltanto il movente del reato.
In ordine, pertanto, a tutte e tre le invocate circostanze attenuanti di cui all’art. 62 C.p., la Corte di merito ha giustificato il proprio diniego con argomentazioni congrue e giuridicamente corrette, che non meritano, sotto alcun profilo, la censura, per altro generica, formulata dal ricorrente.
Per quanto riguarda le circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis C.p., alle quali anche si riferisce la doglianza in esame, va rilevato che esse erano state già concesse dal Tribunale nel giudizio dii grado. Il riferimento ad esse, da parte del ricorrente, trova ragione, presumibilmente, nel diniego  in sede di giudizio di comparazione ex art. 69 C.p. di una prevalenza delle attenuanti medesime sulle aggravanti contestate per il delitto di furto: diniego giustificato per altro dalla Corte con valide ragioni (obiettiva gravità del fatto; specifica pericolosità del soggetto, già altre volte arrestato per reati del genere), non confutate dal ricorrente.

7. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. per erronea, contraddittoria motivazione in relazione all’art. 85 e all’art. 98 C.p.».
Si sostiene in proposito che «la valutazione dell’imputabilità del Pelosi effettuata in sentenza è errata per due ordini di motivi», il primo dei quali «verte sull’uso che della documentazione psichiatrica e psicologica ha fatto la Corte d’appello» (che ne avrebbe disatteso le conclusioni attraverso un’indagine “incompleta”), mentre il secondo riguarda «l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale dell’immaturità seguita dalla Corte» (giudicata dal ricorrente «infondata in diritto, errata in dottrina e totalmente inaccettabile in fatto»).
La doglianza è priva di fondamento in relazione ad entrambi i profili indicati.
Procedendo per ordine logico, va rilevato anzitutto che l’interpretazione dell’art. 98 C.p. seguita dalla Corte di merito non merita censura. Dispone detta norma che «è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i 14 anni ma non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita». Ai fini penali, come questa Corte ha più volte precisato, deve intendersi come capacità di intendere e di volere l’attitudine del soggetto a rappresentarsi l’evento verso il quale la sua azione è diretta, a discernere e valutarne gli effetti, ad autodeterminarsi nella scelta tra i motivi che esercitano influenza sulla sua coscienza, e quindi anche a inibirsi, frenando l’impulso all’azione. Tale generale nozione è valida anche per i minori tra i 14 e i 18 anni, nei cui confronti, per altro, la sussistenza della capacità – anche nella provata assenza di infermità influente sullo stato di mente – non può mai essere presunta […] e deve in ogni caso essere accertata dal giudice, che deve a tal fine considerare il grado di sviluppo intellettivo e di formazione del carattere, la capacità di intendere l’importanza di certi valori etici e il dominio su di sé che il soggetto abbia acquisito, l’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito, e a determinare liberamente la propria condotta per motivi consci […]: l’evoluzione richiesta non deve per altro confondersi con una completa maturità (che si realizza di norma assai più tardi), bensì con quel grado di maturità nel campo intellettivo, etico e volitivo sufficiente a rendere il minore consapevole del disvalore sociale dell’atto e capace di determinare in relazione a esso la sua condotta. […]

8. Con il sesto motivo di ricorso viene denunciata la «violazione degli artt. 475 e 524 C.p.p. in relazione alla violazione degli artt. 624, 625 n° 761 n° 2 e 5 e artt. 626 C.p., per erronea, contraddittoria motivazione e applicazione della legge». Si censura in particolare che la Corte abbia ritenuto «sussistere il delitto di furto pluriaggravato, laddove trattavasi tutto al più di furto d’uso non punibile per carenza di querela».
La censura – redatta nei riportati succinti termini – è priva di giuridico fondamento. […]

9. Per le considerazioni che precedono, il ricorso del Pelosi deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla Cassa delle ammende: somma che questa Corte, tenuto conto delle risultanze, determina in lire centomila […]

Corte composta da Elio Siotto, Presidente; Consiglieri Franz Sesti, Leopoldo Moleti, Francesca Pintus, Renato De Tullio.

[info_box title=”Cronologia degli eventi processuali su Pino Pelosi” image=”” animate=””]

2 novembre 1975 / Pier Paolo Pasolini viene assassinato
2 novembre / Arresto di Pino Pelosi. Interrogatorio
5 novembre / La madre di Pasolini si costituisce parte civile. Nuovo interrogatorio dell’imputato
13 novembre / Interrogatorio dell’imputato
15 novembre /  Altro interrogatorio dell’imputato
28 novembre / Perizia medico-legale
9 dicembre / Interrogatorio dell’imputato

2 febbraio 1976 / Prima udienza al Tribunale dei minori di Roma
5 febbraio / II udienza
7 febbraio / III Udienza
9 febbraio / IV udienza
12 febbraio / V udienza
16 febbraio / VI udienza
26 febbraio / VII udienza
4 marzo / VIII udienza
8 marzo / IX udienza
9 marzo / X udienza. Accesso sul luogo del delitto
11  marzo / XI udienza
5 aprile / XII udienza
12 aprile / XIII udienza
22 aprile / Udienza di discussione della parte civile e del pubblico ministero
24 aprile / Udienza di discussione della difesa
26 aprile / Sentenza di Primo grado
4 dicembre / Udienza in Corte d’Appello e sentenza

26 aprile 1979 / Sentenza della Corte di Cassazione[/info_box]