“Vite parallele”. PPP e Foucault secondo Wu Ming 1

di Wu Ming 1
www.wumingfoundation.com – 22 maggio 2011

 

Nel corso degli anni, leggendo diversi libri di e su Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Michel Foucault (1926-1984), mi sono reso conto di numerose coincidenze, risonanze e convergenze, non solo tra le loro opere, ma anche tra le loro vite. Non posso dire con sicurezza di averle colte per primo: su entrambi i suddetti è ormai disponibile una letteratura sterminata, inassimilabile da chiunque. L’ermeneutica pasoliniana e quella foucaultiana producono a getto continuo nuove «letture» più o meno pertinenti, e nelle varie lingue i libri si contano a centinaia, forse migliaia. Può dunque darsi che altri abbiano già steso «appunti» simili ai miei. Al momento, però, ne dubito. Pur seguendo – nei limiti delle mie possibilità e competenze – i dibattiti su Pasolini e su Foucault, e avendo trovato alcuni (pochi ma importanti) riferimenti incrociati, non mi è ancora capitato di leggere una trattazione dei molti parallelismi fra i due autori. Cosa sorprendente, dato che certe analogie, come suol dirsi, saltano agli occhi.
Ho preso la decisione di espandere e rendere pubbliche queste «noterelle» (scritte a partire dall’estate 2010) dopo aver letto il recente libro di Roberto Esposito Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, 2010).
Esposito propone una genealogia alternativa della nostra filosofia, un phylum di alterità e critica al potere che include «non-filosofi» come Leopardi e Pasolini, oltre a pensatori/politici come Gramsci, Tronti, Negri etc. Secondo Esposito, il pensiero italiano sarebbe caratterizzato da un perenne movimento verso l’esterno, oltre i confini che il potere assegna alla filosofia, verso la definizione e la sperimentazione di rapporti tra vita e storia, vita e politica, vita e lotta.
Questa vita appena menzionata è il bìos, forma-di-vita che lotta per avere un senso, vita umana che sia degna di essere vissuta.
Non è un caso  che nella filosofia italiana degli ultimi anni abbia assunto sempre maggiore importanza il concetto di «biopolitica», che Michel Foucault introdusse per la prima volta nelle pagine finali de La volontà di sapere (1976, primo volume di una progettata e mai terminata Storia della sessualità), e a cui dedicò il corso al Collège de France dell’anno 1979 (intitolato appunto «Nascita della biopolitica»).
Un capitolo del libro di Esposito è dedicato a Pasolini e al suo partire dai corpi, alla sua ricognizione dei modi in cui il potere incide sui corpi i propri codici, alla disperata riflessione su come i corpi potrebbero resistere a tale codificazione. Per Pasolini, è noto, scrivere e militare significava «gettare il proprio corpo nella lotta» (da un verso di Poeta delle ceneri, 1966-1967).
La trattazione di Esposito ha rafforzato la mia convinzione che si possa stabilire una connessione forte tra Pasolini e Foucault, e mi ha spronato – come dicevo poc’anzi – a tirar fuori gli appunti.

