Inchiesta n.3 delitto PPP. I giudici e la voce-contro di Nico Naldini (9.V.2005)

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

A seguito delle clamorose rivelazioni di Pino Pelosi, rilasciate durante la trasmissione televisiva Ombre sul giallo del 7 maggio 2005, la Procura di Roma annunciò la volontà di aprire un fascicolo intestato ”atti relativi a”, in vista della riapertura di una terza inchiesta intesa a far luce a trent’anni di distanza sulla verità dell’assassinio di Pasolini.
La notizia trovò una vasta eco sulla stampa, in cui comparvero anche le dichiarazioni di alcuni uomini di legge che non avevano mai dato credito alla colpevolezza del solo Pelosi, come Pino Salmé e Guido Calvi, all’epoca del fatti, rispettivamente, giudice a latere del processo Pelosi e avvocato di parte civile insieme a Nino Marazzita.
Una voce apertamente dissonante fu invece quella di Nico Naldini, cugino di primo grado di Pasolini, portato a sostenere la tesi di un delitto maturato in un contesto solo omosessuale.

Pasolini, la Procura fa marcia indietro. Saranno convocati Pelosi e Citti
redazionale

“l’Unità” –  9 maggio 2005

Dopo le polemiche dei giorni scorsi, dopo le dichiarazioni choc di Piero Pelosi sulla morte di Pier Paolo Pasolini, la Procura di Roma fa marcia indietro. Entro martedì, secondo quanto si è appreso a piazzale Clodio, aprirà un fascicolo intestato «atti relativi a», ossia senza ipotesi di reato e senza indagati. L’incartamento sarà costituito da articoli di stampa e dalla memoria che l’avvocato Nino Marazzita, legale di parte civile per conto della famiglia Pasolini (assieme al collega Guido Calvi), presenterà proprio martedì, come annunciato in precedenza. La questione sarà probabilmente affrontata in giornata dal procuratore Giovanni Ferrara e dall’aggiunto Italo Ormanni.
L’avvocato Marazzita sollecita la riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini sulla base delle dichiarazioni rese a Raitre da Pino Pelosi (il solo condannato con sentenza definitiva per l’omicidio) e di quanto aggiunto sui quotidiani dal regista Sergio Citti, amico della vittima. «Penso di poter andare soltanto domani a piazzale Clodio – ha spiegato Marazzita -. Sono ancora in attesa di ricevere dalla Rai la registrazione della puntata dedicata all’intervista di Pelosi. Ritengo, in ogni caso, che la magistratura abbia l’obbligo di avviare nuovi accertamenti per fare luce su una vicenda che sin dall’inizio aveva lasciato perplesse troppe persone». Gli inquirenti acquisiranno le interviste di Pelosi e Citti, e convocheranno i due in procura per interrogarli.

Pasolini, la procura riapre l’inchiesta
redazionale

“Panorama” –  9 maggio 2005

Dopo le rivelazioni di questi giorni sul “caso Pasolini”, la Procura della Repubblica di Roma ha cambiato rotta: entro domani mattina aprirà un fascicolo intestato “atti relativi a”, ossia senza ipotesi di reato e senza indagati. Fino a ieri la Procura riteneva insufficienti i motivi per riprendere le indagini sull’omicidio del regista, avvenuto il 2 novembre 1975. La nuova decisione è del procuratore dirigente Giovanni Ferrara e a seguire gli sviluppi sarà il procuratore aggiunto Italo Ormanni.
Il fascicolo raccoglierà per il momento gli articoli di stampa, la memoria che l’avvocato Nino Marazzita, già parte civile nel processo contro Pino Pelosi (l’uomo incriminato trent’anni fa per l’omicidio del regista), presenterà domani alla Procura e le testimonianze dello stesso Pelosi durante la trasmissione televisiva Ombre sul giallo e del regista Sergio Citti (amico di Pasolini) che in una intervista pubblicata da un quotidiano romano ha detto tra l’altro “so chi ha ucciso, Pelosi fu l’esca”. I due saranno poi convocati in procura per essere interrogati.

