Delitto PPP. I saggi di D’Elia, Gelardi, Galli, Lo Bianco-Rizza (2006-2009)

A partire dal 2005, a seguito della ritrattazione di Pino Pelosi durante la trasmissione Tv Ombre sul giallo (maggio 2005) e delle nuove indagini del pm Vincenzo Scalia sul delitto Mattei, si sono infittite le pubblicazioni sull’omicidio di Pasolini, connotate dal carattere di inchiesta libera, militante e politica e dal forte impulso alla ricerca della verità.  È il caso di quattro libri di cui “Pagine corsare” ha dato informazione, pubblicando schede, prefazioni, stralci o interviste agli autori. Si tratta dei  volumi Il Petrolio delle stragi di Gianni D’Elia (2006), Idroscalo 93 di Mario Gelardi (2006, ricavato da uno spettacolo teatrale del 2003), Dossier delitto Pasolini di Giorgio Galli (2008) e soprattutto   Profondo nero di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (2009), in cui compaiono testimonianze inedite e alcune ambigue nuove dichiarazioni del 2008 di Pino Pelosi.

1.“Il Petrolio delle stragi”
di Gianni D’Elia
Effigie, Milano 2006

una recensione di Davide Nota
“Neri & Oro Nero” – 9 marzo 2009

Perché tornare dopo trentaquattro anni sulla vicenda giudiziaria ai più nota come il “caso Pasolini”? Innanzitutto perché nella densa ragnatela di trame nazionali ed atlantiche in cui si è andata a consumare “la guerra civile” (espressione rubata da un bel titolo di Giovanni Pellegrino e Giovanni Fasanella, per Bur, del 2005) dei nostri anni di piombo, ogni evento cronachistico allora apparso come isolato inizia oggi a contestualizzarsi in un più razionale mosaico storico e geo-politico che non riguarda solamente il passato e che anzi continua incessantemente a riformulare e condizionare la nostra Storia presente. Aiutano senza dubbio le ricerche storiografiche svolte dal già nominato Senatore Pellegrino all’interno della coraggiosa “Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” (1988-2001), i cui atti sono consultabili dal sito web del Parlamento italiano, ma anche il lavoro di tanti singoli cittadini che hanno continuato, in questi anni di disimpegno, a lavorare e a battersi per «ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» (sono parole di Pasolini).
Si ricordino almeno le ricerche storiografiche di Sergio Flamigni sulla P2 e sulle “trame atlantiche” (che danno anche il nome a un importante libro edito da Kaos edizioni), le indagini del giudice Vincenzo Calia sul delitto di Enrico Mattei o in ultimo il prezioso contributo dello scrittore Gianni D’Elia sull’omicidio del poeta corsaro, con il pamphlet di indagine Il Petrolio delle stragi (Effigie, 2006) su cui ora ci concentreremo.
La “narrativa” generale all’interno della quale si sviluppa il discorso di D’Elia è la seguente: una rete di grandi poteri atlantici e di piccoli poteri nazionali dai primi dipendenti (mafia, P2) ha preservato il controllo egemonico sul territorio italiano, soffocando ogni richiesta di sovranità e di indipendenza economica, politica e culturale che potesse essere espressa dal nostro Paese.

"Il Petrolio delle stragi" (2006) di Gianni D'Elia
“Il Petrolio delle stragi” (2006) di Gianni D’Elia

Tre tappe nere 
La restaurazione di quello che Pasolini chiamò il «Nuovo fascismo» (e che l’ideologo americano Michael Ledeen chiamerà, compiaciuto, «Fascismo universale»), e cioè di un controllo diretto sull’Italia da parte di questa rete di poteri esteri o derivati, è avvenuta attraverso tre tappe, strategiche ma anche simboliche: l’omicidio di Enrico Mattei nel 1962 (repressione economica), l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 (repressione culturale) e l’omicidio di Aldo Moro nel 1978 (repressione politica). Scenografia unitaria di questi tre atti, una grande e omogenea nuvola di polvere dinamitarda: il Romanzo delle stragi, più comunemente oggi noto come “Strategia della tensione”.
Torniamo ora al particolare dell’omicidio di Pasolini, procedendo con ordine nella dispensa di informazioni fornite dallo scrittore marchigiano in questa vera e propria inchiesta indipendente. Pasolini, secondo la testimonianza dell’amico e regista Sergio Citti, cade vittima di una trappola e la notte tra il primo e il 2 novembre del 1975 si dirige, guidato dal piccolo criminale Pino Pelosi, detto “la Rana”, a pagare un riscatto e riprendere le pellicole rubate del film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il furto delle “pizze” di Salò fu commissionato, secondo le dichiarazioni anonime di un affiliato della Banda della Magliana, Giuseppe C., pubblicate il 3 novembre 2005 sulla cronaca romana de “la Repubblica” (ma anche depositate presso l’avvocato Randazzo, ex legale della famiglia Mattei), ad un gruppo di “pischelli” già “comparsati” in numerosi film del regista, e il cui ritrovo era il “Bar Biliardi” di Via Lanciani, nel quartiere “nero” di Piazza Bologna. Nel luogo deputato alla riconsegna, secondo le rivelazioni dello stesso Pelosi del 7 maggio 2005, Pasolini sarebbe stato invece atteso e ferocemente assassinato da tre siciliani al grido di “fetuso”, “arruso” e “sporco comunista”. Insomma: fascisti, piccoli criminali, Banda della Magliana e tre misteriosi siciliani saliti a Roma per uccidere un intellettuale scomodo: già da questi primi dettagli la vicenda pare assumere un profilo più articolato e complesso di quello con cui frettolosamente si è voluto chiudere il caso giudiziario, per non più riaprirlo (neppure dopo le rivelazioni del 2005).
C’è dell’altro. Dopo l’omicidio di Pasolini qualcuno si introduce nella casa del poeta e, secondo la testimonianza di Guido Mazzon (cugino del poeta), ruba “gioielli e carte di Pier Paolo”. Furto o sottrazione che sia, dal suo ultimo incompiuto romanzo, Petrolio (pubblicato postumo nel 1992 per Einaudi), spariscono sicuramente 78 pagine, tra cui l’intero capitolo Lampi sull’Eni, a cui Pasolini aveva già fatto, nel corpo del testo, riferimento («ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria»).

Razza padrona 
Da alcune bozze del capitolo, che fortunatamente sono state rinvenute, siamo ad ogni modo in grado di ricostruire le intenzioni dello scrittore. Pasolini aveva intenzione di divulgare la verità, ricercata e scoperta, sull’omicidio di Enrico Mattei (romanzato con il nome di Bonocore), e soprattutto sulle responsabilità nel delitto del vice-presidente dell’Eni Eugenio Cefis (romanzato in Troya), che difatti qualche anno dopo l’attentato del 27 ottobre 1962, conquistata la presidenza dell’ente nazionale, neutralizzò le politiche energetiche indipendentiste portate avanti da Mattei riconducendo l’azione dell’Eni all’interno dell’orbita atlantica delle Sette sorelle.
Pasolini aveva ricevuto informazioni scottanti dal matteiano Graziano Verzotto, che il primo febbraio del 1975 era scampato ad un attentato e che nel giugno dello stesso anno aveva deciso di rifugiarsi in Libano (Verzotto in Libano ha paura, “Corriere della Sera”, 22 giugno 1975), e che era stato inoltre la fonte, sempre per quanto riguarda il caso Mattei, del giornalista investigativo Mauro De Mauro, rapito e ucciso dalla mafia nel 1970, e del giudice Pietro Scaglione, assassinato sempre dalla mafia nel 1971. Pasolini stava inoltre consultando il libro, ormai irrintracciabile, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente (Agenzia Milano informazioni, 1972) di Giorgio Steimetz (misterioso pseudonimo, probabilmente collettivo), e lo stava usando come fonte per Petrolio.

Cappuccio numero uno 
Ma chi è Eugenio Cefis? Da un appunto del Sismi del 1983, reperito dal giudice Vincenzo Calia e divulgato nel pamphlet di D’Elia, veniamo a conoscenza che «la loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis, che l’ha gestita sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli». Da un altro appunto riservato del Sisde, del 17 settembre 1982, apprendiamo invece che «intensi contatti sarebbero intercorsi in Svizzera, fino al mese di agosto u.s., tra Licio Gelli e Eugenio Cefis, presidente della Montedison International».
Insomma: il Potere italiano è un Giano bifronte composto da “petrolio” e “fedeltà atlantica”. Pasolini aveva individuato, e dunque infastidito, quello che aveva già pubblicamente definito il «Nuovo potere», piduista e filo-atlantico, fascista e pure antifascista (il «sorriso colpevole» di Troya-Cefis), e per questo è stato punito all’interno di un’azione di giustizia sommaria messa in atto dai sicari classici di questo potere, che sono la mafia, il crimine organizzato e la piccola criminalità attigua al neofascismo.
Non solo: Pasolini aveva capito come l’omicidio di Enrico Mattei, nel 1962, rappresentasse solo l’inizio di una lunga guerra non convenzionale volta alla destabilizzazione del territorio italiano e alla limitazione della sovranità nazionale. E aveva soprattutto inteso la piramide del «Nuovo fascismo», che da Washington stringe l’Italia, passando per i vertici delle massonerie segrete e diramandosi sino alla mafia, al crimine organizzato, alle bande armate, finanche alla criminalità comune delle borgate, in un’unica ragnatela di complotti, connivenze e misteri. Dagli Scritti corsari a Petrolio, passando per Salò, l’ultimo Pasolini è la scoperta delle viscere del Potere italiano.