Wu Ming 1
Wu Ming 1

Cosa sapevano l’uno dell’altro?
Non risulta che Pasolini fosse un lettore di Foucault: nei suoi scritti non ho trovato alcuna menzione del filosofo francese. Eppure negli anni Sessanta il futuro polemista «corsaro» studiò con grande interesse gli strutturalisti (lo testimoniano i saggi raccolti nel 1972 in Empirismo eretico), confrontandosi con le teorie di Roland Barthes e altri autori di quella temperie. La stessa temperie da cui stavano emergendo post-strutturalisti come Foucault e Gilles Deleuze. Inoltre, Pasolini lesse i libri di Pierre Klossowski sul marchese De Sade, tanto che Klossowski è citato nei titoli di testa e, con felice anacronismo, in un dialogo di Salò, insieme al già citato Barthes.
Klossowski era un buon amico di Foucault, e Sade era uno degli oggetti di studio prediletti anche da quest’ultimo, che se n’era occupato sin dai tempi di Storia della follia nell’età classica, opera concepita e scritta nei tardi anni Cinquanta.
A completare una sorta di ideale «trittico», va citato un altro pensatore caro a Foucault: Maurice Blanchot, il cui Lautréamont e Sade (1963) è una delle opere citate da Pasolini nella bibliografia che precede Salò.
Se dovessimo allargare il triangolo scaleno Barthes-Blanchot-Klossowski per ottenere una figura quadrangolare, il punto da includere nel perimetro corrisponderebbe senz’altro al nome di Foucault.
A conti fatti, c’erano tutte le «precondizioni» per una conoscenza di Foucault da parte di Pasolini. Nondimeno, sembra plausibile affermare che, quando Pasolini morì (novembre 1975), Foucault non era ancora entrato nel suo radar.
Mi si lasci introdurre un elemento di “ucronia”, un come-sarebbe-potuta-andare: se Pasolini fosse sopravvissuto, probabilmente avrebbe letto gli scritti foucaultiani sulla sessualità, trovandovi riflessioni molto vicine alle sue. Mentre Pasolini vergava la sua Abiura della «Trilogia della vita», Foucault stava scrivendo La volontà di sapere. E’ d’altronde possibile che, durante la stesura de La volontà di sapere, Foucault avesse tra i suoi riferimenti Pasolini. Del fatto che avesse letto Pasolini abbiamo addirittura una testimonianza autografa.
Il 23 marzo 1977, quasi un anno e mezzo dopo la morte di Pasolini, “Le Monde” pubblica una recensione del suo documentario Comizi d’amore, proiettato di recente in una retrospettiva parigina. L’autore della recensione, intitolata «I grigi mattini della tolleranza», è proprio Michel Foucault. Quest’ultimo legge il film del ’63 alla luce delle analisi successive di Pasolini («corsare» e «luterane»), che implicitamente fa coincidere con le proprie. Foucault dà mostra di aver letto gli Scritti corsari e visto svariate altre pellicole pasoliniane, a cominciare da Mamma Roma. Ecco gli ultimi capoversi dell’articolo:

«Il film […] può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnare a psicologi, ma la forma attuale di quella “gioventù” che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto. E poi il 1963 era il momento in cui l’Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all’inquietudine del film. Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po’ ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere “alla moda”. E sia pure! Quella “moda” rischia di rimanere in voga ancora per un po’ di tempo, come accade in questi giorni a Bologna».
(Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr, tratta da “aut aut” n. 345, «Inattualità di Pasolini», gennaio-marzo 2010)
[L’ultima frase è, ovviamente, un riferimento alla rivolta di massa seguita all’uccisione di Francesco Lorusso.]

A pensarci, è alquanto implausibile che Foucault – studioso del sadismo, dei meccanismi disciplinari e del rapporto sesso-potere – non avesse visto Salò, proiettato in anteprima al Festival di Parigi il 22 novembre 1975, pochi giorni dopo la morte violenta del suo autore e regista.

Le courage de la vérité
Che Foucault, negli ultimi anni della sua vita, avesse in mente il percorso poetico/critico e le riflessioni di Pasolini, parrebbe evidente anche dal titolo del suo ultimo corso al Collège de France (1984), quello dedicato al concetto di parresìa, ovvero al «parlare franco», al «discorso veritiero» della cultura greca. Il corso si intitolava: «Il coraggio della verità». La traduzione italiana delle trascrizioni arriverà in libreria a settembre, edita da Feltrinelli, a cura di Mario Galzigna. A quanto mi consta (ne ho parlato anche con Galzigna), nessuno ha riconosciuto la citazione pasoliniana. Eppure l’espressione figura in uno degli scritti più conosciuti del Pasolini corsaro: «Il romanzo delle stragi», noto anche col titolo «Che cos’è questo golpe?», uscito sul “Corriere della Sera” il 14 novembre 1974. Pasolini scrive (sottolineature mie): 

«Il potere […] ha escluso gli intellettuali liberi […] dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe obiettare che io […] potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico […] compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.»