Pelosi: «Non sono stato io»
Nei giorni scorsi Pino Pelosi, a trent’anni dall’omicidio Pasolini, avvenuto nel 1975 all’idroscalo di Ostia, durante la trasmissione televisiva “Ombre sul giallo”, ha ritrattato la confessione che gli costò la condanna a nove anni di carcere. Dopo trent’anni, Pelosi, l’ex “ragazzo di vita” ribalta completamente la sua versione, rilanciando una nuova pista che gli inquirenti non hanno mai battuto ma che molti, all’epoca dei fatti, ipotizzarono. Non un solo assassino ma un gruppo. E non certo un incidente. Pelosi, detto anche Pino “la Rana”, dice di aver atteso tanto per parlare perché “sono solo, non ho più famiglia, i miei sono morti. Ho 46 anni e pago sempre per quell’omicidio… E poi perché queste persone saranno morte probabilmente”. L’uomo dice ancora che “credo volessero dargli una bella lezione. Una cosa tipo tre mesi di ospedale. Se volevano ucciderlo gli avrebbero sparato e avrebbero sparato anche a me. Gente come quella non si mette paura”. La paura la misero a Pelosi che temendo conseguenze per i propri famigliari confessò di essere l’autore dell’omicidio, venne condannato a nove anni di carcere ed uscì in semilibertà dopo sette.

Al via la terza inchiesta sull’omicidio Pasolini
redazionale

“La Gazzetta del Mezzogiorno” –  9 maggio 2005

Si farà la nuova inchiesta, e sarà la terza, sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Per due giorni, dalla Procura di Roma, sono arrivate indicazioni che facevano ritenere insufficienti i presupposti per riaprire il caso, ma dopo una serie di valutazioni e, soprattutto, dopo l’annunciata iniziativa dell’avvocato Nino Marazzita, legale dei familiari dello scrittore-regista, di presentare una formale richiesta, c’è stato il cambio di rotta.
Il fascicolo, intestato «atti relativi a», privo cioè di ipotesi di reato e contro ignoti, conterrà l’esposto di Marazzita, il quale chiederà di procedere per omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione, nonché gli articoli di stampa e i video con le interviste rilasciate da Pino Pelosi, l’uomo condannato a nove anni di carcere per il delitto avvenuto all’Idroscalo di Ostia nel 1975, e da Sergio Citti, il regista e amico fraterno di Pasolini.
Il primo atto della procura sarà proprio quello di convocare Pelosi, detto «la Rana», e Citti. Il primo, intervistato durante il programma tv Ombre sul giallo, ha negato a 30 anni di distanza di essere il responsabile della morte di Pasolini ed ha chiamato in causa, senza farne i nomi, tre uomini che hanno un accento del meridione.
Ancora più pesante l’accusa di Citti: «Io so chi ha ucciso Pasolini e come avvennero i fatti – ha ripetuto in questi giorni nella sua casa in riva al mare a Fiumicino – lo dissi anche all’epoca, ma non sono mai stato chiamato per testimoniare. Hanno chiamato altri che non c’entravano niente». Secondo l’anziano regista la morte di Pasolini sarebbe collegata al mancato pagamento di riscatto per la restituzione delle «pizze» del film Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Chi si è battuto fortemente per la riapertura dell’inchiesta sono i rappresentanti di parte civile. Secondo Nino Marazzita e Guido Calvi la Procura non può non tenere in considerazione gli ultimi elementi emersi.  In particolare, il primo punta sulle «nuove tracce investigative fornite dalle dichiarazioni rilasciate, in televisione, da Pino Pelosi e, sulla stampa, da Sergio Citti». Si tratta, secondo Marazzita, di «tracce che vanno solidificate da un punto di vista giudiziario».
L’apertura di una nuova inchiesta, per il legale, servirà anche a riparare «alla incredibile decisione della Procura Generale dell’epoca la quale, di fronte alla sentenza di primo grado in cui si sosteneva che Pelosi non aveva agito da solo ma con ignoti, invece di riaprire le indagini impugnò la sentenza. Con il paradosso di farlo ancora prima

Omicidio Pasolini: i magistrati di Roma hanno ordinato altri accertamenti
redazionale

