Un’opera internazional-popolare: “L’ultimo imperatore” di Bertolucci, di Fabien Gerard

Premessa: L’idea di nazional-popolare in Pasolini

di Angela Molteni

Alberto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo (Einaudi, 1965), aggiunge il suo nome ai critici della concezione pasoliniana. Dopo aver ricordato, in particolare, alcune affermazioni di Pasolini stesso in un’intervista del ’59: «…io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’…dato che destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico per me non esistono: che marxista sarei?», Asor Rosa dunque afferma: «La verità è che di tutte le possibili varianti marxiste, Pasolini ha colto, magari attraverso la mediazione degli interpreti ufficiali comunisti, unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa».
Probabilmente non sono presenti in Asor Rosa alcune categorie utili per comprendere a fondo il marxismo di Pasolini, che egli infatti definisce «… quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni ancora molto a noi vicini del progressismo letterario».
Che il romanzo pasoliniano si possa definire storico e nazionale, e che possa entro ben definiti limiti anche essere rapportato al realismo socialista, mi pare fuori di ogni dubbio. Ma inquadrarlo unicamente nell’ambito del nazional-popolare mi sembra significhi non comprenderlo per intero. Anche se è stato lo stesso Pasolini in alcune occasioni di dibattito pubblico a richiamarsi al tema gramsciano del nazional-popolare. Se ad Asor Rosa la poetica pasoliniana sembra quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare… è proprio, con ogni probabilità, perché in essa manca in maniera evidente l’intento pedagogico, tipico del realismo socialista e del concetto di nazional-popolare. In Pasolini l’opera poetica è nazionale in quanto tipica; e popolare perché è il sottoproletariato a esserne protagonista, non certo perché essa serva a trasmettere la verità socialista nella coscienza popolare attraverso l’opera del partito e dell’intellettuale organico. Sembra essere, dunque, proprio una concezione della politica e del marxismo come rimpianto a fuoriuscire dai canoni interpretativi di Asor Rosa (e non solo suoi), e a precludergli la piena comprensione del mondo politico pasoliniano.
E’ partendo da questi brevissimi appunti sulla concezione pasoliniana di nazional-popolare che riproduco qui con piacere un saggio, opera di Fabien Gerard, una vera e propria lezione di cinema: riguarda Bernardo Bertolucci e la sua esperienza in L’ultimo imperatore che Fabien Gerard definisce «un’opera internazional-popolare». Bertolucci ha avuto con Pasolini un rapporto di amicizia e di affetto certamente profondi che apre, oggi, un’ampia ed eloquente riflessione sulla concezione filmica dei due registi cui non ci si può sottrarre.

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L’ultimo imperatore di Bertolucci: un’opera internazional-popolare

di Fabien S. Gerard
Université de Bruxelles (ULB)

Estratto dagli Atti del Convegno internazionale La Forma del Passato: Questioni di identità in opere letterarie e cinematografiche italiane a partire dagli ultimi anni Ottanta, a cura di Sabina Gola e Laura Rorato, ©Peter Lang, 2007.