Cefinvest di casa Previti 
Noi oggi potremmo condurre queste prime intuizioni intellettuali ad una conclusione definitiva: nel 1962 è iniziata una guerra di “riconquista” del Potere repubblicano da parte di una oligarchia che fu fascista in quanto anticomunista, e che anticomunista rimase nei panni dell’antifascismo atlantico alleato con la mafia. Questa oligarchia anticomunista si fece strumento degli interessi di controllo geo-politico angloamericano, e da questo sposalizio (di reciproco interesse) deriva il Giano bifronte del «Nuovo potere» italiano, che dopo aver colonizzato culturalmente la nazione (attraverso lo strumento “Fininvest”, voluto dai gelliani e che mutua forse il nome da una società dall’evocativa sigla di “Cefinvest” di Umberto Previti, padre di Cesare), oggi mira a conquistare la Presidenza della Repubblica, terminando così la propria missione storica, il cui fine ultimo è lo smantellamento di intere sezioni (considerate troppo socialiste) della Costituzione italiana.
Ecco perché tornare sul mistero della morte e sull’opera di Pier Paolo Pasolini, a trentaquattro anni dal suo omicidio, può ancora essere utile: per comprendere razionalmente la natura antropologica del Potere in atto e per resistere, con sete di verità e passione corsara, all’interruzione culturale a cui siamo stati costretti.

"Idroscalo 93" (2006) di Mario Gelardi
“Idroscalo 93” (2006) di Mario Gelardi

2.“Idroscalo 93. Morte di Pier Paolo Pasolini”
di Mario Gelardi
Guida Editore, Napoli 2006
prefazione di Mario Martone
postfazione di Giulio Baffi, direttore collana teatro/testi di Guida Ed.

Utile, prima ancora che interessante, il lavoro che Mario Martone commissionò a Mario Gelardi nel 2003 per il suo progetto artistico-teatrale Petrolio dedicato a Pier Paolo Pasolini. Utile perché, come tutto il teatro civile degno di questo appellativo, non si limita a ricordare, a celebrare, a comunicare in forma più o meno teatrale un evento di cronaca della nostra epoca recente o meno recente, ma si incarica anche di dare un personale contributo per spiegare, dare una ragione allo svolgimento dei fatti narrati.
Che la morte di Pasolini sia un mistero (o forse non lo è affatto, ma lo sono invece i tentativi, riusciti piuttosto bene per la verità, di depistare l’accertamento della verità) è cosa risaputa da tutti. Che questo mistero possa essere legato a ben altri due “misteri italiani”, come quello della morte di Enrico Mattei e della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, non è cosa di dominio pubblico.
Ora la prosa sobria e scorrevole di Gelardi, che attinge con abilità agli interrogatori e ai verbali dell’epoca, ci conduce in questo cammino squallido ma avvincente al tempo stesso, facendoci porre delle domande che qualsiasi persona “civile” dovrebbe porsi. Possibilmente cercando anche di trovare delle risposte.

Mario Gelardi e Roberto Saviano impegnati nella trascrizione teatrale di "Gomorra" (2007)
Mario Gelardi e Roberto Saviano impegnati nella trascrizione teatrale di “Gomorra” (2007)

Una nota di Mario Gelardi
Dopo trenta anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, i dubbi su chi sia stato a ucciderlo sono intatti. Le dichiarazione succedutesi in questi anni non fanno che aggiungere confusione alla confusione. Nato nel 2003 per il progetto Petrolio, diretto da Mario Martone, Idroscalo 93 è il frutto della collaborazione tra l’autore e Carla Benedetti, che hanno lavorato sugli atti della inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, fatta dal Giudice di Pavia, Vincenzo Calia.
Nel 2002, il giudice che conduce da anni l’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, presidente dell’Eni, allega agli atti della sua istruttoria alcune pagine di Petrolio, il libro di Pasolini pubblicato postumo. È certo che decine di pagine riguardanti la morte di Mattei siano sparite dal manoscritto originale rivelando l’esistenza di un legame molto profondo tra  i due delitti. Ma cosa sapeva Pasolini sulla morte di Mattei? Cosa rivelano gli appunti di Petrolio? In questo testo, avvalendoci dei risultati dell’inchiesta e della consulenza di Carla Benedetti, docente della Università di Pisa, esperta sulla vita e le opere di Pasolini, raccontiamo “un’altra storia”. Percorriamo il filo rosso dei delitti-incidenti che hanno caratterizzato troppe volte la storia del nostro Paese. In scena, un narratore che si incarna nella figura di Giuseppe Pelosi, un ragazzo di borgata prima timido e impaurito, poi spavaldo e sicuro di sé, accusato dell’assassinio  di Pasolini. Il nostro narratore mette ordine nella “pratica Pasolini” rivelando sconcertanti ipotesi lontane dalle ipotesi degli inquirenti: Pasolini è stato ucciso da un giovane sbandato che lo scrittore aveva “rimorchiato”. Tutto chiaro allora. Pasolini è rimasto vittima dei suoi vizi e della sue “immorali” manie. Ma è davvero tutto così lineare? Pier Paolo Pasolini non piaceva a nessuno, e soprattutto non piaceva quello che negli ultimi tempi scriveva.

