Delitto PPP: i commenti di Bernardo Bertolucci e Gianni Vattimo (10.V. 2005)

PAGINE CORSARE

Fondo Angela Molteni

La vita

Alla notizia della riapertura del fascicolo per l’omicidio di Pasolini nel maggio 2005, la stampa intervenne con ampia attenzione, dando spazio anche a commenti a caldo di pensatori e artisti autorevoli, come Gianni Vattimo e Bernardo Bertolucci, che  anche “Pagine corsare” riprese con tempestività.

Bernardo Bertolucci: «Su Pasolini una fatwa del Palazzo»
di Sara Menafra

“il manifesto” –  10 maggio 2005

«Ricordo che il giorno della morte feci una intervista con il Tg1 in cui, così a caldo, molto emozionato per quello che era successo, avevo detto che a me sembrava un delitto di stato». Accetta subito di parlare, il regista Bernardo Bertolucci, nel giorno in cui la procura di Roma annuncia che l’inchiesta sulla morte di Pasolini sarà aperta di nuovo.

Cosa pensò quando seppe della morte del regista con cui aveva iniziato a lavorare nel cinema?
Volevo molto bene a Pier Paolo, anche visto che avevo cominciato a lavorare con lui. Quando parlai di delitto di stato per non essere frainteso aggiunsi anche che non sapevo se ci fosse qualcosa di diretto. Da Ragazzi di vita in poi Pierpaolo era stato continuamente processato e spesso condannato, c’era stato un linciaggio che era durato molto a lungo. Chi lo aveva ucciso si sentiva non solo autorizzato, ma pensava di aver fatto qualcosa di buono, di aver ripulito il paese. La cosa che oggi mi viene in mente è che fosse come se il palazzo avesse lanciato una fatwa nei confronti di Pier Paolo. Non è accaduto, ma se Salman Rushdie fosse stato ucciso sarebbe stato un caso molto simile a quello di Pier Paolo. Non so se quello che ha detto Pelosi abbia qualche credibilità, ma il dato importante è che la Procura di Roma abbia riaperto il caso. Forse oggi si potrà arrivare più vicini alla verità. Il fatto che per due volte, prima in appello e poi in cassazione, la sentenza di primo grado sia stata cancellata e si sia parlato solo di Pelosi come unico colpevole non è mai stato credibile.

Quando l’ha visto l’ultima volta?
Nel marzo di quell’anno, per una partitella di calcio tra la troupe di Novecento (dello stesso Bertolucci ndr) e la troupe di Salò (l’ultimo film di Pasolini, in lavorazione al momento del suo assassinio ndr). Pierpaolo si andò a rivestire a un quarto d’ora dalla fine perché non gli passavano mai la palla. «Siete tutti dei narcisetti», aveva detto ai suoi.

Alcune persone a lui vicine, tra cui il regista Sergio Citti, sostengono che Pasolini stesse cercando di recuperare le pizze del film Salò e le 120 giornate di Sodoma, quando fu ucciso
Non era stato rubato il negativo, che stava alla Technicolor, ma quelle rubate erano delle copie di lavoro; tra l’altro sparì anche una copia di Casanova (di Federico Fellini ndr); quindi chi se ne importa? Il produttore Grimaldi non avrebbe pagato neanche dieci lire per riaverle. Ma forse Sergio Citti sa di più di quello che abbiamo letto sui giornali.

Ma perché trent’anni dopo uno come Pelosi decide di parlare e lo fa in questi termini?
In effetti, sinceramente non so quando siano morti i genitori di Pelosi, ma il fatto che lui non abbia parlato perché credeva che potessero essere minacciati mi sembra un po’ improbabile. L’altra cosa che fin da allora ho sempre rifiutato è l’ipotesi che Pier Paolo sia andato a cercarsela, che sia entrato in una specie di delirio masochistico che era andato troppo in là. Assolutamente, non posso prenderla neppure in considerazione. Non so che cosa abbia detto Nico Naldini …

In una intervista al “Corriere” ha spiegato che queste mille ricostruzioni «non fanno che allontanarci dalla verità».
Beato lui, che evidentemente ha dei motivi per dirlo. Io non accetto questa spiegazione e non ho mai creduto che Pelosi fosse solo, perché sapevo benissimo quante volte Pier Paolo fosse stato minacciato o aggredito e di come avesse sempre saputo difendersi. Ora come poteva questo ragazzino, che non aveva su di sé una goccia di sangue quando l’arrestarono, aver ridotto Pier Paolo ad un «mucchio di spazzatura», come disse la prima testimone che trovò il corpo? Sono i fatti che fanno pensare che Pelosi forse non abbia neppure partecipato all’esecuzione.