Seppure la Cina sia vicina, come diceva qualcuno, perché ho scelto di evocare in questa sede un film girato oltre la Grande Muraglia (salvo alcuni interni completati a Cinecittà), che si rifà all’autobiografia dell’ex “Figlio del Cielo” Aisin Gioro Pu Yi [1]? Forse anzitutto per averci dedicato un paio di anni della mia vita come assistente di Bernardo Bertolucci, dall’inizio della pre-produzione, nel gennaio del 1986, fino alla promozione del diario di lavorazione edito presso i «Cahiers du cinéma»[2], in coincidenza con l’uscita sugli schermi de L’ultimo imperatore, nell’autunno del 1987. Quella, in realtà, era la mia prima esperienza su un set cinematografico. Però, accanto all’apprendistato tecnico, sarebbe stato difficile dimenticare del tutto la mia formazione accademica. Donde la particolare attenzione con cui continuai a consegnare ogni dato utile sul work in progress.
Essendo vissuto a Roma per tutti gli anni Ottanta, ero in prima fila poi per seguire il meglio e il peggio della produzione nazionale del decennio, nonché per cercare di capire perché il marchio “cinema italiano” non riusciva più a varcare i confini della Penisola come era stato il caso, quasi ininterrottamente, dal 1945. Morto Pasolini, morto Visconti, morto Rossellini, come pure Petri e Zurlini, la generazione dei Rosi, dei Ferreri, degli Olmi, della Cavani, dei fratelli Taviani stava passando di moda a sua volta (benché io ricordi con quanta emozione scoprii Kaos in una sala di “prima visione” zeppa di spettatori). Nonostante la consacrazione di Una giornata particolare, c’era chi sosteneva che anche il momento magico di Scola era tramontato, e il testamento involontario di Leone, C’era una volta l’America, fu considerato quasi subito un classico. Quanto a Fellini, malgrado l’acutezza dello sguardo che Ginger & Fred portava sul nuovo paesaggio audiovisivo, il maestro de La dolce vita era ormai considerato un dinosauro confinato in uno zoo chiamato Cinecittà. (E durante la fase finale delle riprese de L’ultimo imperatore, i più giovani membri della troupe correvano a spiarlo come tale, appena si girava qualche scena di Intervista per i viali degli stabilimenti della Tuscolana). Un altro dinosauro era senz’altro Antonioni, la cui notizia dell’ictus cerebrale ci giunse in Manciuria, in una gelida mattina di novembre.
Nel bene e nel male, il mondo stava cambiando a passo veloce, e stava cambiando di conseguenza il gusto della gente, l’attesa del pubblico. Più che mai era in moto la “mutazione antropologica” di pasoliniana memoria. Da cui, forse, la nostalgia emblematica illustrata in Splendor o in Nuovo cinema Paradiso. Erano gli anni di Sogni d’oro, di Bianca e de La messa è finita, di Colpire al cuore, de I ragazzi di via Panisperna e di Porte aperte; Nanni Moretti e Gianni Amelio si stavano affermando come autori veri e propri. Venivano salutati gli esordi di Pisicelli e di Luchetti, di Tornatore e di Salvatores, di Marco Risi, dell’Archibugi, di Francesca e Cristina Comencini. Benigni, Troisi, Verdone, Nichetti e Nuti prendevano il testimone a Sordi, Manfredi, Tognazzi e Gassman – non si tratta a priori dello stesso mestiere, ma ormai i comici della generazione montante si volevano anche registi. Per approdare a una nuova forma di trasgressione invece, bisognerà aspettare l’arrivo di Ciprì e Maresco, nel corso del decennio successivo.
Eppure, a differenza di quanto era accaduto ai tempi del neo-realismo, o negli anni Sessanta e Settanta, la stramaggioranza di questi nomi – per non dire di Pupi Avati, di Giuseppe Bertolucci, di Marco Tullio Giordana – rimaneva disperatamente sconosciuta all’estero. Solo i cinefili più convinti sapevano ancora chi fossero Marco Bellocchio o Bernardo Bertolucci, ripensando a I pugni in tasca, a La Cina è vicina e a Nel nome del padre, a Prima della rivoluzione e a Strategia del ragno, a Il conformista, a Ultimo tango a Parigi, a Novecento. Chiaramente, il cinema italiano, anzi, i cineasti italiani, vecchi o giovani, risultavano incapaci di continuare ad accattivare in qualche modo il resto del mondo.
In seguito alla liberalizzazione del mercato televisivo, come dappertutto cresceva paurosamente la concorrenza della cultura anglosassone, diffusa dalla schiera dei film USA, i cui titoli venivano sempre più spesso pubblicizzati in lingua originale (Shining, Alien, Blade Runner, Platoon, Full Metal Jacket, ecc.), senza più ricorrere alle inventive traduzioni-tradimenti di una volta. (Si pensi al geniale Ombre rosse, coniato a suo tempo per la distribuzione locale del mitico Stagecoach di John Ford). Questo, quindi, era grosso modo il contesto di crisi nel quale nacque L’ultimo imperatore, una stagione in cui – parla Bertolucci – la nuova realtà italiana «non riusciva neppure a incidere la pellicola della [sua] macchina da presa».