Giorgio Galli
Giorgio Galli

3.“Dossier delitto Pasolini”
di Giorgio Galli
Kaos Edizioni, Milano 2008

Prefazione a Dossier delitto Pasolini
Pier Paolo Pasolini venne ucciso all’Idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, l’anno del “terremoto elettorale” alle amministrative di giugno (con la forte avanzata delle sinistre), a metà del decennio della “strategia della tensione” e della lotta armata.
Nato a Bologna da madre friulana il 5 marzo del 1922, Pasolini era una delle personalità più importanti del secondo dopoguerra italiano, un intellettuale nell’accezione più completa e nobile del termine. Non solo regista cinematografico, poeta e scrittore, ma anche marxista schierato col Pci, polemista “eretico” e omosessuale tormentato. Proprio queste due ultime peculiarità – quella di marxista-polemista e la sua identità omosessuale – furono gli elementi “politici” che sostanziarono la sua enigmatica uccisione.
Anzitutto, l’omosessualità. In un certo modo, Pasolini andò incontro a quella morte, così come in altro modo vi andò incontro Michel Foucault (altro critico della società post-capitalista, stroncato dall’aids). Entrambi vivevano l’omosessualità in modo tormentoso, e la praticavano in maniera mercenaria (pagando le prestazioni erotiche dei “ragazzi di vita”). Questo tipo di omosessualità è certo espressione di una storia personale difficile da sondare. Come dato storico-culturale, si può evocare il prezzo che la cultura maschile occidentale, elleno-romana e giudaico-cristiana, è stata indotta a pagare per la repressione del femminile [1]. Poi occorre menzionare l’omofobia che ancora negli anni Settanta del secolo scorso, a dispetto dell’allora nascente movimento gay, allignava nella società italiana, accomunando la destra reazionaria e la sinistra comunista.
L’identità politica di Pasolini marxista e la sua attività di veemente polemista contro il Palazzo e contro la Dc soprattutto dalle pagine del più autorevole e diffuso quotidiano italiano, il “Corriere della Sera” diretto da Piero Ottone, furono subito sospettate di essere il possibile movente di un delitto che altrimenti ne risultava assurdamente privo. Tanto più considerando il clima sociopolitico di quel periodo, stretto fra la strategia della tensione e gli attentati del partito armato.
La prima versione del delitto di Ostia, basata sulle prime notizie sommarie, fu quella pubblicata proprio dal “Corriere della Sera” il 3 novembre 1975: Pasolini era stato ucciso dal solo Pelosi, e il delitto aveva come molla omicida l’omosessualità. Versione confermata dalla Corte d’appello circa un anno dopo (4 dicembre 1976): Pasolini era stato “massacrato” di colpi dal “ragazzo di vita” Pelosi, il quale poi ne aveva «schiacciato il corpo steso a terra con le ruote di una automobile».
La versione iniziale pubblicata dal “Corriere della Sera” (Pasolini ucciso dal solo Pelosi) venne però smentita, pochi giorni dopo, da un’inchiesta del settimanale “L’Europeo” e della giornalista Oriana Fallaci. Secondo l’inchiesta del settimanale, basata su voci e testimonianze anonime, nella notte tra l’1 e il 2 novembre più persone uccisero il regista-scrittore. La sentenza di primo grado confermerà questa ricostruzione dei fatti (pluralità di assassini) sulla base di una serie di indizi, indizi che però la Corte d’appello riterrà ininfluenti.
Le due diverse ricostruzioni giornalistiche (e poi giudiziarie) prospettavano scenari molto diversi. Infatti, se l’assassino era il solo Pelosi, l’uccisione di Pasolini aveva come contesto il ghetto dell’omosessualità e come probabile movente un raptus omofobico. Nel caso invece di una pluralità di assassini, il delitto di Ostia era stato, in tutta evidenza, un agguato con mandanti e esecutori.
Pur deplorando le strumentalizzazioni politiche, i giudici di primo grado ritennero che Pasolini fosse stato assassinato da più persone:
«Il clamore che l’episodio ha avuto sulla stampa, le interpretazioni non sempre obiettive e documentate che sono state proposte, la prospettazione di versioni contrastanti non basate su una “lettura” delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di una verità di comodo, il settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche, tutto ciò ha certamente resa più confusa sin dal primo momento l’indagine, inquinando quella serena atmosfera di ricerca della verità che era indispensabile in un caso così delicato. È questo clima che ha favorito il sorgere di testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto o etero accuse sostanzialmente pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti. […] Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».
Cruciale, per il tribunale, la sproporzione tra i colpi e le ferite inferti a Pasolini e le escoriazioni riportate da Pelosi: «In una colluttazione tra due soggetti», argomentava il collegio, «a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano fisico, è impossibile che uno solo dei contendenti riporti gravi ferite mentre l’altro esca praticamente indenne dalla lotta. Invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, mentre Pelosi non ha subìto significativi traumi. Eppure il Pasolini – come è notorio – non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa: era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari».
Di parere opposto i giudici di secondo grado. Oltre a negare la validità complessiva degli indizi relativi al concorso di più persone, la Corte d’appello contestò in particolare questo punto:
«Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull’imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi… Che questi elementi possano spiegarsi con la partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare… [Ma] la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato aggredito, sia stato Pelosi ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall’agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1,67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente di una determinazione a offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d’improvviso…».
I giudici di appello, in sostanza, ritenevano «estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici». Tuttavia insistevano sul fatto che la versione del ragazzo assassino era comunque inattendibile: Pelosi aveva ucciso intenzionalmente, senza aver subito alcuna violenza e dopo aver accettato tutte le prestazioni sessuali chiestegli. Il suo era stato un omicidio doloso e senza attenuanti, come confermava il corpo della vittima schiacciato con l’automobile.
Dunque, più assassini per il tribunale, un solo assassino per la Corte d’appello. Ma quale era stato, secondo i giudici, il movente del feroce massacro? La sentenza di primo grado non lo indicava, ipotizzando varie possibilità:
«La mancanza di un preciso accertamento della causale del delitto non può portare alla esclusione della responsabilità… In realtà possono farsi varie ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una lezione per un precedente “sgarbo”, che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che un protettore vigilasse su di lui. Non esistono elementi – di fronte al mutismo sul punto del Pelosi, sempre ancorato alla sua versione difensiva originaria – che possano far preferire una delle causali sopra riportate o anche una causale diversa, allo stato non facilmente ipotizzabile».
Se il tribunale non spiegava perché più persone avessero massacrato Pasolini, la Corte di appello non spiegava perché lo avesse fatto il solo Pelosi, in una sequenza logica così presentata nelle conclusioni:
«Ritiene la corte che i lati oscuri che rimangono nella vicenda – ivi compresa la marginale incertezza intorno all’ipotesi che Pelosi abbia potuto non essere solo – non tolgono nulla alle certezze acquisite intorno alla natura dolosa del ferimento e del successivo investimento di Pasolini da parte dell’imputato. Si deve infine rilevare che questo giudizio non è minimamente ostacolato dal mancato appuramento dei motivi del delitto… L’impossibilità di identificare la causale del reato non pregiudica il giudizio di colpevolezza».
Dunque le due sentenze, discordi quanto a dinamica del fatto, concordano sui punti oscuri e sulla impossibilità di stabilire il movente di un delitto compiuto con tanta ferocia. Per cui si può affermare che anche il processo per il delitto Pasolini, come tutti i maggiori processi con implicazioni sociopolitiche della recente storia italiana, si è concluso con sentenze discordanti, lacunose e contraddittorie.
Per tentare di risolvere l’enigma dell’omicidio Pasolini occorre collocare i fatti nel contesto sociopolitico dell’epoca (contesto che entrambe le sentenze lasciano sullo sfondo – salvo i riferimenti dei giudici di primo grado).
Va premesso che Pelosi non aveva ragioni per uccidere Pasolini, anzi ne aveva di buone per non farlo: il regista-scrittore era una fonte di reddito facile, era una conoscenza importante e forse da utilizzare proficuamente in futuro (esempio: per avere una parte in un film, come risulta dagli atti). Inoltre, Pelosi era un ragazzo rozzo ma scaltro: per oltre un anno – dal momento  dell’omicidio alla sentenza di appello – non mutò di un millimetro la sua inattendibile versione dei fatti (la Corte d’appello sottolineò infatti la «accortezza con la quale in dibattimento l’imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni», sgusciando con scaltrezza tra reticenze, bugie e contraddizioni). Va infine rilevato che Pelosi sin dall’inizio cambiò avvocato, scegliendo come difensore un legale che aveva difeso i giovani neofascisti autori di un altro atroce delitto al Circeo (una ragazza uccisa, un’altra gravemente ferita) [2].
Come attestano le evidenze dell’inchiesta e il buonsenso, Pasolini fu massacrato da più persone, con il Pelosi nel probabile ruolo di semplice “esca”. Sulla identità di chi abbia organizzato l’agguato c’è solo l’imbarazzo della scelta, nell’Italia di metà anni Settanta: dai servizi segreti in combutta con la criminalità organizzata, ai poteri occulti variamente assortiti, ai settori politici collusi con la malavita, alla microcriminalità della capitale.
Quanto allo scopo dell’agguato, il più probabile è una delle ipotesi suggerite dal tribunale: un’intimidazione, si voleva “dare una lezione” a Pasolini (così come, un paio di anni prima, personaggi rimasti anonimi avevano “dato una lezione” all’attrice Franca Rame sequestrandola e stuprandola). È probabile che si volesse depotenziare, attraverso una violenta intimidazione capace di provocare uno scandalo, la voce del Pasolini “moralizzatore politico”. Il regista-scrittore praticava una omosessualità mercenaria con sottoproletari minorenni: una pratica tanto più “scandalosa”, quanto più egli era divenuto espressione di una radicale contestazione del sistema di potere egemonizzato dalla Dc, partito che Pasolini proponeva addirittura di sottoporre a una sorta di Processo palingenetico.
Pasolini doveva intervenire all’imminente congresso del Partito radicale, dove avrebbe letto un intervento nel quale riassumeva le forti tematiche politico-culturali che andava dibattendo nell’ultimo periodo [3]. Il precedente agosto, sotto il titolo Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, aveva scritto:
«In conclusione, il Psi e il Pci dovrebbero per prima cosa giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente gli ultimi dieci) l’Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità straordinaria di reati, che io denuncio solo moralmente… Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla» [4].
Aveva poi ripreso quella stessa tematica così radicale sul “Corriere della Sera” il 24 agosto 1975, e nelle settimane successive su “Il Mondo”: «E solo attraverso il processo dei responsabili che l’Italia può fare il processo a se stessa e riconoscersi» [5].
Commentai in dissenso la tesi pasoliniana del Processo [6]. Pasolini mi rispose su “Il Mondo” il 16 ottobre 1975 (uno dei suoi ultimi scritti, due settimane prima di essere ucciso): lamentò il «silenzio da parte di tutti coloro che potrebbero parlare. Giorgio Galli che, di serio, non si limita ad avere il doppiopetto, si fa portavoce di quel silenzio, dicendomi, civilmente, che il processo sarebbe inutile. Ma il processo a Nixon è stato utile o inutile? D’altra parte, nell’ipotesi, del resto utopistica, che tutti i processi “fermi” fossero portati a termine da una magistratura indipendente e al di sopra del potere politico, si giungerebbe fatalmente al Processo di cui parlo io».
In sostanza, è probabile l’intenzione di intimidire il polemista Pasolini intenzionato a processare la Dc: gli si voleva “dare una lezione” in una situazione tale – mentre pagava ragazzini per sodomizzarli – da screditarne per sempre, presso l’opinione pubblica (anche comunista), la figura di scrittore-moralista.
Quella della intimidazione è un’ipotesi del tutto verosimile: ci sono gli indizi, ma mancano le prove. È quello che Pasolini denunciava per le stragi della “strategia della tensione” che avevano insanguinato l’Italia (e per quelle che ancora sarebbero seguite, dopo la sua morte, fino a destabilizzazione conseguita): c’erano gli indizi, innumerevoli, ma mancavano le prove.
Le recenti ammissioni del Pelosi ormai cinquantenne («Non fui io a uccidere Pasolini, ma un gruppo di picchiatori»), nella sostanziale inerzia della magistratura romana, nulla aggiungono a una verità processuale lacunosa e contraddittoria. Confermano semmai che l’uccisione di Pasolini è l’ennesimo delitto politico insoluto della recente storia italiana.