Voluta da chi?
Era una fatwa lanciata dal Palazzo, il Palazzo si era difeso.

Era coinvolto qualche partito?
Pier Paolo diceva «Io si i nomi, ma non ho le prove e non ho neanche indizi ». Sono nella stessa situazione.

Pasolini, imbarazzo anche per la sinistra dei giorni nostri.
«È attuale il suo modo drammatico di intendere la modernizzazione»
di Gianni Vattimo

“La Stampa” –  10 maggio 2005

Si riapre il caso Pasolini o, meglio, ritorna d’attualità – dopo la nuova “confessione” di Pino Pelosi, ormai quasi cinquantenne, e le dichiarazioni di Sergio Citti – senza essersi mai davvero chiuso, nonostante la condanna di Pelosi come unico autore dell’omicidio. In molti sensi, il caso e la sua riapertura sono un fatto emblematico della società italiana, forse la più carica di casi criminali e giudiziari mai davvero chiusi, che ci hanno segnato e continuano a pesare sulla coscienza collettiva. Pensiamo a piazza Fontana, alle stragi degli anni Settanta, a Pinelli, Feltrinelli, Calabresi. Nonostante gli sforzi di collocare l’assassinio di Pasolini in una categoria più “tranquillizzante” per la coscienza comune – un delitto nel solito “torbido ambiente delle amicizie particolari” – con la volonterosa (ora apprendiamo che forse era estorta con minacce e ricatto) collaborazione di Pino Pelosi, il caso non si lascia né isolare né dimenticare. Se davvero – come sembra molto verosimile, più verosimile della versione ufficiale – Pelosi non era solo, o forse non c’era addirittura, chi sono gli ignoti assassini? E soprattutto, come ci si è domandati in tanti altri casi di depistaggio favorito da qualche servizio deviato, perché le indagini sono state così frettolose e si sono orientate esclusivamente sulla pista della comune criminalità (omo)sessuale? Si va qui ben oltre il limite del caso giudiziario. Pasolini era un personaggio imbarazzante. Chi lo avesse voluto togliere di mezzo con la quasi sicurezza di farla franca – salvo il modesto prezzo di una condanna per un povero ragazzo di vita -, doveva solo costruire, o utilizzare, una delle situazioni in cui lo scrittore spesso si era collocato lui stesso, con il suo amore per le borgate e per quella sorta di innocenza selvaggia che non trovava più negli ambienti più “regolari” che frequentava a Roma. E dire che, facendo del cinema, non avrebbe avuto difficoltà a incontrare sia persone dei suoi stessi gusti, sia giovanotti  “in carriera” disponibili ad assecondarlo (pensiero irriguardoso per il mondo dello spettacolo? Ma è così che ce lo immaginiamo, e lo mitizziamo, noi piccolo borghesi impiegati..). Viene in mente qui Wittgenstein che, a quanto ne sappiamo, preferiva andarsi a cercare gli amici occasionali nei pub di Londra piuttosto che nei college di Cambridge.
Una ulteriore “perversione” del suo desiderio, dunque?  In qualche modo riparare alla colpa del suo peccato compiendolo in condizioni pericolose, difficili, piene di minacce. Ma non riusciamo a non domandarci se anche questa ulteriore perversione, ammesso che sia tale, non fosse prodotta dalle condizioni ambientali in cui Pasolini era cresciuto e viveva, e che sono le stesse per le quali, se pure non c’è stata una congiura più vasta, la polizia dell’epoca si è orientata nel senso che abbiamo visto. Se ancora oggi nel “torbido ambiente” molti delitti restano impuniti o passano sotto silenzio, è perché ci sono ancora quei tabù. Il ribelle Pasolini si rivoltava anche, probabilmente, contro l’acquiescenza un po’ ipocrita con cui la società dell’epoca guardava al “vizio contro natura”, stigmatizzandolo nei poveri e nelle classi basse, e concedendolo come