Per aver avuto la fortuna di seguire dietro le quinte ogni tappa del processo creativo de L’ultimo imperatore, due punti mi colpirono particolarmente riguardo al fenomenale successo del film, specialmente in seguito all’imprevedibile pioggia di Oscar avvenuta nell’aprile 1988, quattro anni dopo l’avvio del progetto. Da un lato, l’equivoco relativo alla nazionalità dell’opera stessa. Dall’altro, il ruolo giocato da questo “blockbuster” sui generis nella prospettiva dello sviluppo del cosiddetto Global Village.
Ancora oggi, la maggior parte della critica parla, a proposito de L’ultimo imperatore, dell’inizio della carriera “hollywoodiana” di Bertolucci, al punto da rinfacciare al cineasta parmigiano di aver rinunciato all’impegno poetico-politico che fece la sua fama autoristica. A prescindere dal fatto che la sua scoperta dell’Oriente sia coincisa col desiderio di prendere le dovute distanze col nuovo materialismo delle Golden Eighties per andare incontro ad altre visioni del mondo, non perdiamo di vista che il “kolossal d’autore” in questione altro non era che una (super)produzione indipendente europea. Mai, infatti, le major californiane avrebbero concesso all’uomo di Novecento la libertà con la quale è riuscito a portare avanti, come fu il caso, una scommessa così delicata sul piano dei contenuti. In altre parole, seppure il film mirasse anche al pubblico americano, l’impresa si presentava anzitutto come una sfida alla Dream Factory lanciata dalla Vecchia Europa con l’appoggio logistico della Cina di Deng Xiaoping.
Dopo il provincialissimo – e ingiustamente sottovalutato – La tragedia di un uomo ridicolo, girato nel 1980 nell’Appennino parmense, Bertolucci, attraverso la “Trilogia dell’altrove” proseguita con Il tè nel deserto e Piccolo Buddha, aveva forse dato l’impressione di essersi dimenticato del proprio paese, benché questi titoli abbiano almeno permesso di mantenere sulla scena internazionale la presenza di una firma italiana di grande prestigio. Perciò, oltre all’identità europea (dal punto di vista anagrafico) de L’ultimo imperatore, vorrei ora insistere su certi aspetti della sua paradossale italianità. Anzitutto va ricordato che il progetto nacque sulla scia della serie televisiva Marco Polo, realizzata in Cina da Giuliano Montaldo per conto della Rai. Fu uno dei direttori di produzione del Marco Polo, il compianto Franco Giovalè, a regalare all’amico Bernardo, per il Natale del 1983, una copia dell’autobiografia di Pu Yi, come pure furono i contatti privilegiati con le autorità cinesi sviluppati grazie al Marco Polo che facilitarono in modo decisivo le trattative per la concretizzazione de L’ultimo imperatore.
A questo punto, potrei fare una parentesi su come lo straordinario sfarzo del film rimandi a tutta la tradizione del melodramma – a cominciare dalla Turandot di Puccini –, o all’eredità cinematografica sia di Visconti che di Rossellini. Ricordiamoci Il Gattopardo e La caduta degli dei, ma più specialmente ancora Ludwig, in cui il “condottiere marxista” seppe coniugare magistralmente il senso dell’affresco storico con l’intimistico ritratto di un monarca solitario quanto decadente. Certo, la Baviera non è la Cina, ma l’ispirazione di questi due ambiziosi creatori sembra proprio riallacciarsi ad una matrice comune, già confermata in precedenza da Il conformista e Novecento. E neppure Versailles è la Città Proibita, però la lezione rosselliniana de La presa del potere da parte di Luigi XIV non lascia dubbi nella descrizione della vita quotidiana di questo palazzo d’altri tempi, dove centinaia di cortigiani si aggirano come satelliti attorno alla figura solare del Grande Drago.
Più interessante mi pare invece esplorare la genesi del film per capire come sia stato L’ultimo imperatore a scegliere il suo regista, e non il contrario. Letto il libro di Pu Yi, una delle prime iniziative di Bertolucci fu quella di visitare due suoi vecchi conoscenti, cioè Alberto Moravia, autore di un memorabile diario cinese pubblicato all’inizio della Rivoluzione culturale[3] (lo stesso scrittore era anche stato la prima persona a raccontargli la storia di Pu Yi), e Michelangelo Antonioni, invitato nel 1972 a girare nella Repubblica Popolare il personalissimo documentario Chung Kuo – Cina[4]. Venuto poi il momento dei sopralluoghi, non è casuale che Bertolucci si sia portato in tasca, insieme alle opere di Confucio e di Chuang-tse, di Lu Xun e di Mao, gli Scritti corsari di Pasolini.
Dieci anni dopo la scomparsa del Grande Timoniere, l’antica Terra di Mezzo, di tradizione prevalentemente agricola e preindustriale, stava ora alle prime prese col consumismo, sulla soglia dello stesso boom che, attorno al 1960, aveva cominciato a sconvolgere il paesaggio socioculturale dell’Italia postbellica[5].