Note 
[1] Vi ho fatto qualche riferimento, a proposito del «miracolo greco”, in Cromwell e Afrodite, Kaos edizioni 1995.
[2] È il “massacro del Circeo”: il 30 settembre 1975 i pariolini Andrea Ghira, Giovanni Guido e Angelo Izzo massacrarono due ragazze, Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Quest’ultima riuscì miracolosamente a sopravvivere fingendosi morta.
[3] Cfr. il testo dell’intervento, pubblicato postumo dal settimanale “Il Mondo”, e qui riportato alle pagg. 63-71.
[4] “Il Mondo”, 28 agosto 1975.
[5] Ibidem, 11 settembre 1975.
[6] Nella mia rubrica sul settimanale “Panorama” del 25 settembre 1975 scrissi: «Certamente Pasolini usa la metafora del Processo per significare l’attesa – diffusa in tutti gli italiani – che si giri davvero pagina per un modo di governare e di saccheggiare il Paese che per mille segni non si tollera più. Questo non accadrà se gli stessi uomini che da trenta o vent’anni sono espressione di questo stile di saccheggio, stando alla testa della Dc e del governo, continueranno a starvi. Magari come promotori di qualche strategia dell’attenzione, di qualche compromesso storico, di qualche rapporto preferenziale che consenta loro di far percorrere all’Italia qualche altro passo sulla strada della rovina. Ebbene, anche per evitare questo non occorre un Processo. Occorrono analisi e indicazioni politiche […]».

"Profondo nero" (2009) di Lo Bianco e Rizza
“Profondo nero” (2009) di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

4.“Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini.Un’unica pista all’origine delle stragi di Stato”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Chiarelettere, Milano 2009
in libreria del 20 febbraio 2009

«La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita fino a quando è rimasto presidente della Montedison»
(secondo una nota riservata del Sismi agli atti dell’inchiesta di Pavia del pm Vincenzo Calia)

«Forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese» (Amintore Fanfani)

«Per me i partiti sono come taxi. Salgo, pago la corsa e scendo» (Enrico Mattei)

Eccolo il mistero italiano. Il giornalista De Mauro e lo scrittore Pasolini avevano in mano le informazioni giuste per raccontare la verità sul volto oscuro del potere in Italia, con nomi e cognomi. Erano gli anni Settanta. Il primo stava preparando la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sulla morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni che osò sfidare le compagnie petrolifere internazionali. Il secondo stava scrivendo il romanzo Petrolio, una denuncia contro la destra economica e la strategia della tensione, di cui il poeta parlò anche in un famoso articolo sul “Corriere della Sera” (Cos’è questo golpe).
De Mauro e Pasolini furono entrambi ammazzati. Entrambi avrebbero denunciato una verità che nessuno voleva venisse a galla: e cioè che con l’uccisione di Mattei prende il via un’altra storia d’Italia, un intreccio perverso e di fatto eversivo che si trascina fino ai nostri giorni. Sullo sfondo si staglia il ruolo di Eugenio Cefis, ex partigiano legato a Fanfani, ritenuto dai servizi segreti il vero fondatore della P2. Il “sistema Cefis” (controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico) mette a nudo la continuità eversiva di una classe dirigente profondamente antidemocratica.
Le carte dell’inchiesta del pm Vincenzo Calia, conclusasi nel 2004, gli atti del processo De Mauro in corso a Palermo, nuove testimonianze (tra cui l’intervista inedita a Pino Pelosi, che per la prima volta fa i nomi dei suoi complici) e un’approfondita ricerca documentale hanno permesso agli autori di mettere insieme i tasselli di questo puzzle occulto che attraversa la storia italiana fino alla Seconda Repubblica.

Gli autori
Giuseppe Lo Bianco è caposervizio all’Ansa di Palermo. Ha scritto anche per “Il Giornale di Sicilia” e “L’Ora” e oggi collabora con “L’espresso” e “MicroMega”.
Sandra Rizza ha lavorato come cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo. Ha esordito a “L’Ora” e scritto anche per “Panorama”, “La Stampa” e “il Manifesto”. Oggi collabora con “L’espresso” e “MicroMega”.

Intervista a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
“ll filo nero delle stragi”
di Roberta Vignoli
“Micromega” – marzo 2009

Molto è stato scritto sui casi Mattei, De Mauro e Pasolini. Ma la vostra inchiesta ha il merito di gettare una nuova luce indicando un’unica pista che legherebbe questi tre misteri d’Italia e le stragi di stato. Qual è questa pista e come siete giunti a questa conclusione?
Sandra Rizza
Profondo nero
 ha l’ambizione di illuminare il buio che circonda tre casi giudiziari italiani rimasti senza risposta. Siamo partiti dall’inchiesta del pm Vincenzo Calia che ha riletto le numerose anomalie seguite alla morte di Mattei in chiave di “depistaggi”, anche istituzionali. Abbiamo trovato diversi punti di collegamento tra questi e l’insabbiamento dell’inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, e ci siamo convinti che i due casi fossero profondamente intrecciati. Rileggendo, infine, Petrolio di Pasolini, l’opera incompleta che si proponeva di ripercorrere proprio le guerre interne all’Eni per denunciare la natura criminogena del potere in Italia, ci è sembrato molto probabile che il romanzo postumo fosse un possibile movente della sua uccisione. La pista unica è la chiave di lettura univoca che contestualizza le tre vicende rimaste ancora senza una risposta giudiziaria soddisfacente. Si parte dalla morte di Mattei che persino Fanfani, molti anni dopo, definì come il «primo atto terroristico del nostro paese». Si finisce con l’uccisione di Pasolini all’Idroscalo, che Pelosi oggi sembra ricondurre per la prima volta a una matrice politica. L’idea è che dietro la morte di Mattei vi sia un complotto tutto italiano (come l’ha definito Calia), orchestrato con la complicità di pezzi deviati degli apparati istituzionali e pronto a ricompattarsi ogni volta che, anche a distanza di molti anni, qualcuno minaccia di svelare il segreto di quella morte. Per questo sarebbe scomparso il giornalista De Mauro e per questo sarebbe morto lo scrittore Pasolini. De Mauro indagava sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia per conto del regista Rosi. Pasolini era ossessionato da Mattei e dal suo successore Cefis durante la stesura di Petrolio. 

Quali novità principali emergono dalla vostra ricostruzione?
Sandra Rizza
Pelosi racconta oggi per la prima volta che Pasolini fu ucciso da una squadra di cinque persone, che definisce “picchiatori” fascisti, arrivati con una macchina e una motocicletta. Secondo la sua ricostruzione, due o tre spuntarono dal buio dell’Idroscalo e si dedicarono subito al pestaggio. Gli altri due restarono a guardare il pestaggio, forse a controllare che tutto andasse come nei piani, dopo aver immobilizzato lo stesso Pelosi, che quella sera probabilmente era stato usato come esca. L’eliminazione di Pasolini, in questa nuova ricostruzione, non appare più come l’esito di una sconclusionata lite tra omosessuali, ma come un agguato studiato a tavolino e di chiaro stampo “politico”, che molto probabilmente ha una matrice “eccellente”. Noi abbiamo ipotizzato che questa eliminazione fosse collegata alla scrittura di PetrolioPetrolio è un romanzo importantissimo, il primo romanzo italiano che spiega la strategia della tensione, il romanzo che contiene in nuce tutte le denunce di tipo politico che finiranno negli articoli del “Corriere della Sera” e passeranno alla storia come gli Scritti corsari. Sono prese di posizione “estreme” e dirompenti, che nell’ Italia di quegli anni dovevano suonare particolarmente scomode e intollerabili.

Nell’intervista pubblicata nel libro Pino Pelosi aggiunge elementi fino ad ora taciuti sull’assassinio di Pasolini che sembrano rafforzare la matrice politica del delitto.
Sandra Rizza
Le nuove verità di Pelosi, che oggi fa i nomi di due dei picchiatori, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi morti di Aids, non fanno che confermare quella che da trentaquattro anni è la convinzione di gran parte dell’opinione pubblica italiana: e cioè che l’uccisione di Pasolini fu un delitto politico. Nel pestaggio di Ostia, Pelosi non poteva essere solo. Lo disse subito il perito Faustino Durante, illustrando in aula che lo stato del corpo di Pasolini, letteralmente massacrato di botte, non poteva assolutamente conciliarsi con l’aggressione di un’unica persona. Nella sentenza di primo grado, poi, il presidente del tribunale per i minorenni Carlo Alfredo Moro formulò l’imputazione parlando di un omicidio commesso da Pelosi con il concorso di ignoti. Questi ignoti non sono mai stati scoperti. E non sono mai stati scoperti perché non sono mai stati cercati. Cos’è successo? Gli avvocati Calvi e Marazzita dicono chiaramente che la fretta di chiudere le indagini, in presenza di un reo confesso, impedì l’accertamento di molti indizi che furono totalmente trascurati. Marazzita oggi ricorda che subito dopo la morte di Pasolini gli arrivò una segnalazione anonima che indicava la presenza di un automobile, una Fiat, sul luogo del delitto. Marazzita segnalò immediatamente agli inquirenti alcuni elementi della targa: la città di provenienza, CT, e i primi tre numeri. Nessuno fece nulla. Oggi Pelosi dice che all’Idroscalo arrivarono un’automobile, una Fiat 1300 o 1500, e una moto, con cinque persone a bordo. È incredibile la coincidenza…

Quanto è attendibile a vostro avviso la testimonianza di Pelosi?
Sandra Rizza
Quanto sia attendibile Pelosi, è compito della magistratura accertarlo, se ne avrà voglia. Di certo, la procura di Roma avrebbe a disposizione un eccezionale strumento di riscontro, per accertare l’attendibilità di Pelosi: la tecnologia moderna che oggi è a disposizione dell’investigazione. Si potrebbe disporre la riesumazione dei corpi dei Borsellino e fare un confronto con il materiale biologico ancora presente negli abiti di Pasolini, custoditi nel museo criminale di Roma. C’è poi un altro possibile accertamento: il maresciallo Sansone, che per primo fece il nome dei Borsellino, in un rapporto archiviato nei mesi successivi alla morte di Pasolini, parla di un quarto complice sul luogo del delitto, tale Giuseppe Mastini, detto Johnny lo Zingaro, pluriomicida, tuttora vivo e detenuto. Anche lui potrebbe essere sottoposto ad accertamenti di tipo biologico.

