La morte di PPP. Gli indizi della verità nascosta, di Aldo Colonna

Aldo Colonna è critico cinematografico e scrittore. Ha collaborato e collabora con «Ciak», «Esquire», «la Repubblica», «Il Secolo XIX», «l’Unità» e «il manifesto». È autore del saggio critico biografico  Luigi Tenco. Vita breve e morte di un genio musicale (Mondadori, 2002). Ha pubblicato poesie e racconti su «Nuovi Argomenti», «Alfabeta» e «Paragone». È stato assistente di Pupi Avati e di Mario Monicelli per il film Il male oscuro, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto. Nel 2014, per le edizione Skira, è uscito il suo racconto lungo Borgata Gordiani, scritto in età post-adolescenziale, come il percorso di un apprendistato criminale laddove, in un meticciamento di culture, i protagonisti della narrazione risultano essere allo stesso tempo vittime e carnefici. Essi appartengono ad un’esperienza datata e quindi fissa nel tempo, quello delle borgate e della incursione pasoliniana nel tessuto degradato di una realtà geografica abitata dai senza legge di un immaginifico Far West.
Aldo Colonna firma ora per “il manifesto” un suo accorato e nuovo sondaggio nel mistero della morte di Pasolini, corredandolo con una intervista ad Antonio Mancini, uomo di spicco della Banda della Magliana.

di Aldo Colonna
www.ilmanifesto.info – 15 marzo 2015

«’Na foto è come ‘na pizza/ ‘a sparmi, l’allunghi,‘a poi fa’ rotonna o tutta quadra/e ce metti l’ingredienti che voi te./ Si te posso da’ ‘n con­zijo te direi de falla quadra/all’angoli ce metti un po’ de robba che t’eri creso nun c’entrasse più./ Io sto a parla’ de quella pizza qua­dra cor fagotto ‘n basso,/ la madama colla cicca ‘n bocca che cerca quar­che cosa ner taschino e/, indietro,‘n zacco de pischelli a curiosa’./ Allunga ‘a pasta allora nell’angolo de destra, quello in arto, e me pijasse ‘n corpo/poi vede’ ‘na ‘ppa­ri­zione, come la Madonna der Divino Amore, solo che cià le vesti de un monello / co’ li capelli lun­ghi lun­ghi che sem­brano appi­ci­cati colla còlla/ e le basette che oggi nun se las­seno più cresce’ ./»