 “La Stampa” –  9 maggio 2005

Sabato scorso il colpo di scena. A trent’anni dalla barbara uccisione di Pier Paolo Pasolini, Pino Pelosi, l’uomo che fu condannato per l’omicidio, ritratta tutto e ribalta la storia: «Non l’ho ammazzato io, erano in tre, io lo difesi». Ieri la Procura ha ufficialmente riaperto il caso e ordinato nuovi accertamenti. Dopo le dichiarazioni in tv di Pelosi e quelle del regista Sergio Citti che ha confermato che gli assassini erano più di uno, il procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara ha aperto un fascicolo intitolato «K, atti relativi». Al momento nell’incartamento non sono riportati né indagati né notizie di reato e, a seguire gli sviluppi, sarà il procuratore aggiunto Italo Ormanni, che nei prossimi giorni ascolterà a piazzale Clodio sia Pelosi che Citti. Il fascicolo raccoglierà per il momento la nuova verità di Pelosi, gli ultimi risvolti, la memoria che l’avvocato Nino Marazzita, già parte civile nel processo contro Pino «la Rana», presenta oggi alla Procura e le rivelazioni di Sergio Citti ai giornali («So chi ha ucciso Pasolini, Pelosi fu l’esca»).
Il percorso processuale della vicenda è relativamente veloce. La sentenza di primo grado è datata 26 aprile 1976, quella d’appello 4 dicembre 1976. La Corte di Cassazione si esprime in modo definitivo il 26 aprile 1979: Pelosi se la cava con una condanna a nove anni. Ne sconta soltanto sette, uscendo in semilibertà. E adesso muta radicalmente la versione dei fatti rilanciando una pista investigativa mai battuta fino in fondo ma ipotizzata più volte: la possibilità che Pasolini sia stato massacrato da un gruppo di picchiatori fascisti che volevano dargli una lezione.
«Tre uomini scesi da una Fiat 1500 targata Catania lo picchiarono selvaggiamente gridando “Fetuso, arruso, sporco comunista – racconta ora Pelosi -, poi minacciarono di uccidere i miei genitori se avessi raccontato l’accaduto». In effetti, sono tanti i punti oscuri che fanno pensare al coinvolgimento di più persone nel delitto, elementi tenuti in considerazione pure nella sentenza di primo grado contro Pelosi («concorso di ignoti nell’omicidio»). In particolare, tra i tasselli che non sono mai tornati a posto c’è il maglione verde rinvenuto sul sedile posteriore dell’auto di Pasolini durante l’ispezione e che non apparteneva né allo scrittore né a Pelosi. Altre zone d’ombra del delitto riguardano, poi, la scomparsa dalla vettura del pacchetto di sigarette e dell’accendino che, a detta di Pelosi, si trovavano nel portaoggetti. Suscitano molti dubbi, però, anche le macchie di sangue ritrovate sul tetto dell’auto dal lato del sedile del passeggero, una circostanza che contrasta con l’ipotesi che Pelosi fosse al volante. Oppure fa ritenere che qualcun altro fosse seduto al posto del passeggero. A contrastare con la versione ufficiale è, inoltre, il fatto che il sangue rinvenuto sul cadavere sia troppo rispetto a quello trovato addosso a Pelosi, che ha riportato nella colluttazione soltanto qualche piccola ferita,  mentre il regista ne è uscito massacrato: una circostanza che fa ipotizzare una lotta tra più persone. «Quella notte, Pelosi non era solo, c’erano altri arrivati lì per uccidere Pasolini. – accusa Sergio Citti, amico del cuore dello scrittore – Pier Paolo era scomodo, non fu un incidente, una lite: fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che Pasolini dovesse morire». Citti cita l’episodio del furto delle pellicole originali di Salò e aggiunge di aver visto un paio di volte il ricattatore. La sera in cui fu ucciso, sostiene, Pasolini doveva incontrare chi le aveva rubate, ad Acilia. «Fu lì che lo sequestrarono, poi lo condussero a Ostia, all’Idroscalo, dove avvenne il massacro. – sostiene Citti – il ricatto delle pellicole del film Salò era una scusa. Picchiarono per uccidere, erano professionisti. Ho sempre pensato che non fossero balordi, ma potessero essere pure poliziotti o agenti segreti. Pier Paolo era un grosso problema. Aveva attaccato frontalmente la Democrazia Cristiana».