Michel Foucault
Michel Foucault

Due vite
Pasolini e Foucault erano quasi coetanei. Nacquero a quattro anni di distanza l’uno dall’altro e furono battezzati con due nomi, uno dei quali era “Paolo”: Paul-Michel Foucault e Pier Paolo Pasolini.
Nacquero e crebbero in provincia, sospesi tra città e campagna: Foucault tra Poitiers e la fattoria dei nonni a Vendeuvre-du-Poitou; Pasolini tra Bologna e Casarsa. Ebbero un rapporto forte con la madre (che sarebbe loro sopravvissuta) e di quasi estraneità col padre (che sarebbe morto prima di loro). Vissero l’occupazione tedesca dei rispettivi paesi, e nelle loro educazioni ebbe un ruolo importante la Resistenza. L’occupazione e la guerra partigiana incisero più tragicamente nella vita di Pasolini, che perse il fratello Guido, ma anche la vita di Foucault ne fu influenzata, e proprio nel rapporto col suo futuro pane quotidiano, ovvero la filosofia: due insegnanti di filosofia del suo liceo, il Collège Saint-Stanislas di Poitiers, furono uccisi dai nazisti in quanto membri della Resistenza. E negli ultimi anni di vita, Foucault ricorse almeno una volta a uno pseudonimo, «Louis Appert», che era in realtà un sottile omaggio alla Resistenza: Louis Appert era un partigiano, un membro del Comité de Libération di Poitiers.
Più o meno alla stessa età, Pasolini e Foucault si iscrissero ai rispettivi partiti comunisti: Pasolini nel 1947, Foucault nel 1950. Ne uscirono due anni più tardi, e in malo modo: Foucault nel 1952, in polemica con l’antisemitismo diffuso nel PCF; Pasolini espulso dal PCI nel 1949, dopo lo scandalo di Ramuscello. Per la diversa natura dei due partiti (quello francese tetragonamente stalinista, quello italiano meno rigido e più dotato di «contrappesi» quali l’eredità di Gramsci), Pasolini poté ristabilire un rapporto e un confronto, seppure a tratti molto critico, mentre la rottura di Foucault fu assoluta.
I due si stabilirono nelle capitali dei rispettivi paesi. Attraversarono marxismo e psicoanalisi. Vissero la loro attività intellettuale in modo «militante» e, in modi diversi, polemizzarono con la «nuova sinistra» nata dal ’68. Viaggiarono in Africa e negli Stati Uniti. Si interessarono alle arti underground e alla controcultura USA.
Fin da giovanissimi si scoprirono omosessuali. Furono aggrediti fisicamente durante o subito dopo «spedizioni» notturne legate al sesso: Foucault fu picchiato a Tunisi nel 1968 (probabilmente da elementi in borghese della polizia politica); Pasolini fu aggredito a Roma diverse volte, fino alla fatidica serata all’Idroscalo.
All’affermarsi dei movimenti di liberazione omosessuale, Pasolini e Foucault ammisero – implicitamente o esplicitamente – di rimpiangere la (o provare piacere nella) dimensione del segreto e della doppiezza. In una lettera aperta a Calvino dell’8 luglio 1974, poi raccolta negli Scritti corsari, Pasolini si paragonò con un certo compiacimento a Mister Hyde: «Io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita.» Foucault, in alcune interviste, descrisse la vecchia, codificata clandestinità in toni sottilmente elegiaci.
Morirono entrambi in circostanze legate alla loro ricerca del sesso: Pasolini massacrato all’Idroscalo di Ostia (da chi?) dopo aver rimorchiato Pelosi; Foucault stroncato dall’Aids, plausibilmente contratto nelle saune gay di San Francisco.

Una diversa violenza sui corpi
La Trilogia della vita (composta dai film Il DecameronI racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte) metteva in scena il sesso e il suo “linguaggio”, narrava la potenza dell’eros.
La presa di distanza che Pasolini esprime nella Abiura della «Trilogia della vita» (1975) ha molto in comune con quel che scriverà Foucault un anno dopo nel primo capitolo de La volontà di sapere, intitolato «Noialtri vittoriani»: è falsante descrivere il rapporto tra sesso e potere solo in termini di repressione del primo da parte del secondo; «scegliere il sesso non significa di per sé essere contro il potere», perché il «divieto del sesso» non è la strategia universale del potere, semmai è una strategia locale, singolare, che in certe fasi e in certi luoghi prevale sulle altre. Il rapporto tra sesso e potere si basa su un continuo «discorso sul sesso», sollecitato in tanti modi, e dunque una società può esercitare il potere sul sesso anche «iper-sessualizzando» le pratiche e i discorsi.
Scrive Pasolini:

 «Io abiuro dalla “Trilogia della vita”, benché non mi penta di averla fatta. Non posso negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso […]. Nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass- media” e quindi della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza degli organi sessuali […]. Ora, tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico; anzi, tale violenza sui corpi è diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana».