una innocente irregolarità a certi membri un po’ marginali dell’establishment: artisti, parrucchieri, antiquari, attori e registi, di rado operai metalmeccanici o tranvieri… Ma questi sono solo i primi pensieri che vengono in mente quando si ripensa al mai chiuso caso Pasolini. Giacché, se davvero qualcuno – ma non poteva essere il solo Pelosi, con la sua tavoletta di compensato e il bastone, e soprattutto con i suoi esili muscoli di adolescente appena uscito dall’infanzia – ha pianificato il delitto e ucciso lo scrittore, questo è perché, nonostante la sua vita scandalosa, era diventato una vera voce della coscienza nazionale, che gridava contro i privilegi e la persistente divisione di classe, fino a prender le parti, nel Sessantotto, dei poliziotti contro gli studenti di Valle Giulia: giovanotti borghesi che rivendicavano una libertà orientata soprattutto al consumo illimitato, contro i veri proletari che vestivano la divisa per ragioni di sopravvivenza elementare.
Ma ancora: solo questo? A parte la giusta volontà di raggiungere la verità giudiziaria sul caso, per non lasciare impuniti gli eventuali veri assassini, che ragioni ci sono di ritornare su una storia di trent’anni fa, che in tanti sensi non ci riguarda più? Gli omosessuali continuano a non essere proprio amati dal pubblico di mamme e babbi d’Italia, ma sono largamente accettati; quando fanno outing, rischiano addirittura di diventare deputati, ministri, sindaci… Persino l’espressione “torbido ambiente” è quasi sparita dai giornali; e il dramma dell’Aids, che all’inizio sembrava riservato (e meritato) a questa categoria di cittadini, ha contribuito a farli riconoscere come partecipi delle stesse preoccupazioni di tutti i “normali”, e ora persino capaci di accollarsi una famiglia e dei figli.
Sebbene non del tutto separato dalla sua esperienza di omosessuale stigmatizzato (persino espulso dal Pci per indegnità politica e morale), ciò che ancora ci interpella in Pasolini è il suo modo drammatico di vivere la modernizzazione. Non dobbiamo dimenticare che proprio quella sinistra, che lo aveva espulso e che poi sempre più ha ripreso a coltivare il suo ricordo, si presenta spesso in Italia come la promotrice della modernizzazione, con questo argomento anche respingendo le critiche di chi le rimprovera un eccesso di apertura verso la società neocapitalistica e i suoi (pretesi) valori. Ma non avrebbe dovuto Pasolini riconoscere che la modernizzazione che egli considerava così distruttiva era anche la condizione perché lui stesso potesse vivere la propria omosessualità in maniera più umana e amichevole? Dal punto di vista di una “sana” visione riformista, dovremmo credere proprio questo, perdonandogli i suoi eccessi di drammatizzazione come un aspetto, per noi inessenziale, della sua poetica. Ma, per l’appunto, non sappiamo (più) bene se Pasolini non avesse ragione, più di quanto oggi siamo invitati a credere, contro ogni tranquillizzante concezione della positività della modernizzazione. Del resto, era anche uno spirito intensamente religioso. Per il quale la condizione di una vita davvero umana non poteva che essere una sempre rinnovata inquietudine: il Messia, quando tornerà, verrà come il ladro nella notte, non deve trovarci addormentati negli agi un poco ottundenti della “vita moderna”. Non sappiamo che cosa egli penserebbe oggi degli sforzi di normalizzazione che una sinistra sempre più volonterosa e collaborativa compie in vista di rassicurare sia i nostri concittadini, sia i nostri alleati tradizionali. Non siamo tanto sicuri che non andrebbe incontro a una nuova espulsione.