Quanto è stata importante la lunga e rigorosa indagine condotta dal Pm Vincenzo Calia (prima del vostro libro pressoché sconosciuta all’opinione pubblica) che, per quanto conclusasi giudiziariamente con un’archiviazione, mette nero su bianco molte verità inquietanti?
Sandra Rizza
Moltissimo. Quella di Calia è davvero un’indagine illuminante, che mette insieme migliaia di documenti, perizie, interrogatori, che riscrive un pezzo di storia italiana, che segue una logica stringente, ma purtroppo non arriva a individuare i responsabili della morte di Mattei per mancanza di prove sufficienti. È curioso, ma, scrivendo questo libro e partendo proprio  dall’indagine di Calia, che noi abbiamo arricchito con ulteriori testimonianze, ci è sembrato di osservare alla lettera l’insegnamento che fu il testamento laico di Pasolini: «Io so… ma non ho le prove». La possibilità, cioè, per un intellettuale, ma anche per un cittadino che eserciti la propria coscienza critica, di mettere insieme fatti e circostanze, di maturare la consapevolezza del lato oscuro della storia italiana, e soprattutto di farne partecipe l’opinione pubblica.

Secondo Calia l’uccisione di Enrico Mattei porterebbe una firma italiana.
Giuseppe Lo Bianco
Nella sua ricostruzione giudiziaria che ha avuto il grande merito di riscrivere, quasi da storico, una pagina oscura di storia italiana che altrimenti sarebbe stata dimenticata, Calia ha incontrato un numero incredibile di anomalie, di atti giudiziari spariti, di esiti di commissioni ministeriali stravolte nei verbali finali, di testimoni reticenti e poi generosamente ricompensati, persino di bobine Rai manomesse per farne sparire l’audio, ma anche fatti più gravi come un altro probabile attentato aereo, ai danni di un motorista di Mattei, precipitato con il figlio pochi istanti dopo il decollo dall’aeroporto di Ciampino. Tutti fatti avvenuti in Italia che lo hanno indotto, insieme all’analisi degli interessi politico-economici e delle relazioni che ruotavano attorno all’Eni, a ritenere che, a prescindere da un intervento internazionale, da lui ritenuto poco probabile, in Italia qualcuno ben introdotto negli ambienti dell’Eni e delle istituzioni si fosse mosso per fare fuori il presidente dell’Eni, depistando le indagini successive per accertare le responsabilità.

Quali prove a sostegno di questa ipotesi?
Giuseppe Lo Bianco
Le prove giudiziarie a sostegno di questa tesi, a distanza di oltre 40 anni, spesso sono coperte da prescrizione o, in qualche caso, non sono state trovate: questo non vuol dire che tutti i documenti recuperati, che compongono un quadro coerente e attendibile, perdano il loro valore storico. E alla luce, appunto, di questo obiettivo (la ricostruzione storica), pur condividendo tutti i rilievi sui depistaggi e le coperture “italiane”, frutto probabilmente di legami già allora inconfessabili tra apparati di Stati diversi, guardando al ruolo operativo di certi personaggi, peraltro citati nel libro, e agli interessi contingenti del mondo del petrolio internazionale, ritengo più probabile che un input francese a difesa dell’intervento di Mattei in Algeria abbia messo in moto il meccanismo omicida. Il senso del ruolo di altri apparati è racchiuso tra depistaggi e coperture, in un vero e proprio sistema a protezione di interessi economici e politici. Nell’articolo 40, libro primo, titolo terzo, del Codice penale, si dice: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo’’. Un articolo del codice penale che spesso spiega il ruolo omissivo di tanti apparati dello Stato nei numerosissimi misteri italiani. 

Quanto all’omicidio De Mauro, appare chiarissimo dalle vostre pagine il depistaggio compiuto dai servizi per impedire che si arrivasse alla verità che sembrava a portata degli investigatori. Perché?
Giuseppe Lo Bianco
Per impedire di individuare i responsabili della scomparsa di un giornalista che si era avvicinato moltissimo alla verità sull’incidente di Bascapè dove morì Mattei. Per soffocare una pista che avrebbe portato molto in alto, verso i vertici istituzionali citati dai testimoni ascoltati da Calia. Per evitare di riaprire un caso ormai archiviato come incidente aereo. Un caso, come ha scritto Pietro Zullino nel suo libro, con cui mezza Italia da decenni, ricatta l’altra mezza.

Chi era realmente Eugenio Cefis, che in una nota dei servizi riportata nel volume, è indicato come il vero fondatore della P2 e il “grande manovratore” del potere più oscuro?
Giuseppe Lo Bianco
Giorgio Bocca ha raccontato di avere incontrato una domenica mattina Cefis in redazione, al “Giorno”, a Milano, venuto a stampare personalmente alcune foto. Evidentemente non si fidava di nessuno. E del resto, foto sue in giro non se ne trovano. Cefis aveva l’ossessione della segretezza, del mistero, del silenzio. È il prototipo dell’altissimo burocrate pubblico, felpato, discreto, riservato, con un nemico giurato, il comunismo, e un’unica religione, il potere, con P maiuscola. E, nel suo caso, con l’utilissimo patrimonio di rapporti atlantici cementati negli anni difficili della Resistenza, sulle montagne della Val d’Ossola. Con lui alla guida di fatto dell’Eni, e poi della Montedison, si perde del tutto, a differenza di Mattei, la visione del bene comune, per lasciare il posto a una tutela di interessi di gruppo, più o meno occulti, che sarà una costante di tutta la storia italiana, fino ai giorni nostri. Su Cefis, il suo ruolo ed il suo sistema, c’è un ottimo libro di Scalfari e Turani [Razza padrona, Baldini Castoldi Dalai 1998, ndr], punto di partenza di ogni tentativo di conoscenza del personaggio.

Ancora oggi la sua figura è avvolta nel mistero e il suo ruolo nelle trame italiane poco conosciuto.
Giuseppe Lo Bianco
Probabilmente ancora oggi scontiamo l’enorme influenza di Cefis nel sistema dell’informazione italiana che ha soffocato ogni curiosità giornalistica nei suoi confronti, tranne rare e mirate eccezioni, spesso interessate: non è un caso che l’unico libro che approfondisce nel dettaglio la ramificazione delle sue società e dei suoi interessi mettendone in luce gli aspetti occulti ed illeciti sia firmato con uno pseudonimo. Nel palcoscenico della politica italiana di quegli anni, ma anche di oggi, le relazioni economiche e i loro intrecci con la politica dovevano restare dietro le quinte, incomprensibili per i cittadini perché scomode da raccontare nelle loro radici criminali. […]

Giuseppe Lo Bianco
Giuseppe Lo Bianco

“Mattei, Pasolini e De Mauro: una scia di sangue e petrolio”
 intervista a Giuseppe Lo Bianco
di Antonella Loi
www.tiscali.it

Enrico Mattei, Pier Paolo Pasolini, Mauro De Mauro. Cosa c’è dietro la morte del presidente dell’Eni nei cieli di Bascapè? E di chi era la mano che uccise il poeta all’Idroscalo di Ostia: fu veramente il 17enne Giuseppe Pelosi o, come da lui stesso dichiarato in una recente intervista, «lo uccisero in 5, gente intoccabile»? E ancora, cosa aveva scoperto il giornalista Mauro De Mauro a proposito della morte di Mattei, tanto da diventare un pericolo per chi ne ordinò il sequestro e la morte? Una trama oscura che passa attraverso il libro che Pasolini stava ultimando, Petrolio, e la sceneggiatura per un film di Rosi sul Caso Mattei su cui il cronista siciliano lavorava. Uno dei tanti misteri d’Italia, un puzzle intricato che passa attraverso la loggia massonica P2, i servizi segreti deviati e la lotta per il potere di personaggi senza scrupoli a cui Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, nel loro libro Profondo nero – Mattei, De Mauro, Pasolini. Un’unica scia all’origine delle stragi di Stato (edito da Chiarelettere, 2009, pp. 295) hanno provato a dare un volto. Facendo nomi e cognomi.