Idroscalo di Ostia
Idroscalo di Ostia

Que­sta bal­la­tetta plana nella cas­setta delle let­tere e mi impone la riso­lu­zione di una spe­cie di scia­rada. È ano­nima, ça va sans dire, ma è scritta in un roma­ne­sco ‘accul­tu­rato’, pro­prio non solo di chi è romano ma che pre­sup­pone, anche, una certa pro­prietà di lin­guag­gio. La prima per­sona che m’è venuta in mente è Renato Danesi pro­prio per la padro­nanza che ha della lin­gua ita­liana, ancor­ché modu­lata dalla cadenza roma­ne­sca, dal giu­sto uso della con­se­cu­tio tem­po­ris, da quelle pause bre­vis­sime che usa nel lin­guag­gio par­lato tipi­che di chi non vuole sba­gliare e di chi, men­tal­mente, sta assem­blando un periodo e voglia che sia con­sequen­ziale e privo di ince­spi­ca­ture gram­ma­ti­cali e les­si­cali. Epperò è solo un’associazione di idee prive di sostrato docu­men­tale e anzi vorrà scu­sarci il Danesi per averlo sco­mo­dato senza costrutto.
Qual è l’analogia tra una pizza e una foto? E per­ché entrambe pos­sono essere ‘spal­mate’? Alla fine l’analogia è chiara: ‘spal­mare’, nel caso di una foto­gra­fia, vuol dire ‘ingran­dire’. Gli ele­menti per cer­care la foto sono meno crip­tici. È una di quelle scat­tate il giorno dopo il delitto. Il corpo di Paso­lini giace in terra coperto da un len­zuolo sporco di san­gue in tutta la sua lun­ghezza e anco­rato alla terra da due mat­toni. In secondo piano, sulla destra, com­pa­iono due poli­ziotti in divisa e, avan­zato, uno in bor­ghese, giub­betto nero di pelle, cal­zoni a zampa di ele­fante, con una siga­retta al cen­tro della bocca intento a cer­care qual­cosa –vero­si­mil­mente un accen­dino– nella tasca sini­stra dei pan­ta­loni. Fa da fon­dale una teo­ria di pischelli (in età com­pare solo un uomo, sulla sini­stra, coi baffi) tenuti a bada dal filo spi­nato. Fatto l’ingrandimento, l’attenzione è mono­po­liz­zata dall’angolo destro supe­riore e –aveva ragione l’estensore della poe­siola– per poco non mi prende un colpo. L’ingrandimento fa emer­gere –è quello imme­dia­ta­mente a destra del poli­ziotto– una figura dalle carat­te­ri­sti­che soma­ti­che molto pros­sime a quelle di Mau­ri­zio Abba­tino. In rete cir­cola una sua foto di quell’epoca, quando aveva 21 anni. Al netto da even­tuali smen­tite –anzi, vor­remmo nei limiti dell’umano che l’interessato entrasse nella discus­sione– la domanda che nasce spon­ta­nea è che cosa ci facesse pro­prio in quel posto Mau­ri­zio Abba­tino. Saremmo mera­vi­gliati se Abba­tino si stesse recando a pescare cefali e si fosse fer­mato lì per caso, atti­rato dal chiac­chie­ric­cio indi­stinto della canea di pischelli atti­rati mor­bo­sa­mente dal mort’ammazzato. Se real­mente si trat­tasse di Abba­tino si apri­rebbe uno sce­na­rio com­ple­ta­mente nuovo nell’affaire Paso­lini; vor­rebbe dire che la Banda della Magliana, incon­tra­stata agen­zia del cri­mine, sarebbe stata l’affidabile longa manus del regime per togliere di mezzo lo sco­modo polemista.
Neo­fa­sci­smo, P2 e mafia pos­sono essere senza tema di smen­tita defi­nite la «poli­zia ausi­lia­ria del regime» (la defi­ni­zione è di Vin­cenzo Vin­ci­guerra). E la banda della Magliana ha avuto con que­sti poteri cri­mi­nali –e spesso occulti– più di un adden­tel­lato. Baste­rebbe ricor­dare la Orlandi, della cui spa­ri­zione fu sco­mo­data senza smen­tite pro­prio la banda. O l’omicidio Peco­relli. Ci sarebbe, nel caso, da far con­ci­liare la pre­senza dei sici­liani quella orrenda notte.
Pre­senza testi­mo­niata da soli due ele­menti: una Fiat 1300/1500 tar­gata ‘Ct ’ e il ter­mine ‘jar­rusu’ sen­tito pro­nun­ciare da Pelosi. Il discorso della targa può essere spie­gato in maniera molto sem­plice. È vero­si­mile cioè che fosse una targa far­locca, tipica dei ser­vizi deviati se nes­suno volle fare un’operazione sem­pli­cis­sima, quella di effet­tuare una visura al PRA. E delle due l’una: se la mac­china era rego­lare, sicu­ra­mente era stata rubata a ridosso dell’operazione e una veri­fica lo avrebbe cer­ti­fi­cato: si sarebbe sco­perto che appar­te­neva ad un ignaro pro­prie­ta­rio. Vogliamo dire che non è certo una targa a deter­mi­nare l’appartenenza geo­gra­fica del pro­prie­ta­rio. E se una veri­fica non fu effet­tuata, fu per­ché si trat­tava di una targa di ‘car­tone’. Quanto al ter­mine ‘jar­rusu’ (un ter­mine dispre­gia­tivo, desueto per­sino in Sici­lia, che indica un omo­ses­suale), si dimen­ti­cano sem­pre due cose affron­tando ab ini­tio la fac­cenda: 1° che Pelosi era, soprat­tutto in quel fran­gente, una tabula rasa e che avrebbe detto TUTTO ciò che gli fosse stato coman­dato di ‘ricor­dare’, 2° che Pelosi è per­sona intel­li­gente, furba, dalla memo­ria mne­mo­nica e visiva eccel­lente e, sostan­zial­mente, ten­dente alla men­zo­gna. Spin­gen­doci oltre, potremmo azzar­dare che fu pro­prio que­sto castel­letto l’ennesimo depi­stag­gio per sviare i sospetti, quali che fossero.