Reperti del delitto Pasolini
Reperti del delitto Pasolini

Parla il magistrato che condannò il ragazzo in primo grado
«Ho sempre pensato che non fosse solo»

 “La Stampa” –  9 maggio 2005

«Non fu soltanto Pino Pelosi a uccidere Pasolini, ne siamo stati sempre convinti anche se poi i giudici d’appello lo esclusero». Alle 19, poco prima di prendere la parola al congresso nazionale di Magistratura Democratica, il giudice a latere del processo Pelosi, Pino Salmè, oggi componente togato del Csm, ha aperto il libro dei ricordi, risalendo indietro nel tempo, a quel 1976 quando, assieme al presidente Carlo Alfredo Moro, condannò l’imputato Pino Pelosi a 9 anni per «omicidio in concorso con ignoti». Oggi che Pelosi ha chiamato in causa altre persone Salmè trova una conferma alla sua convinzione: «Nel passato ci sono state ragioni concrete per non credere alle diverse verità che Pelosi ha sfornato. Vorrei che adesso i suoi ricordi si facessero ancora più nitidi, per poter indicare non solo la provenienza degli assassini ma anche l’identità».

Che cosa vi convinse a ipotizzare, nelle motivazioni della condanna, che quella notte Pelosi non agì da solo?
Intanto, perché sulla scena del delitto furono trovati oggetti che non appartenevano né al Pelosi né a Pasolini. Ricordo che fu trovato un plantare e un maglione verde. Contemporaneamente non c’erano altri oggetti che avrebbero dovuto esserci.

Ma la scena del delitto fu inquinata dalla presenza di curiosi e giornalisti che si aggiravano tra le baracche dell’Idroscalo di Ostia…
Vero, ma questo non toglie che anche altri indizi ci portarono alla conclusione che Pelosi non avesse agito da solo. Per esempio, la sproporzione tra le lesioni riportate dalla vittima e i mezzi lesivi utilizzati: un bastone e mezza tavoletta di legno spezzata. La perizia accertò forti lesioni sul corpo di Pasolini. Non ci convinse la presenza di tre oggetti contundenti diversi, un bastone e due tavolette di legno, appunto.

Questa presenza non prova nulla, nel senso che Pelosi potrebbe aver utilizzato volta per volta uno dei tre oggetti…
Dubito, perché Pasolini era una persona allenata, uno sportivo aitante. Insomma, avrebbe saputo reagire, approfittare del momento giusto. Mi viene in mente un altro particolare: quando Pelosi fu abbordato da Pasolini, in piazza dei Cinquecento, il ragazzo si allontanò, poi ritornò e salì sull’auto. Pelosi al processo si giustificò dicendo di essere andato a recuperare le chiavi di casa. E infine, furono trovate sul tetto dell’auto di Pasolini impronte digitali sporche di sangue che non sono mai state identificate.

La sentenza d’appello ha ribaltato il vostro giudizio: Pelosi quella notte era solo. Una verità processuale confermata anche dalla Cassazione…
L’appello ritenne che gli indizi andavano valutati singolarmente. Essendo un processo indiziario con queste premesse le conclusioni non potevano che essere quelle.

Le nuove rivelazioni di Pelosi confermerebbero la pista politica dell’omicidio Pasolini, «un fetuso, uno sporco comunista….».
Nel processo non si è indagato sulla causale e sugli eventuali mandanti di quell’omicidio. Nelle motivazioni scrivemmo chiaramente che ci occupammo soltanto della ricostruzione oggettiva dei fatti. A riflettere, il profilo inquietante di questa storia, 30 anni dopo, rimane quello delle indagini che furono fatte affrettatamente. Solo il medico legale della parte civile, per esempio, fece notare in dibattimento l’esistenza di tracce di pneumatici sulla canottiera di Pasolini. A dimostrazione che sul corpo passò un’auto.