Lo Bianco, l’uccisione di Mattei è stata un punto di svolta nella storia italiana? 
Direi proprio di sì. Enrico Mattei aveva in testa l’idea di un’Italia autonoma, energeticamente e finanziariamente, libera dalla dipendenza dalle Sette Sorelle, Mattei aveva un po’ sconvolto l’equilibrio mondiale del mercato del petrolio. Era un personaggio assai scomodo, all’estero perché alterava questi equilibri e in Italia perché, oltre ad avere una grande capacità economica, aveva anche una grande capacità politica. Mattei era diventato una sorta di ministro degli Esteri italiano, era più importante del ministro degli Esteri, e in qualche modo decideva larghe fette di politica estera italiana, stringeva rapporti con i paesi del Medioriente e dell’Africa sulle questioni energetiche. Con la sua morte in molti hanno tirato un sospiro di sollievo e questo emerge dalle carte processuali e da documenti dei servizi segreti.

Dalla coltre di fumo che per anni ha circondato il “caso Mattei” emerge la figura di Eugenio Cefis, collante di un sistema eversivo sostenuto da una classe dirigente fuori dagli schemi della democrazia. Chi era Cefis? 
Cefis era un burocrate di Stato, un boiardo, un grande manager pubblico che come Mattei veniva dalla Resistenza. Condividevano la stessa esperienza anche se si erano annusati e non si piacevano molto. Avevano combattuto insieme sulle Alpi lombarde. Come tutti coloro che vengono dalla Resistenza, avevano due caratteri forti, temprati dalla guerra, molto duri. Ma al contrario di Mattei, Cefis preferì fin dall’inizio allacciare rapporti con gli americani, rapporti che segneranno poi tutta la sua carriera. Cefis era un uomo con l’ossessione della segretezza, Giorgio Bocca l’ha raccontato molto bene. Sue fotografie in giro non ce ne sono. Quelle agli atti dei processi sono state più volte acquistate così come, forse per conto di Cefis, sono state acquistate anche quelle della tragedia di Bascapè dove perse la vita Mattei. Foto acquistate dall’investigatore privato Tom Ponzi che, successivamente, finì coinvolto in storie di spionaggio.

Un personaggio misterioso.
Un’informativa dei servizi segreti indica Cefis come il capo della loggia massonica P2, che poi avrebbe lasciato in eredità a Licio Gelli e Umberto Ortolani. Quello che ci ha colpito scrivendo questo libro è che per oltre quarant’anni, al di là delle responsabilità di Cefis e del “sistema Cefis”, a noi italiani hanno fatto credere che questo aereo si fosse schiantato a Bascapè in una sorta di incidente aereo. Sono riusciti a camuffare un sabotaggio facendolo passare per un incidente aereo. E ci sono riusciti benissimo per molti anni.

Perché non si è mai arrivati ad una verità giudiziaria sul caso Mattei? 
Perché i primi testimoni, penso al colono Mario Ronchi, hanno ritrattato quello che hanno detto di aver visto nell’immediatezza ai giornalisti della Rai, documenti poi scomparsi o alterati: dal video di un servizio Rai è sparito addirittura l’audio. Sono entrati in gioco una serie di meccanismi di copertura e di depistaggio fortissimi, che non potevano non avere radici nell’apparato dello Stato. Penso appunto al colono Ronchi al quale, dopo questa sua ritrattazione, è stata costruita una strada interpoderale a spese dell’Eni, o meglio della Snam. Ronchi è stato assunto dalla Snam con un contratto annuale per fare il custode di quello che sarebbe diventato il memorial Mattei, fu assunta perfino una figlia. Lui era l’unico testimone che aveva detto di aver visto la palla di fuoco in cielo, cioè era l’unico che aveva visto qualcosa che dimostrava che era successa qualcosa a bordo dell’aereo sul quale viaggiava Mattei, aveva visto le fiamme in aria. Sparita quella prova poi tutto finì.

Anche una commissione d’inchiesta indagò sulla morte del presidente dell’Eni. 
La commissione parlamentare, che venne insediata dall’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti, però non riuscì ad arrivare a nessuna verità. E anche se il comandante Giambalvo, che il procuratore Calia [il magistrato che nel 1994 aprì un’inchiesta che per la prima volta mise in correlazione gli omicidi Mattei, Pasolini e De Mauro ndr.]  ha sentito e il cui verbale fu allegato agli atti dell’inchiesta, ha detto di avere lasciato la commissione con un’intesa tra i componenti della commissione stessa, e di avere visto poi un esito del tutto diverso, spuntato nell’ufficialità dei documenti finali. Anche quella è una pagina molto oscura. Soltanto dopo la riesumazione dei cadaveri, l’esame dei reperti dell’aereo custoditi negli hangar, il pm Calia fece un lavoro brillante, faticoso e tenace, riuscendo a ristabilire la verità, una verità che era stata nascosta agli italiani.

Da Mattei a Pasolini. Il poeta – ucciso il 2 novembre 1975 – provò a denunciare l’eversione di stato: Pelosi ha parlato di una banda di picchiatori che, mentre massacravano il poeta, urlavano “frocio, comunista”. Quella di Pasolini è stata dunque una morte “politica”? 
Pelosi non la racconta tutta. Evidentemente non la racconta tutta e non la racconta ancora giusta. Però è pure vera una cosa: come dice la Maraini, nel suo raccontare questa verità a rate, ci si avvicina sempre di più a quello che lei e il gruppo di intellettuali vicini a Pasolini avevano gridato, cioè che si trattava di un delitto politico. Bernardo Bertolucci, grande amico di Pasolini, parlò di una fatwa lanciata dal palazzo. Pelosi evidentemente, arrivato a cinquant’anni, sente forte il peso di questa responsabilità che non vuole più portare da solo. In fondo ha pagato solo lui.

Pelosi racconta una storia totalmente diversa da quella resa al processo. 
Pelosi parla oggi di un commando di cinque persone, parla di un appuntamento che Pasolini avrebbe preso con lui una settimana prima, aprendo uno scenario del tutto nuovo: non è stato un adescamento casuale alla stazione Termini, ma un appuntamento concordato che poteva offrire agli assassini l’occasione per ammazzare Pasolini. E Pelosi fa i nomi. La cosa singolare che abbiamo evidenziato bene nel libro è che due di questi erano stati identificati due mesi dopo dal maresciallo Renzo Sansone che, infiltrandosi in una bisca del Tiburtino, riuscì a raccogliere le confidenze dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino che dissero di aver ucciso Pasolini insieme a Giuseppe Mastini detto “Johnny lo Zingaro”. Ma ad assassinare Pasolini erano in cinque, quindi ce ne sarebbero altri due, che Pelosi descrive come “quarantenni con la barba” che non avrebbero direttamente partecipato al pestaggio ma avrebbero in qualche modo sovrinteso all’agguato dell’Idroscalo e questi potrebbero essere legati ai servizi segreti deviati. Ma tutto questo dovrà essere accertato per via giuridica se, come chiesto dall’avvocato Maccioni, il fascicolo verrà riaperto.

Un altro omicidio legato alla morte di Mattei e poi di Pasolini, è quello del giornalista Mauro De Mauro – sparito da Palermo il 16 settembre del 1970 – che indagava sui giorni siciliani, gli ultimi, di Enrico Mattei. 
Il delitto di Pasolini è legato più logicamente che giudiziariamente agli altri due. Il delitto De Mauro invece è legato in maniera fortissima al delitto Mattei. De Mauro indagava sul delitto Mattei per conto del regista Rosi. Due giorni prima della sua scomparsa De Mauro aveva incontrato il senatore Graziano Verzotto, un personaggio chiave di questa vicenda perché attraversa incredibilmente tutti e tre i delitti. Verzotto, capo delle pubbliche relazioni dell’Eni, è l’uomo che chiama Mattei in Sicilia per quell’ultimo viaggio trasformato nel viaggio della morte.

Verzotto è legato a Mattei ma anche a De Mauro. 
Sì, Verzotto è l’uomo che incontra De Mauro e al quale fa tutta una serie di confidenze, fino all’ultimo incontro il 14 settembre due giorni prima della sua scomparsa, quando gli parla di una serie di cose, indicandogli Cefis come un possibile mandante del delitto Mattei. Verzotto, nella sua qualità di presidente dell’Ente minerario, è finanziatore di quell’agenzia che si chiama “Roma informazioni” e che è collegata a “Milano informazioni”, che pubblicò il libro Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, scritto da tale Giorgio Steimetz, misteriosamente ritirato dagli scaffali, da cui Pasolini aveva tratto spunti per il suo Petrolio. Quindi De Mauro aveva capito probabilmente una fetta di verità relativa a Mattei e proprio per questo, secondo noi, è stato fatto scomparire.

Dal suo libro emerge un intreccio di depistaggi ed omissioni che tocca imprenditori, politici, servizi segreti, passando per la mafia e la massoneria. Una sequela di non-verità che si protraggono fino ai giorni nostri: l’Italia degli anni ’70 vive ancora oggi? 
L’Italia degli anni ’70 si proietta in maniera inquietante negli anni ’90 e nel terzo millennio. Non siamo riusciti a fare chiarezza su tutti i buchi neri del nostro passato recente, nonostante una bellissima relazione di maggioranza della Commissione stragi presieduta da Giovanni Pellegrino abbia messo dei punti fermi sulla storia sottotraccia di questo Paese, disegnando perfettamente quella che fu negli anni ’70 la strategia della tensione.