Ma c’è ancora una ridda di ele­menti che ci inso­spet­ti­sce. Ancora non è stato spie­gato per­ché nelle tasche di un boss asso­luto come Danilo Abbru­ciati ancora caldo (era in tra­sferta a Milano per ucci­dere Roberto Rosone, vice pre­si­dente del Banco Ambro­siano che aveva negato ulte­riori pre­stiti del Banco a società ricon­du­ci­bili a Fla­vio Carboni, e invece fu ucciso da una guar­dia giu­rata) venga rin­ve­nuta un’agendina tele­fo­nica con il numero pri­vato del Pro­cu­ra­tore Guido Gua­sco (Gua­sco aveva scar­tato alcune delle veri­fi­che sul caso Paso­lini:ispe­zione della scocca dell’AlfA, rilievi sulle tracce degli pneumatici). Gli omi­cidi pre­le­va­rono dalle tasche di Paso­lini le chiavi del suo appar­ta­mento. O ne fecero rapi­da­mente un calco o le sosti­tui­rono con uno ‘gene­rico’. Fatto sta che il report della Poli­zia non sta­bi­li­sce che il mazzo di chiavi inven­ta­riato tra gli oggetti rin­ve­nuti nell’area siano cor­re­lati o cor­re­la­bili all’appartamento di via Eufrate. Le chiavi sareb­bero ser­vite agli omi­cidi per intro­dursi in casa sua in assenza di Gra­ziella Chiar­cossi e della madre Susanna in quei giorni a Casarsa per il fune­rale. I cri­mi­nali sot­tras­sero il capi­tolo «Lampi sull’Eni» con un lavo­retto che non era mai stato così age­vole. Nes­suna die­tro­lo­gia quindi die­tro l’invito alla Chiar­cossi a riti­rare la denun­cia per furto: in assenza di effra­zione nes­suna denun­cia può essere accet­tata. Rimar­rebbe un tas­sello tutt’altro che insignificante.
Di Dell’Utri si può dire tutto ed il con­tra­rio di tutto, ma non che sia uno stu­pido. Stu­pidi dovette pen­sare lui che fos­sero gli inter­lo­cu­tori quando annun­ciò di aver tro­vato il capi­tolo di Petro­lio, essen­ziale per capire la moti­va­zione dell’assassinio, pro­mes­so­gli da un fan­to­ma­tico cor­riere, e quando tornò sui suoi passi asserendo che lo stesso si era riman­giato la parola. Per para­fra­sare le parole di Paso­lini potremmo dire che Dell’Utri ‘sa’. Que­sti movi­menti sono pro­pri del ‘con­si­gliori’: io butto l’amo spe­rando che qual­cuno abboc­chi, poi non c’è da mera­vi­gliarsi se, die­tro pres­sione o su con­si­glio moti­vato di qual­cuno, io quell’amo lo tolga dall’acqua. La verità è un eser­ci­zio com­pli­cato e si gua­da­gna per ‘tes­sere’, pro­prio come quelle di un mosaico. Ma l’arma più mici­diale del Potere è l’oblio. Tende a sviare, per rimandi, con equi­voci creati a bella posta, in un gioco di spec­chi a tratti ustori a tratti labi­rin­tici, tali da far per­dere agli inqui­renti la strada mae­stra. Si avvi­cen­de­ranno le gene­ra­zioni e Paso­lini rimarrà, cri­stal­liz­zato, nei libri di testo. Già oggi, per le gio­vani gene­ra­zioni, il suo è un nome sbia­dito; solo un ven­tenne con un buon grado di accul­tu­ra­zione saprà par­lar­vene. Solo oggi noi sap­piamo che il DC 9 dell’ Ita­via fu abbat­tuto da un mis­sile. Fran­cese, ame­ri­cano? Quando la rispo­sta giu­sta verrà uffi­cia­liz­zata, l’Italia sarà alle prese con altre pro­ble­ma­ti­che e l’indignazione sarà stem­pe­rata da altre indi­gna­zioni. D’altronde, se fu com­mis­sio­nato l’omicidio di Rosone per un diniego oppo­sto ai poten­tati, è così pere­grino pen­sare che Paso­lini venisse tru­ci­dato per un segreto che avrebbe messo in ginoc­chio la Repub­blica? D’altronde, un tar­get si eli­mina in modo ‘silenzioso’, lontano da occhi indi­screti. Per Pier Paolo sarebbe bastato un cec­chino, ma que­sto avrebbe inge­ne­rato imme­dia­ta­mente una ridda di con­get­ture. Molto meglio il mas­sa­cro per mano di omo­fobi che riscat­tas­sero così l’italica viri­lità. Noi con­ti­nuiamo la lotta.