Guido Calvi
Guido Calvi

«Ora fuori la verità su quel clima d’odio».
Intervista di Luca Gelmini a Guido Calvi

“Il Corriere della Sera” –  9 maggio 2005

Guido Calvi è senatore dei Ds ed è stato avvocato di parte civile della famiglia Pasolini.

Senatore, dopo 35 anni è ufficialmente riaperto il caso Pasolini. Soddisfatto?
Era inevitabile che accadesse. Riaprire un fascicolo su quella vicenda era un atto doveroso innanzitutto dal punto di vista giuridico.

E adesso che l’indagine, contro ignoti, è stata riavviata?
Stavolta ci sono elementi indizianti molto seri per avvicinarci alla verità su un delitto tanto oscuro.

Le prossime mosse?
Si deve ripartire da Pelosi e dalle sue ultime dichiarazioni.

Si riferisce alla clamorosa ritrattazione di Pino Pelosi, condannato per l’omicidio del poeta. Pelosi ha chiamato in causa dei complici. Il fatto che lo abbia fatto in tv dopo 30 anni di  silenzio non è un po’ anomalo?
Può essere anomalo, ma trovo più anomalo il fatto che all’epoca siano state condotte indagini pessime, anzi che indagini vere non furono mai fatte.

La sua è un’accusa molto grave per gli inquirenti di allora.
Nel luogo del delitto vi erano tracce, orme, indizi, impronte digitali. E’ stato tutto buttato via, gettato a mare. Perfino il dato più elementare, quello di circoscrivere il luogo dell’omicidio, è stato colpevolmente trascurato. Cose da paese del terzo mondo, di una inciviltà giuridica senza precedenti. Se dopo 30 anni si può rimediare a quell’incuria….

Dopo 30 anni sarà dura, o no?
Almeno ci tentiamo. Ma mi faccia dire. La macchina di Pasolini  fu lasciata in un cortile per quattro giorni sotto la pioggia. Si prese per buono Pelosi e quello che diceva, perché faceva comodo. Durante l’istruttoria i periti non videro nemmeno le foto della scena del delitto. In dibattimento fu il nostro consulente a telefonarmi di notte e rivelarmi certi particolari. In quelle istantanee c’era la traccia del pneumatico dell’auto che sormontava la schiena di Pier Paolo determinandone la morte per schiacciamento del torace e loro non sapevano nulla».

E adesso queste prove potrebbero portare ad altre condanne?
Ricominciare l’indagine significa ricollocare la vicenda in quel contesto culturale.

A che cosa si riferisce?
All’insofferenza tipica di certi ambienti della destra verso gli omosessuali. Non si dimentichi che quelli furono anche gli anni di Franca Rame stuprata da estremisti di destra. E poi c’è il Circeo.

Che cosa c’entra il massacro compiuto da Angelo Izzo con il delitto Pasolini?
Non c’è collegamento diretto ma di contesto. In fondo il Circeo che cosa è stato? Un massacro di due innocenti compiuto da due psicopatici che mascheravano la loro omosessualità, tant’è che le due ragazze non furono violentate. Quello era il clima. Di rifiuto totale della diversità.

Quindi Pasolini fu vittima di agguato con implicazioni politiche?
Bisogna intendersi su che cosa significa delitto politico. Anche un poeta come García Lorca è stato ucciso per ragioni politiche. Per Pasolini è stato lo stesso. Si voleva colpire un uomo  scomodo, una delle voci più alte delle intellettualità italiana del ‘900 che scriveva di stragi e di politica. Ammazzandolo si è impedito che quella voce parlasse ancora.

Lei che ha conosciuto Pasolini, fosse vivo cosa penserebbe di tutto quello che sta succedendo ora?
Pier Paolo era un uomo di una vitalità infinita. Sono certo che anche lui adombrerebbe le responsabilità di quanto accaduto, pur in una riflessione più ampia, al contesto culturale nel quale l’omicidio è maturato.