Una pagina chiusa? 
Tutt’altro, quella strategia non è conclusa, quella stagione si proietta ancora fino ai giorni nostri e lo ha sottolineato lo stesso pubblico ministero Calia quando, nella sua inchiesta, cita una società che si chiama “Cefinvest” che sarebbe in qualche modo collegata alla Edilnord centro residenziali, già Edilnord Sas di Silvio Berlusconi. Lui cita questo come un dato di cronaca ma fa riflettere abbastanza, al di là delle informative dei servizi segreti che indicano Cefis come il vero fondatore della loggia P2. È una parte oscura, che arriva fino alle stragi del ’92 e ’93, quindi alla nascita della Seconda Repubblica, che avrebbe bisogno di venire illuminata.

Stralci da Profondo nero
di
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Chiarelettere, Milano 2008

L’incipit
Caro lettore,
prendi fiato: stai per fare un salto nel tempo, una corsa a ritroso nella storia italiana, per scoprire il mistero del complotto che potrebbe avere provocato la morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni precipitato nel 1962 con il suo aereo nella campagna pavese di Bascapè.
Ma stai per scoprire qualcosa di più. Che quel complotto sarebbe stato orchestrato “con la copertura di organi per la sicurezza dello stato”, e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto.
Per questo motivo sarebbe sparito nel nulla a Palermo il giornalista Mauro De Mauro, eliminato in circostanze misteriose per volontà di un mandante invisibile. Per questo motivo lo scrittore Pier Paolo Pasolini, ucciso ufficialmente in una lite tra “froci”, sarebbe vittima di un agguato studiato a tavolino. Come si legano i tre delitti? Un filo nero come il petrolio avvolge la fine di Mattei, De Mauro e Pasolini.

Testimonianze
«No, non fu una lite. Pier Paolo fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che doveva morire.» [Sergio Citti, regista].

«Il mio cognome si scrive cò due T. Salvitti Ennio… Lo scriva che è tutto ‘no schifo, che erano in tanti. Lo hanno massacrato quel poveraccio. Pè mezz’ora ha gridato “mamma, mamma, mamma”. Erano quattro, cinque.» «Ma lei questo l’ha detto alla polizia?» «Ma che, sò scemo?» [Da un’intervista a un baraccato di Furio Colombo, cronista della “Stampa”, poche ore dopo la morte di Pasolini] 

Pino Pelosi durante la trasmissione di Franca Leosini (7 maggio 2005)
Pino Pelosi durante la trasmissione di Franca Leosini (7 maggio 2005)

“Intervista a Giuseppe Pelosi all’Idroscalo di Ostia”
Roma, 12 settembre 2008

Pelosi, sono passati trentatré anni da quella notte piena di misteri, la notte dell’uccisione di Pasolini. Lei è l’uomo che per la giustizia italiana ha ucciso il poeta. Cosa prova a ritrovarsi oggi in questi luoghi?
Una sensazione strana. Questo è il luogo dove ho perso metà della vita mia, Pasolini l’ha persa tutta, ma io ne ho perso almeno metà… tra carcere e problemi… Mi hanno condannato a nove anni, sette mesi e dieci giorni, ma poi sono tornato a delinquere e in tutto ho fatto ventisette anni di galera. È la metà precisa della mia vita… Che posso dire? Qui è tutto cambiato, hanno recintato, hanno fatto un’area protetta… È difficile riconoscere tutti i luoghi: laggiù c’era la porta del campetto di calcio, dove Pasolini quella notte ha parcheggiato la macchina, ma ora il campetto non lo vedo più. Anche il monumento è cambiato. So che è stato rifatto, prima era stato distrutto dai vandali, poi l’hanno rifatto. C’è ancora qualche baracca, coperta dalla vegetazione, vedo che la vegetazione ha preso il sopravvento. La sensazione è un po’ strana, è passato tanto tempo…

Proviamo a raccontare cose successo in questo luogo quella notte. Recentemente sono comparsi alcuni articoli di stampa nei quali lei, Pelosi, ha fatto nuove rivelazioni. Per esempio, ha detto alla regista Roberta Torre che quella sera del 1° novembre 1975 non era la prima volta che incontrava Pasolini… Che vi eravate conosciuti prima, che c’era un appuntamento tra voi… Com’e andata veramente? 
È vero. Quella sera io e Pasolini avevamo un appuntamento al chiosco della stazione.  L’avevamo fissato una settimana prima, questo appuntamento, quando c’eravamo visti per la prima volta, io e lui, proprio a quel cacchio di chiosco di piazza dei Cinquecento. Io ci andavo spesso in quel bar, ci andavo con gli amici, avevamo diciassette anni, giravamo sempre per strada, ma non per fare marchette, noi andavamo spesso al cinema. Ce n’erano un paio, di cinema: il Moderno e il Modernetto, nei pressi della stazione. E noi andavamo a vedere i film, sperando sempre che comparisse qualche donna col petto nudo. Io non ero un marchettaro, semmai è vero che rubacchiavo, motorini, vespini, e a diciassette anni già ero stato dentro due volte per cazzate. Una sera mi è capitato di conoscere Pasolini in quel chiosco. Lui è sceso dalla sua bella macchina, è entrato al bar, abbiamo scambiato quattro chiacchiere.

Che cosa vi siete detti? 
Ma niente, poche parole. Lui mi ha chiesto: «Tu vieni spesso?». E io ho risposto: «Sì, passo di qui la sera, quando vado al cinema». Poi mi ha offerto da bere. Prima di quella sera non l’avevo mai visto. E non sapevo nemmeno chi fosse. Che si trattava di Pasolini me lo dissero gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. «Ma lo sai che quello è uno famoso? – mi dissero – lo sai che con quello se possono fa’ ‘n sacco de soldi?»

In quel primo incontro, che cosa è successo tra voi? 
Quella sera niente, abbiamo scambiato qualche parola. Mi offrì una cosa da bere. Poi basta.

Ma vi siete dati un appuntamento? 
Ah sì. Un appuntamento per il sabato successivo, a una settimana di distanza. Per rivederci sempre al chiosco.

Così si arriva alla sera dell’1 novembre. Lei è tornato al chiosco… 
Sì. Quella sera c’erano pure Franco e Giuseppe Borsellino con me e gli altri amici davanti al chiosco di piazza dei Cinquecento. E quei due stavano tramando qualcosa, qualcosa di brutto, me ne sono accorto subito, e perciò gli ho detto chiaro che io non volevo partecipare, non ne volevo sapere nulla. Poi arrivò Pasolini, con la sua bella macchina, e io me ne andai con lui.

Però un testimone dice di averla vista telefonare, nei giorni precedenti alla morte di Pasolini, dicendo: «Se c’è da dargli un po’ de botte, ci sto». Come se lei, prima ancora di essersi accorto quella stessa sera che i Borsellino tramavano qualcosa di brutto, fosse d’accordo già da qualche giorno a partecipare a un’imboscata… 
Smentisco. Non c’è stata nessuna telefonata. È’ falso. Io non sapevo niente.

Quindi, lei è salito sull’auto di Pasolini, intuendo che i Borsellino tramavano qualcosa, ma non sapendo esattamente che cosa, e soprattutto dopo essersi dissociato apertamente dal loro progetto. Quando la macchina e la moto hanno cominciato a seguirvi, lei si è accorto di questi movimenti?
No, assolutamente. Non ho visto nulla, con Pasolini stavamo dentro la macchina, a parlare, non guardavo fuori.

E parlando siete arrivati fin qui senza accorgervi di nulla? Neppure quando vi siete fermati alla trattoria Biondo Tevere dove lei ha cenato?
SI. Non ho visto niente. Siamo arrivati qui senza accorgerci di niente.

E qui, all’Idroscalo, cos’è successo? 
La macchina di Pasolini è entrata da quell’apertura, ed è arrivata fino a quel punto, dove c’era la porta di un campetto di pallone. Pasolini ha parcheggiato proprio lì. Era buio, sembrava deserto. Stavamo lì, dentro l’auto, abbiamo fatto quello che ho raccontato più volte, quella cosa lì … Poi io sono uscito dalla macchina, sono andato a urinare vicino alla rete… E in quel momento è spuntata una macchina scura, non so se un 1300 o un 1500, e una moto. Sono arrivate in tutto cinque persone.

E poi? 
A me m’ha bloccato subito uno con la barba, sulla quarantina, m’ha detto: «Fatti i cazzi tua, pederasta». Ho preso una bastonata e un cazzotto. Ho visto che trascinavano Pasolini fuori dalla macchina, e lo riempivano di pugni e calci, picchiavano forte. Gridavano, ho sentito le urla, gli dicevano: «Sporco comunista, frocio, carogna». Ho avuto paura, mi sono allontanato nel buio. Sono tornato quando tutto è finito.

Dunque, gli aggressori erano cinque. Li conosceva? 
Due li conoscevo. Erano Franco e Giuseppe Borsellino. Poi c’era questo che mi ha colpito, questo con la barba: non lo conoscevo, ma l’ho visto da vicino che aveva una quarantina d’anni. Gli altri due non so proprio chi fossero.