Gianni Vattimo
Gianni Vattimo

Morte di Pasolini, nuova inchiesta sul giallo
redazionale

“Il Gazzettino” –  10 maggio 2005

Si farà la nuova inchiesta, e sarà la terza, sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Per due giorni, dalla Procura di Roma, sono arrivate indicazioni che facevano ritenere insufficienti i presupposti per riaprire il caso, ma, dopo una serie di valutazioni e, soprattutto, dopo l’annunciata iniziativa dell’avvocato Nino Marazzita, legale dei familiari dello scrittore-regista, di presentare una formale richiesta, c’è stato il cambio di rotta.
Il fascicolo, intestato «atti relativi a», privo cioè di ipotesi di reato e contro ignoti, conterrà l’esposto di Marazzita, il quale chiederà di procedere per omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione, nonché gli articoli di stampa e i video con le interviste rilasciate da Pino Pelosi, l’uomo condannato a nove anni di carcere per il delitto avvenuto all’Idroscalo di Ostia nel 1975, e da Sergio Citti, il regista e amico fraterno di Pasolini.
Il primo atto della procura sarà proprio quello di convocare Giuseppe Pelosi, detto “Pino la Rana”, e Citti.
Il primo, intervistato durante il programma Ombre sul giallo, ha negato a 30 anni di distanza di essere il responsabile della morte di Pasolini ed ha chiamato in causa, senza farne i nomi, tre uomini che hanno un accento del meridione.
Ancora più pesante l’accusa di Citti: «Io so chi ha ucciso Pasolini e come avvennero i fatti. – ha ripetuto in questi giorni nella sua casa in riva al mare a Fiumicino – Lo dissi anche all’epoca, ma non sono mai stato chiamato per testimoniare. Hanno chiamato altri che non c’entravano niente».
Secondo l’anziano regista la morte di Pasolini sarebbe collegata al mancato pagamento di riscatto per la restituzione delle «pizze» del film Salò o le 120 giornate di Sodoma che erano state rubate.
Chi si è battuto fortemente per la riapertura dell’inchiesta sono i rappresentanti di parte civile. Secondo Nino Marazzita e Guido Calvi la procura non può non tenere in considerazione gli ultimi elementi emersi.
In particolare, il primo punta sulle «nuove tracce investigative fornite dalle dichiarazioni rilasciate, in televisione, da Pino Pelosi e, sulla stampa, da Sergio Citti».
Si tratta, secondo Marazzita, di «tracce che vanno solidificate da un punto di vista giudiziario». L’apertura di una nuova inchiesta, per il legale, servirà anche a riparare «alla incredibile decisione della Procura Generale dell’epoca la quale, di fronte alla sentenza di primo grado in cui si sosteneva che Pelosi non aveva agito da solo ma con ignoti, invece di riaprire le indagini impugnò la sentenza. Con il paradosso di farlo ancora prima che la sentenza fosse depositata». 

L'Alfa GT di Pasolini
L’Alfa GT di Pasolini

Sette le richieste chiave dell’avvocato Marazzita per la riapertura del procedimento
redazionale

“Metro” –  10 maggio 2005

Il procuratore Giovanni Ferrara in persona, coadiuvato dal procuratore aggiunto Italo Ormanni e dal sostituto Diana De Martino, seguirà personalmente lo sviluppo della nuova indagine aperta ufficialmente da oggi sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Il fascicolo per il momento porta ancora l’intestazione di atti relativi, anche se l’avvocato Nino Marazzita con la sua denuncia ha chiesto alla Procura di Roma di ipotizzare il reato di omicidio volontario premeditato facendo riferimento all’eventualità che la morte dello scrittore non sia dovuta unicamente a Pino Pelosi ma ad altre persone che lo avrebbero usato come esca. In tempi brevi la Procura avvierà gli interrogatori sollecitati da Marazzita e poi, quando ci sarà un quadro preciso dei fatti, deciderà per quale reato procedere o se il fascicolo appena aperto debba finire in archivio.
Si riassumono in 7 punti le richieste dell’avvocato Nino Marazzita in rappresentanza della famiglia di Pier Paolo Pasolini e in particolare della madre Susanna [la madre di Pasolini morì nel 1981, ndr.]. Alla Procura della Repubblica, Marazzita chiede l’audizione di Pino Pelosi e del regista Sergio Citti. Gli stessi, se necessario, dovrebbero essere messi a confronto. Quanto alle altre richieste il penalista sollecita l’interrogatorio dell’appuntato dei carabinieri Renzo Sansone che sulla vicenda ha fatto una intervista al settimanale “Oggi” nel marzo del ‘95; l’eventuale interrogatorio di 3 persone: Franco e Giuseppe Borsellino e Giuseppe Mastini. Quest’ultimo conosciuto come “Giovanni il biondino” oppure come “Gianni lo zingaro”, che fu protagonista in quegli anni di un violentissimo scontro con la polizia che lo inseguì per ore e ore dopo che aveva sequestrato una giovane donna.
Infine Marazzita chiede l’acquisizione di una videocassetta della trasmissione Ombre sul giallo mandata in onda da Rai3 il 7 maggio scorso, l’acquisizione del “Corriere della Sera” dell’8 maggio scorso e l’acquisizione del settimanale “Oggi” del 29 marzo 1995.
Spiegando nella denuncia il perché delle sue richieste, il penalista fa presente che Sansone nella sua intervista parlò di una confessione ritenuta attendibile, secondo la quale “all’Idroscalo (dove fu ucciso Pasolini) erano in 4: oltre a Pino Pelosi, i due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino e Giuseppe Mastini”. Marazzita poi lamenta che i giudici che condannarono Pelosi non fecero mai indagini finalizzate alla ricerca di eventuali complici. E questo nonostante le sue sollecitazioni.
Ora, secondo il penalista, le dichiarazioni di Pelosi fatte nel corso della trasmissione televisiva meritano un approfondimento da parte della Procura della Repubblica e altrettanto approfondimento meritano le dichiarazioni fatte da Sergio Citti nell’intervista fatta al “Corriere della Sera” l’8 maggio scorso, dichiarazioni che forniscono una traccia sicuramente utile per la ricostruzione delle modalità dell’omicidio. Il reato ipotizzabile deve essere quello di omicidio volontario commesso con l’aggravante della premeditazione, che costituisce una ipotesi di reato imprescrittibile.