E’ ottimista che la verità verrà fuori?
C’è ancora una forte resistenza, vedremo. Certamente mi batterò perché l’omicidio di Pier Paolo non venga abbandonato un’altra volta nel buio della memoria.

Nico Naldini
Nico Naldini

Il cugino di Pasolini: «Aveva ragione Andreotti. Pier Paolo se l’è cercata» 
di Dino Martirano

“Il Corriere della Sera” –  9 maggio 2005

«Sull’omicidio di Johann Joachim Winckelmann, avvenuto a Trieste nella seconda metà del Settecento, sono state scritte decine e decine di storie romanzate, oltre ai versi di Goethe e a tutto il resto… Ecco, questa romanzeria fatta sulla vita adesso è sostituita dalla televisione che ha bisogno di alimentarsi con spettacoli spuri per rimestare sull’omicidio di un intellettuale famoso. Ma tutto questo non fa che allontanarci dalla verità, se una verità c’è. E, guarda il caso, dopo la confessione di Pelosi, arriva Sergio Citti a dire che erano cinque gli assassini di Pasolini e, forse, addirittura dei servizi segreti. Anzi no, erano i ricattatori che avevano rubato le pizze del film di Pasolini… Direi che è ora di finirla con questi polveroni».
Lo scrittore Domenico (Nico) Naldini, cugino di primo grado di Pier Paolo Pasolini, perché figlio di una delle sorelle Colussi di Casarsa, nel ’75 lavorava alla “Pea”, la società che produceva i film del regista friulano oltre a quelli di Federico Fellini: «Ad agosto di quell’anno, alla Technicolor furono rubate alcune pizze con i negativi di lavori di Fellini, di Pasolini e di Damiano Damiani, ma la cosa, poi, è risultata essere un storia maturata all’interno di Cinecittà. Ma alla “Pea” si era intrufolato uno di quegli avvocati che cercano di rimestare e che aveva indicato la pista della criminalità romana. E così nacque la leggenda. C’era un gran caldo in quel mese di agosto e Fellini, che come tutti sudava, fu immortalato da un fotoreporter mentre si asciugava la fronte con la faccia china. Bene, su un quotidiano romano uscì la foto con questa didascalia: “Il regista piange dopo il furto”. Ricordo che ridemmo molto con Fellini di quella assurda didascalia. E poi, mi sembra pure che le pizze furono ritrovate in un sottoscala di Cinecittà».
Nico Naldini – che ha scritto molto su Pasolini fino a cristallizzare i suoi ricordi nel volume Il treno del buon appetito tra non molto riproposto in libreria con il titolo Come non ci si difende dai ricordi – confuta il racconto postumo di Sergio Citti secondo il quale il regista friulano fu ucciso nel tentativo di recuperare quella pellicola rubata: «Dopo il furto, Pasolini affrontò la situazione con un semplice intervento tecnico, un nuovo negativo ricavato dal positivo. E poi, i film di Pasolini costavano poco e quindi poteva girare nuovamente quelle scene: insomma, non aveva alcuna ansia di recuperare quel materiale. Quindi, la storia mi puzza di bufala. Sì, bufale che si inseguono e che si divorano l’un l’altra. E mi dispiace per lui perché è un mio carissimo amico ed è anche un bravo regista, ma la ricostruzione di Sergio Citti è assolutamente campata in aria». Per motivi di umanità, Naldini si ferma qui. E in qualche modo conferma quanto scritto da Mario Cervi sul «Giornale» («Sono solo bufale penose») ma sposa anche le perplessità sollevate da Gianfranco Capitta sul «Manifesto»: «Nonostante la soddisfazione che queste parole tardive di Pelosi potrebbero avere per chi ne ha sempre intuito la verità (…), finisce per prevalere il dubbio. Sono passati 30 anni».
Per questo Naldini riparte dal caso dell’archeologo Winckelmann, accoltellato a morte a Trieste nel 1768 dal cuoco pistoiese Francesco Arcangeli, che a suo parere non è poi così lontano da quello di Pasolini: «Le fiammate che ciclicamente divampano su questo assassinio di 30 anni fa mi turbano nel profondo, perché mi riportano dentro un fatto estremamente coinvolgente. Non mi ha fatto piacere rivedere in televisione le foto di Pasolini e penso che tutto questo serva ad alzare dei polveroni dietro i quali non c’è nulla. Pelosi, in tv, sembrava una vittima con gli avvocati che lo soccorrevano quando gli avrebbero dovuto chiedere: “Chi erano questi tre che hanno ucciso Pasolini?”».
Domande che ronzano da 30 anni nella mente di Nico Naldini.  Lo scrittore, però, ha una sua certezza sulla possibilità di un omicidio rabbioso portato a termine solo da Pino Pelosi: «Pasolini aveva un grande istinto di difesa, i suoi allarmi scattavano subito perché si era ormai convinto di vivere in una società violenta ed era molto difficile, dunque, che cadesse in un agguato. E’ andata purtroppo come si disse fin dal primo momento: e cioè che il ragazzo gli si rivoltasse contro con una rabbia tale da ridurlo in quello stato. L’errore di Pasolini è di non aver calcolato la potenzialità violenta di questo giovane». Conclusione: «Naturalmente, se venisse fuori una novità seria sarei il primo a voler andare a fondo ma, credo, il giudizio più cinico e allo stesso tempo più intelligente lo ha dato Giulio Andreotti. Tanti anni fa, in televisione, disse così se non ricordo male: “In fondo, Pasolini se l’è cercata…”. Puro cinismo democristiano ma ritengo che il senatore ci abbia azzeccato».
Il revisionismo a tutti i costi sull’omicidio Pasolini convince poco anche Enzo Siciliano, forse il più attento tra i biografi del regista friulano, che parla di «reality show penoso». Tuttavia l’ex presidente della Rai dice che, volendo, si potrebbe ripartire dalla sentenza del tribunale per i minorenni presieduto da Alfredo Carlo Moro. Omicidio volontario in concorso con ignoti. Spiega Siciliano: «È tutto scritto e i giudici, con la parte civile rappresentata da Nino Marazzita e da Guido Calvi, avevano stabilito la verità. È vero, è una verità monca ma la cosa curiosa, ora, è quel “fetuso comunista” che Pelosi oggi dice di avere ascoltato. Ecco, qui si apre uno spiraglio, anche se io non posso sindacare quello che deve fare la magistratura». Siciliano non crede che sarà tanto facile fare altri passi in avanti dopo le rivelazioni di Pelosi: «Sono passati 30 anni, può darsi che nella memoria si siano intrufolate nozioni acquisite poi. Il fatto è che Pasolini fu ucciso e c’è un rimorso collettivo su quella morte. C’è poco da dire. Perché questo è il fatto».