Il film
E’ stra­bi­liante il diva­rio tra il potere delle major e la pro­du­zione indi­pen­dente e vogliamo rife­rirci pro­prio al livello qua­li­ta­tivo che non è sem­pre pro­por­zio­nale e pro­por­zio­nato alle forze eco­no­mi­che in campo, e che non sem­pre sono ‘pro­pul­sive’ del pro­dotto. Abel Fer­rara ha con­fe­zio­nato, ad esem­pio, un Paso­lini con accenti acco­rati, dove è assente però un minimo di ricerca sto­rio­gra­fica, con quel finale asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bile e buono solo per la buona coscienza dei ben­pen­santi: Paso­lini vit­tima del suo ‘vizietto’.
Vogliamo par­larvi di Paso­lini, la verità nasco­sta del regi­sta Fede­rico Bruno, fil­ma­ker con alle spalle diversi corto e lun­go­me­traggi, già assi­stente di Vit­to­rio Sto­raro, che ha ven­duto il suo appar­ta­mento per con­fe­zio­nare il suo lun­go­me­trag­gio: 350.000 euro rica­vati dalla ven­dita dell’immobile, 350.000 euro il costo della pellicola.
Girato in un b&n d’antan, sugli sti­lemi pro­pri del cinema vérité, il film, della durata di poco supe­riore alle due ore che sci­vo­lano via con la leg­ge­rezza di un corto, ha alle spalle mesi di pre­pa­ra­zione e di ricerca inve­sti­ga­tiva. Bruno rico­strui­sce per intero, con l’ausilio del suo fale­gname di fidu­cia, tutta la mobi­lia di tutti gli interni delle case di Paso­lini: via Eufrate all’Eur, Chia nel viter­bese, ecc. L’appartamento all’Eur, oggi pas­sato ad altri pro­prie­tari, è risul­tato tabù, al punto di minac­ciare il regi­sta del ricorso alla Poli­zia; era stata rivolta una sem­plice domanda sulle reali pos­si­bi­lità di visio­nare le anti­che stanze. Gli eredi non hanno accor­dato per­messi di sorta, tanto meno l’ingresso alla torre di Chia.
L’epilogo descritto da Bruno è spe­cu­lare a quello del gior­na­li­smo d’assalto: fu un delitto su com­mis­sione dele­gato alla mano­va­lanza cri­mi­nale por­tata sul posto dal gio­vane Pelosi con­vinto di un sem­plice furto ai danni dello scrit­tore e, al limite, di una ‘liscia­tina’ ma ignaro del sabba di san­gue. Il film riper­corre gli ultimi 10 mesi di vita di Pier Paolo in modo caden­zato, per stanze. Gli incon­tri, il mon­tag­gio di Salò, le ami­ci­zie, le fre­quenti par­tenze, l’idea, ottima, dell’intervista con­ti­nua con­dotta da Gideon Bach­man come un leit-motiv, l’intervista rila­sciata a Furio Colombo, la quo­ti­dia­nità con i suoi angeli custodi,la cugina Gra­ziella e la madre Susanna , i con­ti­nui dilemmi da cui era vis­suto, la ‘con­ta­mi­na­tio’ con ele­menti della mala usati come testi­moni del tempo e della ban­lieu da cui si potes­sero trarre nuovi spunti per una let­te­ra­tura tutta da scri­vere, una volta accan­to­nata la sua fun­zione di aedo delle bor­gate, dove si viveva ancora con regole ele­men­tari ma rispet­tate dai nativi.
L’appunto che potremmo muo­vere a Bruno è que­sto: una volta abbrac­ciata la chiave espres­sio­ni­sta e abiu­rato alla cifra sim­bo­li­sta, avrebbe dovuto essere con­se­guente. Furio Colombo appare troppo grasso, Ninetto Davoli risulta cari­ca­tu­rale, Pelosi è un angelo dai capelli biondi, Anto­nio Pinna troppo let­te­ra­rio (nella realtà è un uomo di sta­tura infe­riore alla media e di cor­po­ra­tura robu­sta; si è ven­ti­lato che fosse lui alla guida dell’Alfa che sor­montò il corpo di Paso­lini, ucci­den­dolo; è lo stesso che com­parve in com­pa­gnia dello scrit­tore al Pin­cio per l’incontro con i gio­vani comu­ni­sti e che Bor­gna, pre­sente, si sarebbe chie­sto suc­ces­si­va­mente chi fosse, subo­do­rando che l’uomo potesse essere coin­volto nell’omicidio). Gigan­teg­gia però Alberto Testone, odon­to­tec­nico della Bor­gata Fidene, che imper­sona un Paso­lini cre­di­bile e con­vin­cente. Ne
riper­corre le movenze, ne imita in modo natu­ra­li­stico la voce e la postura.
Il film è, per molti versi, naȉf e usiamo il ter­mine, in que­sto con­te­sto, nella sua acce­zione migliore e arti­sti­ca­mente più rile­vante. È la prima volta che l’Italia pro­duce un film su Paso­lini ed è scon­cer­tante che sia auto­pro­dotto. L’ANICA rifiutò di vederlo, come pure Bar­bera a Vene­zia e Mȕl­ler a Roma. Roberto Cic­cutto, allora all’Istituto Luce, tentò con Bruno una sorta di gioco delle tre carte, pro­po­nen­do­gli di accan­to­nare il pro­getto e di lavo­rare a un docu­men­ta­rio con il mate­riale pre­sente negli archivi del Luce; Bor­gna non lo volle nell’ambito della mostra sull’artista. Vin­cenzo Cerami e Dacia Maraini non pre­sen­zia­rono all’anteprima orga­niz­zata alla Casa della Cul­tura in largo Mastro­ianni.  Pasolini, la verità nasco­sta dovrebbe non solo essere acqui­sito da un distri­bu­tore ma, anche, vei­co­lato nelle scuole, nelle Uni­ver­sità, negli Isti­tuti di Cul­tura stante la sua forza dirom­pente, la sua pla­sti­cità, la sua volontà di denun­cia, il suo con­ti­nuo rifug­gire da appros­si­ma­zioni hol­ly­woo­diane, la sua neces­sità di testimonianza.