punto interrogativo

I magistrati di Roma hanno ordinato altri accertamenti
redazionale

“La Stampa” –  10 maggio 2005

Sabato scorso il colpo di scena. A trent’anni dalla barbara uccisione di Pier Paolo Pasolini, Pino Pelosi, l’uomo che fu condannato per l’omicidio, ritratta tutto e ribalta la storia: «Non l’ho ammazzato io, erano in tre, io lo difesi». Ieri la Procura ha ufficialmente riaperto il caso e ordinato nuovi accertamenti. Dopo le dichiarazioni in tv di Pelosi e quelle del regista Sergio Citti che ha confermato che gli assassini erano più di uno, il procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara ha aperto un fascicolo intitolato «K, atti relativi». Al momento nell’incartamento non sono riportati né indagati né notizie di reato e, a seguire gli sviluppi, sarà il procuratore aggiunto Italo Ormanni, che nei prossimi giorni ascolterà a piazzale Clodio sia Pelosi che Citti. Il fascicolo raccoglierà per il momento la nuova verità di Pelosi, gli ultimi risvolti, la memoria che l’avvocato Nino Marazzita, già parte civile nel processo contro Pino «la Rana», presenta oggi alla Procura e le rivelazioni di Sergio Citti ai giornali («So chi ha ucciso Pasolini, Pelosi fu l’esca»). Il percorso processuale della vicenda è relativamente veloce. La sentenza di primo grado è datata 26 aprile 1976, quella d’appello 4 dicembre 1976. La Corte di Cassazione si esprime in modo definitivo il 26 aprile 1979: Pelosi se la cava con una condanna a nove anni. Ne sconta soltanto sette, uscendo in semilibertà. E adesso muta radicalmente la versione dei fatti rilanciando una pista investigativa mai battuta fino in fondo ma ipotizzata più volte: la possibilità che Pasolini sia stato massacrato da un gruppo di picchiatori fascisti che volevano dargli una lezione. «Tre uomini scesi da una Fiat 1500 targata Catania lo picchiarono selvaggiamente gridando “Fetuso, arruso, sporco comunista” – racconta ora Pelosi -, poi minacciarono di uccidere i miei genitori se avessi raccontato l’accaduto». In effetti, sono tanti i punti oscuri che fanno pensare al coinvolgimento di più persone nel delitto, elementi tenuti in considerazione pure nella sentenza di primo grado contro Pelosi («concorso di ignoti nell’omicidio»). In particolare, tra i tasselli che non sono mai tornati a posto c’è il maglione verde rinvenuto sul sedile posteriore dell’auto di Pasolini durante l’ispezione e che non apparteneva né allo scrittore né a Pelosi. Altre zone d’ombra del delitto riguardano, poi, la scomparsa dalla vettura del pacchetto di sigarette e dell’accendino che, a detta di Pelosi, si trovavano nel portaoggetti. Suscitano molti dubbi, però, anche le macchie di sangue ritrovate sul tetto dell’auto dal lato del sedile del passeggero, una circostanza che contrasta con l’ipotesi che Pelosi fosse al volante. Oppure fa ritenere che qualcun altro fosse seduto al posto del passeggero. A contrastare con la versione ufficiale è, inoltre, il fatto che il sangue rinvenuto sul cadavere sia troppo rispetto a quello trovato addosso a Pelosi, che ha riportato nella colluttazione soltanto qualche piccola ferita mentre il regista ne è uscito massacrato: una circostanza che fa ipotizzare una lotta tra più persone. «Quella notte, Pelosi non era solo, c’erano altri arrivati lì per uccidere Pasolini. – accusa Sergio Citti, amico del cuore dello scrittore – Pier Paolo era scomodo, non fu un incidente, una lite: fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che Pasolini dovesse morire». Citti cita l’episodio del furto delle pellicole originali di Salò e aggiunge di aver visto un paio di volte il ricattatore. La sera in cui fu ucciso, sostiene, Pasolini doveva incontrare chi le aveva rubate, ad Acilia. «Fu lì che lo sequestrarono, poi lo condussero a Ostia, all’Idroscalo, dove avvenne il massacro. – sostiene Citti – Il ricatto delle pellicole del film Salò era una scusa. Picchiarono per uccidere, erano professionisti. Ho sempre pensato che non fossero balordi ma potessero essere pure poliziotti o agenti segreti. Pier Paolo era un grosso problema. Aveva attaccato frontalmente la Democrazia Cristiana».