Idroscalo di Ostia. La scultura di Mario Rosati nell'incuria
Idroscalo di Ostia. La scultura di Mario Rosati nell’incuria

Il nodo
di Maria Novella Oppo

“l’Unità” –  9 maggio 2005

Piazza Fontana, il massacro del Circeo e l’assassinio di Pasolini tornano in onda come un orribile rewind, non perché la tv giri il coltello nella piaga per fare audience (per questo bastano gli insulsi reality), ma perché sono casi scandalosamente irrisolti. Troppi gli interessi che hanno fatto e fanno intralcio alla verità. Oppure, come per Piazza Fontana, la verità si conosce (lo disse proprio Pasolini) ma la giustizia non ha potuto raggiungere i colpevoli. La faccia immutabile di Ghira e il corpo devastato del «poeta scomodo»: di tutto questo insieme parla la tv in questi giorni, quasi fosse venuto al pettine un nodo solo che tiene uniti tanti delitti. Pino Pelosi, intervistato per Raitre da Franca Leosini, ha negato d’aver picchiato Pasolini, ma non di averlo ucciso passando sopra il suo corpo con la macchina. Irriconoscibile, ha parlato con pietà di quel se stesso diciassettenne che portava una giacchetta a quadri, troppo pulita per essere stata indossata per un massacro. Cose note, già dette allora anche nella sentenza di primo grado e poi cancellate da altre sentenze. Ma questa è una delle poche colpe che non possiamo attribuire alla tv.