Negli anni in cui i movimenti per la liberazione del corpo e per la rivoluzione sessuale combattevano importantissime battaglie, e i movimenti omosessuali iniziavano la loro lunga lotta per libertà e apertura, Foucault e Pasolini mettevano in guardia tutti quanti, esortavano a sospettare di quella libertà e di quell’apertura, sostenendo che il problema della sessualità non era più – o non era soltanto – la sua repressione. Ipostatizzare una strategia locale (il divieto del sesso, il castigo del corpo in costumi repressivi), descriverla come operativa sempre e comunque, significava non capire che il rapporto tra sesso e potere può essere di segno molto diverso e non per questo produrre soggettività più libere.
Pensiamo al «berlusconismo», qui inteso nell’accezione più ampia, come manifestazione esemplare e al tempo stesso versione molto italiana (cfr. Stanis La Rochelle) di quello che Jacques Lacan chiamava il «discorso del capitalista», cioè l’esortazione al godimento immediato, a scapito di ogni regola e legame sociale.
Nel “discorso di Berlusconi” non c’è pruderie né tantomeno «divieto del sesso», anzi: c’è la continua titillazione para-pornografica dell’immaginario, e l’accusa di «moralismo bacchettone» è usata come clava contro chiunque si azzardi a criticare l’andazzo corrente. E’ precisamente lo scenario dell’ Abiura.
Il «discorso di Berlusconi» dimostra anche che il rapporto tra potere e sesso è fatto di strategie diverse tra loro, mai riducibili ad unum, a un’unica logica a cui ricondurre ogni mossa. Basti un esempio: nell’Italia berlusconizzata si auto-alimenta da tempo un circolo vizioso tra incitazione all’omofobia (con sempre più episodi di violenza di strada) e rutilante esibizione/esaltazione del gay o del transgender famoso e possibilmente di destra (da Platinette a Signorini a Lele Mora, passando per Dolce & Gabbana). Platinette, non a caso, è l’esempio posto all’apice del sermone sulla «locura»  nell’ultima puntata della serie TV Boris:

«…Io parlo della locura, René, la locura! La pazzia, che c…, René… La cerveza! la tradizione (o ‘merda’, come la chiami tu), ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo… che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: Platinette! Perché Platinette, hai capito, ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte… ‘Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera!’ È vero o no? Ci fa sentire la coscienza a posto, Platinette. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette… mentre fuori c’è la morte! È questo che devi fare tu: ‘Occhi del cuore’, sì, ma… Con le sue pappardelle, con le sue tirate contro la droga, contro l’aborto… ma con una strana, colorata, luccicante… frociaggine! Smaliziata e allegra come una c… di lambada! È la locura, René, è la c…. di locura! Se l’acchiappi, hai vinto.»

Il potere non si basa sul divieto del sesso, ma sulla continua sollecitazione di un discorso sul sesso, che può sì includere strategie di interdizione e condanna, ma giocandole con altre finalizzate alla spettacolarizzazione, alla mercificazione, alla distrazione di massa, alla creazione di perversi «doppi vincoli» tra l’imperativo «Godi!» e la condizione «Purché tu rimanga al tuo posto». Musichette, mentre fuori c’è la morte. E’ la locura. E’ la c…. di locura.

Un profilo di Pasolini. Foto di Piero Becchetti
Un profilo di Pasolini. Foto di Piero Becchetti

Postilla su Pasolini e la «Dopostoria»
Anche alla luce di questo, è riduttivo, anzi, è del tutto fuori luogo dire che Pasolini fu un «reazionario». E’ una misera scorciatoia. Certamente gli piaceva épater les modernes, ma i suoi contrattacchi culturali li azzardò partendo dal rammarico per la scomparsa dell’ «illimitato mondo contadino», non approdandovi. Soprattutto nei suoi anni «corsari» (ma già dai primi anni Sessanta), Pasolini cercò di aggredire il nemico non nelle postazioni che stava abbandonando, bensì in quelle che stava per occupare.
Si ricorda sempre il celeberrimo incipit «Io sono una forza del passato, / solo nella tradizione è il mio amore» (da Poesia in forma di rosa, 1964), ma quei versi andrebbero riletti ponendo maggiore attenzione alle prime quattro parole: «Io sono una forza». Il tempo è il presente, e non c’è un accasciarsi nella perdita, non c’è facile melancolia: il poeta è una forza, una forza che viene dal passato ma agisce nel presente, anzi, nel presente avanzato. Il poeta sta assistendo ai «primi atti della Dopostoria» da una postazione paradossalmente privilegiata («dall’orlo estremo di qualche età / sepolta…»). E’ la postazione di chi, incarnando la cesura tra tradizione e futuro, intuisce cosa riservi quest’ultimo e può aggirarsi in esso, «più moderno d’ogni moderno». 

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

 [Un montaggio diverso e più breve di questi appunti è uscito sul n.3 di  “Nuova Rivista Letteraria”, Edizioni Alegre, maggio 2011.]