Franco e Giuseppe Borsellino sono i due fratelli catanesi, ora entrambi morti, che confidarono al maresciallo Sansone di aver partecipato al delitto insieme a lei e a Giuseppe Mastini. Li conosceva bene i Borsellino?
Erano due amici miei. Con loro ci conoscevamo da prima, da ragazzini, perché rubavamo insieme i motorini. Siamo cresciuti insieme, tra i palazzi dell’Ina casa. Il più piccolo dei fratelli, l’ho saputo anni dopo, era completamente drogato: anfetamine e stimolanti. Erano due ladri di borgata, come me, ma in quel periodo sia Franco sia Giuseppe erano diventati fascisti, so per certo che bazzicavano la sezione del Msi al Tiburtino, andavano a fare politica.

Secondo quanto i Borsellino confidarono al maresciallo Sansone, quella sera c’era anche Giuseppe Mastini, detto Johnny lo Zingaro… 
Johnny l’hanno sempre messo in mezzo, ma non c’entra niente… È vero, anche lui è un vecchio amico, era nello stesso giro, l’avrò visto una decina di volte. Faceva pure lui la vita di ruberie, si rubacchiava, poi è stato arrestato per omicidio, ma quella sera a Ostia non c’era.

Ma allora, perché i Borsellino lo avrebbero coinvolto nel pestaggio di Pasolini? 
Che ne so? Ma non è vero niente. Mastini non c’entra niente. Frequentava la nostra zona, tutto qui. Tutto nasce da una cartolina che, quando ero in carcere, ho scritto ai Borsellino: Salutatemi Johnny… E da lì l’avvocato Marazzita è partito in tromba: ecco chi ha ammazzato Pasolini… ma Johnny non c’entra. Lo escludo categoricamente.

Durante il pestaggio di Pasolini, lei cosa faceva? 
Io mi sono allontanato, ho preso quel cazzotto, ero terrorizzato, e mi sono nascosto nel buio, sono tornato indietro solo quando quelli se ne sono andati via. Pasolini stava per terra. Ho visto il corpo immobile. Mi sono spaventato, ho preso la sua auto e sono fuggito. Ho visto che non c’era più niente da fare e sono scappato. Sono andato alla fontanella, mi sono sciacquato e sono scappato con la macchina sua. Ho fatto un pezzo contromano e i carabinieri mi hanno fermato. Mi hanno arrestato per furto d’auto.

Lei ricorda di essere passato, fuggendo con l’auto, sul corpo di Pasolini? 
Non ricordo.., adesso, qui… la zona anche adesso è un po’ incolta.., ma quella notte qui era tutto fango. La macchina sobbalzava, io avevo diciassette anni, ero piccoletto e, essendo una macchina bassa, un Gt, io praticamente non vedevo nulla, solo un pezzetto del vetro. Ancora oggi non so nemmeno se sono stato io a schiacciarlo sotto le ruote, o se l’avevano schiacciato prima quegli altri con la loro macchina. La zona era piena di buche, con acqua e fango, e poi ero confuso, non capivo niente, ricordo solo che scappavo su quell’Alfetta, col sedile basso, che neppure arrivavo a vedere attraverso il parabrezza, non vedevo niente, correvo e pensavo solo a scappare.

Accanto al corpo di Pasolini fu trovato il suo anello, con la pietra rossa e la scritta “United States Army”. Negli atti giudiziari c’è scritto che lei l’avrebbe lasciato apposta, con un gesto di grande intelligenza, per coinvolgere nel delitto Johnny lo Zingaro, che era il vero proprietario  
dell’anello… 
Ma quando mai. L’anello è mio. Me l’ha dato uno steward dell’Alitalia che abitava nel mio cortile. Era un amico mio, ci giocavo a pallone… Lui portava questi anelli americani, glieli pagavo 25.000 lire e li rivendevo a 50.000. Era un business. Quell’anello mi piaceva e l’avevo tenuto per me. Lo portavo al dito pure quella sera e deve essermi caduto…

Lei per tanti anni si è addossato tutta la responsabilità della morte di Pasolini, negando che vi fossero altre persone all’Idroscalo. Poi improvvisamente nel 2005 in tv, alla trasmissione Ombre sul giallo, ha rivelato la presenza di una squadra di picchiatori, i veri assassini del poeta. Perché ha aspettato tanto per fare queste rivelazioni? 
Ho ricevuto tante minacce, una montagna di minacce. In tutti questi anni ho pensato alla mia sicurezza, alla sicurezza dei miei genitori. Ora mio padre e mia madre sono morti. Non ho più nessuno. Che mi possono fare? Tutti mi hanno minacciato, pure i froci di piazza Navona mi hanno mandato lettere di minaccia… che vonno mai? Non c’ho niente contro i gay e manco contro le lesbiche. Ma a parte questa storia dei froci, ci sono state minacce vere e proprie. Minacce serie. Ora penso che quelle persone, quelli che quella notte vennero per picchiare Pasolini, oggi saranno pure morte, e comunque c’avranno più di settant’anni… E poi, adesso i tempi sono più maturi… penso che la gente è cresciuta, sono passati tanti anni…

Perché l’hanno ribattezzata Pino “la Rana”? 
Sono stato soprannominato la Rana perché quando sono arrivato a Regina Coeli avevo gli occhi gonfi per le botte, avevo preso botte, m’hanno proprio menato… e così un giornalista si è inventato questo soprannome. Il mio vero soprannome era un altro. Mi chiamavano Pelosino, perché ero un ragazzino, e non c’avevo un pelo di barba. Ora, invece, c’ho una barba così…

Pelosi, sono passati trentatré anni. Oggi lei è adulto, e ha pagato il suo conto con la giustizia. Secondo lei, cosa è successo quella sera?
Secondo me era una lezione, una punizione, forse dovuta al partito o alla politica. Pasolini stava sul cacchio a qualcuno. Lo massacravano e gli dicevano: «Sporco comunista, sporco frocio».

Che cosa c’entra la politica? 
Se tu uccidi qualcuno in questo modo, o sei pazzo o hai una motivazione forte: siccome questi assassini sono riusciti a sfuggire alla giustizia per trent’anni, pazzi non sono certamente… E quindi avevano una ragione, una ragione importante per fare quello che hanno fatto. E nessuno li ha mai toccati. Perché alla fine di questa brutta storia ho pagato solo io, che avevo solo diciassette anni, forse perché sono il «gargio» di zona… come si dice a Roma… il più scemo. Sono stato usato. L’ho capito troppo tardi. Ma oggi sono pentito di essermi accollato tutto.

Perché lei si è accollato tutto? 
Me l’ha consigliato il mio avvocato, Rocco Mangia. Mi ha detto: fai così, esci presto, sei minorenne. Mi sono chiesto il perché, in questi mesi, più volte. Molti giornalisti mi ci hanno fatto pensare. Perché è andata così? Perché dovevo pagare solo io? C’è chi parla di politica…, l’avvocato mio era un Dc. Ho pensato a una sua convenienza politica, lui poi s’è candidato… Oppure mi ha consigliato perché davvero ci credeva. Comunque, aveva detto: tu sei minorenne, ci mettiamo poco a farti uscire. Bon voyage! Io la galera me la sono fatta tutta. Otto anni mi sono fatto.

Gli avvocati Spaltro, i primi che la difesero nel processo, la pensavano diversamente da Rocco Mangia. Le avevano consigliato di non accollarsi tutta la colpa di quel pestaggio mortale…
Anche loro, però, hanno usato uno stratagemma per avvicinarsi a me. Mi dissero: «Ci ha mandati tuo zio Giuseppe». Ma io non ho alcuno zio Giuseppe. Poi è arrivato l’avvocato Rocco Mangia che si è offerto di difendermi gratuitamente. Me lo portarono mio padre e mia madre, di cui mi fidavo ciecamente. Così lo nominai mio difensore. Lui poi mi ha consigliato di levare gli Spaltro.

Chi portò il perito Aldo Semerari nel suo processo? 
Semerari lo portò Rocco Mangia. E nel processo ricordo i nomi di altri due periti: la Carraro e Ferracuti. Poi il tribunale aveva nominato Busnelli, Giordano e un altro. La parte civile aveva come perito Luigi Cancrini. Erano sette, in tutto, i periti che dicevano che al momento di ammazzare Pasolini io non ero in grado di intendere e di volere, e che quindi non ero punibile. Ma il tribunale, contro il parere di sette periti, compreso uno di parte civile, mi ha condannato a nove anni, sette mesi e dieci giorni. Come si spiega questa sentenza? ‘Sta cosa mi ha stranito…

Ha più rivisto i Borsellino? 
I Borsellino li ho rivisti. Uno, quello più piccolo, l’ho rivisto in carcere, era mezzo strippato, drogato, stava al reparto dei matti. L’altro l’ho visto dopo un sacco di tempo… al balcone. Era sieropositivo. Non gli ho detto niente. Non me ne fregava niente. Poi è morto.

Lei oggi sostiene di non essere l’assassino di Pasolini. Che ricordo ha di questo grande intellettuale, romanziere, poeta, regista, che quella sera di trentatré anni fa lasciò in questo luogo la sua vita? 
Pasolini lo ricordo bene… Ricordo un particolare: la sua faccia, che non andava d’accordo con la sua voce. Aveva una faccia da duro, con la mascella squadrata, ma una voce soave. Che posso dire di lui? Era una persona gentile, si potrebbe dire che era un uomo «vecchio stampo». Oggi penso che sarebbe stato un buon amico.