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Inter­vi­sta a Anto­nio Mancini

Anto­nio Man­cini è stato ele­mento di spicco della cosid­detta Banda della Magliana. Per­so­nag­gio ati­pico nel pano­rama della ban­lieu, Man­cini è stato da sem­pre un attento let­tore dell’opera let­te­ra­ria di Paso­lini e stu­dioso,nei limiti dell’affanno di una vita cri­mi­nale, del mar­xi­smo. Dopo gli anni del car­cere, esau­rita la forza pro­pul­siva di una ribel­lione quasi ter­zo­mon­di­sta, Man­cini vive ora nelle Mar­che in una casa che ha il sem­biante di un ambiente mona­stico e che ricorda molto da vicino la casa dove abi­tava da ado­le­scente nella bor­gata di San Basi­lio a Roma. Quasi una sorta di nemesi che gli impone una rifles­sione quo­ti­diana e senza infin­gi­menti. Nella sua breve biblio­teca spic­cano varie opere di Marx ed Engels, altre di Troc­kij, una Cro­naca della rivo­lu­zione russa di Sukha­nov. Non fa mistero della sua pre­di­le­zione per due miti con­tem­po­ra­nei, Che Gue­vara e Don Gallo. Da anni si dedica all’accompagno di disa­bili,che lui chiama i ‘dolenti’, e al soc­corso di anziani biso­gnosi e in dif­fi­coltà, met­ten­dosi al loro ser­vi­zio. Gira per le scuole per­ché i gio­vani non fac­ciano le stesse ‘fre­gnacce’. Non ha perso l’allure di una volta; è solare, comu­ni­ca­tivo e, a tratti, un po’ gua­scone. È pal­pa­bile la sua voglia di com­pe­ne­trarsi in una nor­ma­lità troppo a lungo fug­gita e oggi, forse, unica sal­vezza. Lavora alla rie­di­zione, per i tipi della Riz­zoli, della sto­ria della Banda inti­to­lata Con il san­gue negli occhi che uscirà in estate. Il libro si arric­chirà di un’appendice su fatti e misfatti di Mafia Capitale.