Wu Ming
Wu Ming

Bibliografia selezionata
Guy Casadamont, “Masques de Foucault”, in: AA.VV., Discipline, Security and Beyond,Carceral Notebooks vol. 4, Chicago 2008
Didier Eribon, Michel Foucault, Leonardo, Milano 1991
Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010
Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978
Franco Grattarola, Pasolini. Una vita violentata, Coniglio, Roma 2005
David Macey, Michel Foucault, Reaktion Books, London 2004
James Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi & Co., Milano 1993
Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976
Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005

[idea]Info[/idea]
Wu Ming è un collettivo di scrittori provenienti dalla sezione bolognese (in realtà solo un membro è bolognese, Wu Ming2) del  “Luther Blissett Project”(1994-1999), divenuto celebre con il romanzo Q. A differenza dello pseudonimo aperto “Luther Blissett”, “Wu Ming” indica un preciso nucleo di persone, attivo e presente sulle scene culturali dal gennaio del 2000. Il collettivo Wu Ming fa parte di una fondazione informale [ossimoro?], la Wu Ming Foundation, che comprende anche altri progetti, come la punk-rock band Wu Ming Contingent, il blog Giap e l’officina di narrazioni Wu Ming Lab.
In cinese mandarino “wu ming” significa “senza nome” (caratteri tradizionali: 無名; caratteri semplificati: 无名; pinyin: wú míng) oppure “cinque nomi” (cinese: 五名; pinyin: wǔ míng), a seconda di come viene pronunciata la prima sillaba. Il nome d’arte è inteso tanto come tributo alla dissidenza (“Wu Ming” è un modo di firmarsi frequente presso i cittadini cinesi che chiedono democrazia e libertà di parola) quanto come rifiuto dei meccanismi che trasformano lo scrittore in divo.
A questa scelta si lega anche la particolare posizione degli autori in ordine al diritto d’autore: tutte le opere del collettivo Wu Ming, dopo alcuni anni dalla loro pubblicazione cartacea, vengono proposte per il download integrale dal loro sito con licenza Creative Commons CC BY-NC-SA, non commerciale.
Il fatto che il nome del gruppo significhi “Senza nome” ha spesso generato equivoci sul presunto anonimato dei suoi membri, i cui nomi anagrafici sono invece noti e riportati anche sul sito ufficiale. Dal 2000 alla primavera del 2008, la formazione ha compreso:
Roberto Bui (Wu Ming 1)
Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2)
Luca Di Meo (Wu Ming 3)
Federico Guglielmi (Wu Ming 4)
Riccardo Pedrini (Wu Ming 5).
Il 16 settembre 2008 il gruppo ha annunciato l’uscita di Luca Di Meo dal collettivo di scrittori, avvenuta nella primavera precedente. Ciononostante, Di Meo è tornato ad utilizzare lo pseudonimo “Wu Ming 3”, con il quale viene designato anche sul blog “Giap”.
Ciascuno dei quattro membri ha un nome d’arte individuale, una produzione “solista” e una “voce” autoriale autonoma, riconoscibile dai lettori.

 Wu Ming 1, pseudonimo di Roberto Bui (Ferrara), è uno scrittore e traduttore italiano, membro del collettivo Wu Ming. È autore dei romanzi New Thing e Point Lenana, quest’ultimo scritto assieme a Roberto Santachiara. Ha tradotto in italiano opere di Elmore Leonard, Walter Mosley e Stephen King.

 Il filosofo Mario Galzigna è docente di Storia della scienza e Storia e metodi della psichiatria all’Università Ca’ Foscari di Venezia, nonché curatore delle edizioni italiane degli ultimi corsi di Michel Foucault al Collège de France.

La sit-com italiana Boris (di Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, anche regista, su soggetto di Luca Manzi e Carlo Mazzotta, trasmessa dal 2007 al 2010 su Fox) mette in scena il dietro le quinte di un set televisivo alle prese con una serie tv fasulla, il classico telefilm nostrano. Che finge di ispirarsi alla serialità americana ma non fa altro che ingigantire tutti i difetti di quella italiana, a partire dalle condizioni materiali di realizzazione: budget risicati, attori improbabili, piani di lavorazione approssimativi, troupe al limite della professionalità, telefoni cellulari sempre spenti, ecc. Spesso Boris è additato come un esempio di satira riuscita, di atto d’accusa contro la tv. Star indiscussa del racconto è proprio Renè Ferretti (Francesco Pannofino), «il Roberto Saviano della fiction», la caricatura del regista cialtrone, figlio di quella tv italiana che vive di budget risicati, di approssimazioni, di balle, di facilonerie, di romanità folkloriche, di indotto Rai. Irresistibili i dialoghi, come nello sketch sulla “locura”in cui uno sceneggiatore cerca di convincere il regista Renè a cambiare registro.