Le ceneri di Pasolini
di Emiliano Sbaraglia

“Aprile online” –  10 maggio 2005

Proprio a trent’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, la sensazione, che di quella notte all’Idroscalo di Ostia qualcosa continui a non convincere, torna a farsi pressante dopo le ultime confessioni rivelate sabato scorso in Tv da Pino “la Rana” Pelosi, durante la trasmissione Ombre sul giallo.
All’epoca reo confesso, dopo essere stato condannato a nove anni di carcere e averne scontati sette, ora Pelosi rompe improvvisamente gli indugi, dichiarando di essere stato costretto a sostenere una falsa versione dei fatti e ammettendo la presenza di almeno altre due persone nell’agguato fatale all’intellettuale friulano. Quello che Pelosi ancora tace, però, sono sia i nomi degli altri presunti assassini, sia chi gli ha chiesto di non dire la verità per tutto questo tempo.
Per cercare di orientarsi tra i meandri di questo ennesimo, torbido enigma della storia politico-culturale del nostro paese, bisogna considerare con attenzione il 1995, anno nel quale il procuratore aggiunto Italo Ormanni, sotto richiesta dell’avvocato Marazzita (legale della famiglia), raccolse due importanti testimonianze riguardanti l’omicidio dello scrittore, tra cui quella di un poliziotto, che raccontò di una sua sbrigativa e sorprendente promozione da parte degli organi superiori, in una delicata fase delle indagini che stava conducendo sulla morte di Pasolini.
E del ’95 è anche un film di Marco Tullio Giordana Un delitto italiano, il cui soggetto, scritto da Enzo Siciliano, sembra recuperare attraverso una meticolosa attenzione su alcuni particolari della vicenda, molto del nucleo interpretativo che può cogliersi oggi dalle ultime dichiarazioni di Pino Pelosi.
C’è da chiedersi allora se non siano così lontane da una effettiva realtà di quei fatti  le riflessioni dell’ex presidente della commissione-stragi, Pellegrino, quando affermano che, nel famoso scritto “corsaro” di Pasolini del 1974 [Il romanzo delle stragi”, ndr], alcuni avrebbero potuto leggere non soltanto delle provocatorie supposizioni da parte dell’autore, quanto una evidente conoscenza di precise implicazioni durante il periodo delle stragi tra il ’68 e il ’74, come d’altra parte anche lo scritto postumo Petrolio dimostrò di contenere notizie dettagliate in relazione al precedente “caso-Mattei” e alle vicende dell’Eni.
Questa nuova inchiesta, dunque, non soltanto potrebbe risultare utile per scoprire ulteriori indizi sulle dinamiche dell’assassinio compiuto: essa può rimettere in discussione il movente stesso dell’omicidio-Pasolini, e quindi tornare a chiedersi anche chi volle veramente la morte di un uomo, fondamentalmente scomodo a tanti soltanto per la sua insopprimibile vocazione alla libertà, individuale e sociale, politica e artistica. Tutto questo trent’anni dopo, quando di Pasolini verranno sicuramente celebrate (da ogni parte) la grandezza intellettuale, la preveggenza culturale: in poche parole, il coraggio di dire quello che si pensa. Cosa, questa, ogni giorno sempre più rara.