Hai sem­pre dichia­rato di essere comu­ni­sta. Come si con­ci­lia que­sto con la tua scelta di vita?
Per­ché ho capito che i pro­blemi nostri, i pro­blemi delle masse, nes­suno li risol­veva. E allora dove­vamo risol­ver­celi da soli. Chia­ra­mente non sto indi­cando la mia come una strada da seguire, voglio dire che avrei potuto tran­quil­la­mente imbrac­ciare il mitra e fare il bri­ga­ti­sta. C’era in me, ma anche in giro, una rab­bia e un mal­con­tento che dove­vano inca­na­larsi in una dire­zione quale che fosse. Noi vive­vamo in otto in una casa pic­cola, man­gia­vamo tutti i giorni mine­strone, mio padre era un brav’uomo, comu­ni­sta, che cer­cava di darci una vita migliore anche umi­lian­dosi. E ricordo come fosse adesso la ‘rivo­lu­zione delle case occu­pate’ a San Basilio, nel ’74, e l’uccisione di un ragaz­zetto inno­cente come noi, Fabri­zio Ceruso. Mi ricordo che nel ser­vi­zio d’ordine c’era Erri De Luca. Lui è rima­sto incaz­zato, ma Liguori che fine ha fatto? Io vivevo in una favela, mio padre aspet­tava la rivoluzione.

Pos­siamo chia­marlo, tanto per inten­derci, destino: ci si trova in un posto piut­to­sto che in un altro. Potrei citare Pavese: «Ogni uomo ha un destino» o, per volare basso, fare rife­ri­mento a un film come Sli­ding doors.

Esat­ta­mente, io lo chiamo viag­gio scia­ma­nico. In un altro con­te­sto sarei diven­tato un bri­ga­ti­sta rosso, sarei comun­que ‘esploso’. Sono stato in car­cere con più di un bri­ga­ti­sta, ragazzi in gamba, pre­pa­rati, spesso accul­tu­rati e, ciò che più mi col­piva, dei duri. Noi cri­mi­nali comuni capi­tava che ce le des­simo con le guar­die car­ce­ra­rie ma poi capi­vamo che era meglio lasciar stare; loro no, loro cer­ca­vano sem­pre lo scon­tro. Conobbi da vicino Fer­rari, Naria, tutta gente di cui avevo sen­tito par­lare quando, da libero, mi capi­tava in mano un ciclo­sti­lato inti­to­lato «Mai più senza fucile». Era que­sta l’atmosfera.

Le guar­die usa­vano dispa­rità di trat­ta­mento con le varie tipo­lo­gie di detenuti?
No, è un luogo comune pen­sarlo. Le guar­die o mena­vano a tutti, senza guar­dare in fac­cia nes­suno, o si genu­flet­te­vano davanti a tutti. Ho usato il plu­rale ma la mia con­si­de­ra­zione riguarda quelle pagate. Ai bri­ga­ti­sti mena­vano di meno. Il discorso cam­bia nei car­ceri spe­ciali: lì, quando arrivi alla matri­cola, ti danno subito il ben­ve­nuto, indi­pen­den­te­mente da chi sei.

Romanzo cri­mi­nale ⌊serial Tv, 2008, tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, ndr⌋ è fedele?
Ci sono molte situa­zioni costruite, altre com­ple­ta­mente romanzate.

Vi è capi­tato di incon­travi ancora, dopo, con gli altri della Banda?
No, non ci siamo più visti. Se hai deciso di met­terti alle spalle il pas­sato, ti devi met­tere alle spalle tutto ciò che lo riguarda e lo racchiude.

Rimorso, pen­ti­mento, redenzione.
Io sono ateo e que­ste le con­si­dero cate­go­rie cat­to­li­che. Ero io che ucci­devo, io che facevo rapine, non incolpo nes­suno, me ne sono assunto la respon­sa­bi­lità. Mi domandi se rifa­rei le stesse cose? La rispo­sta è NO.

Un desi­de­rio, un rimpianto.
Un desiderio, impossibile: mi pia­ce­rebbe rico­min­ciare tutto da capo, magari fer­man­domi alle rapine ai fur­goni blin­dati. Al limite. Il rim­pianto è aver visto morire gente come Eduardo Toscano, Nico­lino Selis, Rena­tino De Pedis, il «Guan­cia­lotto», «Er Catena», tutta gente con la quale ero cre­sciuto. La cosa peg­giore è che comin­ciammo a sbra­narci tra noi, una lotta fra­tri­cida. Oggi penso: per che cosa sono morti? Per il denaro, per un effi­mero potere, per­ché qual­cuno di noi voleva diven­tare come quelli che com­bat­te­vamo! Non ti fis­sare con Romanzo criminale, solo Paso­lini era riu­scito a descri­vere bene, in modo com­piuto, gli ambienti che ci ave­vano espresso. La banda è finita in una pozza di san­gue e di fango. E io penso a Car­mi­nati che, ricco com’è, a sessant’anni si mette a par­lare del mondo di sopra e del mondo di sotto.

E allora per­ché lo faceva?
Per il potere, sem­pre per il male­detto potere.

Com’è la libertà?
È bel­lis­sima, ma quando abbracci una scelta lo metti nel conto che, prima o poi, la puoi per­dere. Ho voluto che una mia nipote si chia­masse Cheyenne. Tu dirai «bello, magari un po’ orec­chiato», ma sai per­ché ho voluto che avesse quel nome? Per­ché viviamo tutti in una riserva.

Che rimane di quella stagione?
Ascolta quello che ti dico. Si spara di meno, molti meno morti sull’asfalto e sai per­ché? Per­ché il tempo della semina è ter­mi­nato, chi è rima­sto raccoglie.

Oggi Ber­lu­sconi è stato assolto.
Sai quante volte sono stato assolto io? Eppure… anche Car­mi­nati fu assolto per l’omicidio Peco­relli! L’assoluzione non conta niente, i conti si fanno con la Sto­ria. Se fosse vivo De Pedis, oggi sarebbe come minimo sot­to­se­gre­ta­rio e Ber­lu­sconi è solo un De Pedis in sedi­ce­simo. Io ho smesso di arros­sire quando ho sco­perto con chi avevo a che fare.

Per­ché ti sei pro­di­gato nell’assistenza ai disabili?
Un giorno ho visto un ragaz­zetto den­tro uno di quei pul­mini che por­tano in giro le per­sone con han­di­cap e ho avuto come una spe­cie di fol­go­ra­zione. Ho chie­sto a un mio amico com­mis­sa­rio se poteva inse­rirmi e mi ha accon­ten­tato, ha garan­tito per me. Dovevo in qual­che modo ridare indie­tro qual­cosa, sem­pre niente rispetto a quello che avevo preso. E poi mi hanno inse­gnato una verità incon­tro­ver­ti­bile: siamo noi i disabili.

Ti capita di uscire fuori del semi­nato qual­che volta?
Direi che, cam­biando vita, ho acqui­stato più con­trollo su me stesso. Eppure una volta ho visto un uomo che pic­chiava la sua donna e allora ho preso da casa una bot­ti­glia e mi sono avven­tato su di lui. «Per­ché le metti le mani addosso?» Lui ha avuto paura e se ne è andato, la donna mi ha rin­gra­ziato. È stato un bene per tutti e due, per me e per lui.

Ti mostro que­sta foto (gli mostro la foto con il corpo di Paso­lini coperto da un lenzuolo), que­sto potrebbe essere Abbatino?
No, non credo, piut­to­sto que­sto bion­dino al cen­tro mi ricorda Johnny Lo Zin­garo e que­sto die­tro la sca­letta ha i tratti del mar­chet­taro: non mi convince.

Di quella notte che rifles­sioni puoi fare?
Su due piedi io non avrei lasciato vivo Pelosi, troppo sco­modo lasciare in giro un testi­mone di 17 anni. E poi, se sono un pro­fes­sio­ni­sta e non mi fac­cio pren­dere dall’ansia, io smonto la mac­china per pren­dere i soldi, che dovrebbe essere il motivo dell’imboscata. Ma fu que­sto il motivo?

Come quella pan­to­mima di Dell’Utri e del capi­tolo mancante.
Bravo, hai cen­trato il pro­blema. Prima dice che uno sco­no­sciuto gli ha pro­messo uno scritto di Paso­lini, poi si riman­gia la parola e dice che quello gli ha rifi­lato una sola. È evi­dente che ha lan­ciato dei mes­saggi, biso­gne­rebbe capire che cosa volesse dire con quei mes­saggi. E a chi par­lasse. Di Dell’Utri si può dire tutto, ma non che fosse uno stupido.