Omicidio Pasolini, scelti i due nuovi magistrati

“Ansa” –  10 maggio 2005

Saranno il procuratore aggiunto Italo Ormanni e il sostituto Diana De Martino i due magistrati ad indagare nuovamente sull’omicidio Pasolini. L’incartamento conterrà la denuncia presentata dall’avvocato Marazzita, gli articoli pubblicati in questi giorni e l’intervista rilasciata da Pelosi sull’argomento. Intanto 30 parlamentari, con a capo Grillini (Ds), hanno presentato alla Camera un interrogazione per chiedere al Premier le iniziative al riguardo. Roma si costituirà parte offesa.

«Con Pino lì c’erano Johnny lo zingaro e i due fratelli Borsellino»
di M. Mart.

“Il Messaggero” –  10 maggio 2005

È la storia di un anziano appuntato della Polizia, di un giovane killer e del suo anello, quella che Nino Marazzita si prepara a raccontare ai pm romani che cercheranno di fare luce sulla morte di Pier Paolo Pasolini. L’appuntato si chiama Renzo Sansone; e già dieci anni fa conosceva una verità alternativa a quella che è scritta nelle carte processuali. Raccontava l’appuntato che sicuramente, la sera dell’omicidio di Pasolini, Pino Pelosi non era solo. Con lui, secondo Sansone, «c’erano anche i fratelli Borsellino, Franco e Giuseppe; furono loro stessi a dirmi che quella notte si trovavano li». Gli dissero anche altro, raccontava Sansone: «Sapessi come strillava, era per terra, sembrava un’aquila». E insieme ai due Borsellino, secondo le ricostruzioni dell’avvocato Marazzita, con molta probabilità c’era anche Giuseppe Mastini, meglio conosciuto come “Johnny lo Zingaro”, il giovane che nel marzo ’87 tenne in scacco la polizia per venti ore, sequestrando una ragazza e uccidendo un agente di Ps. Il legale di Pasolini aveva scoperto che proprio Mastini aveva un forte legame con Pino Pelosi. I due erano detenuti entrambi nel carcere minorile di Casal del Marmo, fino a pochi giorni prima del delitto Pasolini; ed erano amici da molto tempo prima, da quando frequentavano insieme un bar in via Guido Angeli, al quartiere Tiburtino, e poi il Cral dell’Unione Monarchica, in via Donadoni. A legare Giuseppe Mastini al delitto dell’Idroscalo c’è un anello, ormai celebre, del quale Pelosi si preoccupò di rivendicare la proprietà non appena venne arrestato. Era d’oro, con una pietra rossa, con due aquile incise e la scritta ”United States Army”; Pelosi chiese agli agenti di cercarlo nell’Alfa Gt 2000 sulla quale era stato fermato, ma l’anello venne trovato all’Idroscalo, accanto al corpo senza vita di Pasolini, come se qualcuno lo avesse perduto mentre riduceva in fin di vita lo scrittore. Gli inquirenti chiesero a Pelosi come si fosse procurato quell’anello; e Pino la Rana disse di averlo acquistato da un amico steward che andava spesso negli States. Ma non gli credettero. E lui cambiò versione: ammise che era stato un suo amico, un certo Johnny, a regalarglielo. Questo dettaglio convinse gli investigatori che l’anello potesse essere di Mastini, che non lo aveva regalato a Pelosi ma lo aveva smarrito lui stesso, nelle concitate fasi del delitto di Pier Paolo Pasolini. Johnny lo Zingaro ha sempre negato ogni complicità nel delitto, limitandosi ad ammettere di aver conosciuto Pelosi in carcere. Ed è da queste circostanze, che adesso partiranno i nuovi accertamenti della Procura di Roma.