Così come è concesso al bruco nascere una seconda volta sotto forma di farfalla, è possibile per un Figlio del Cielo vivere un giorno la vita di un ordinario cittadino ? E’ concepibile per un figlio della borghesia agraria emiliana, quale Bernardo Bertolucci, non solo aderire alla diagnosi marxiana della lotta di classe, ma anche impegnarsi di persona nell’altruista “sogno di una cosa”? Da Prima della Rivoluzione a L’assedio o ai Dreamers, passando per Partner e Novecento, questo interrogativo va di certo considerato una delle tematiche madri della filmografia del Nostro, accanto all’ossessione proustiana dell’ impermanenza e della “nostalgia del presente”, destinate a confluire significativamente in Piccolo Buddha. Da questo punto di vista, è doveroso notare che la scena tanto discussa del processo al padrone, in Novecento, si rifaceva meno alla realtà storica del 25 aprile 1945 quanto alla scoperta, da parte del regista, di fotografie di Tribunali popolari scattate nelle campagne cinesi sul finire degli anni Quaranta. Il fatto che Alfredo Berlinghieri, sia pure condannato a morte dall’assemblea dei contadini, fosse lasciato in vita quale “prova vivente che il padrone è morto” altro non fa che prefigurare la situazione di Pu Yi, sia nel 1911 – quando viene assegnato a residenza nel proprio palazzo quale prova vivente dell’abolizione del regime imperiale –, sia nel 1950 – quando inizia la sua “rieducazione”, dopo l’arrivo al potere del presidente Mao. (Ugualmente, alla fine de La tragedia di un uomo ridicolo, definito da Bertolucci un possibile “atto terzo” di Novecento, il padrone Primo Spaggiari viene fatto “presidente a vita” della cooperativa instaurata dagli operai-terroristi). Di conseguenza, è affatto lecito affermare che l’ispirazione italiana de L’ultimo imperatore e l’ispirazione cinese di Novecento si rispondono a vicenda.
Visti i noti sensi di colpa legati al “peccato originale di non essere nato povero” presenti in tutta l’opera dell’autore, è interessante riportare il seguente aneddoto, confermato dalla testimonianza di Carla Zuelli, figlia dei mezzadri che curavano una volta il podere famigliare dei Bertolucci, vicino a Parma: Bernardo aveva sui dieci anni quando la bambina gli spiegò come i contadini avrebbero impiccato tutti i padroni agli alberi più alti del frutteto il giorno in cui sarebbe finalmente scoppiata la Rivoluzione. Di fronte al viso sconsolato del suo compagno di gioco però, la piccola Carla aggiunse subito: «Ma te no! Tu verrai risparmiato, perché sei simpatico.»[6] Detto questo, non c’è da meravigliarsi della curiosità di lunga data del regista per il fatto che i comunisti cinesi non avessero tagliato la testa all’ex padrone della Città Proibita, segnalatogli da Moravia fin dal 1966. Inoltre, il fatto che il Figlio del Cielo, considerato un modello assoluto da centinaia e centinaia di milioni di sudditi, fosse anche chiamato da sempre il “Coltivatore del Regno”, il quale, ogni anno, semina simbolicamente il primo solco, e ne raccoglie per primo la mietitura, rovescia del tutto l’interpretazione comune dell’epilogo de L’ultimo imperatore, facendo di Pu Yi un “letzte Mann” alla Murnau, caduto dall’alto del trono nel baratro di una vita mediocre.
Non bisogna dimenticare che, quando lo vediamo prendersi cura delle piante, all’Orto Botanico di Pechino, con le mani sporche di terra, questo nuovo Candide voltairiano si sente forse per la prima volta nella sua vita una persona utile e responsabile. Bisogna inoltre ricordare che la colpa per la quale è stato riformato nei carceri di Mao non riguarda lo statuto “celeste” che gli fu imposto da bambino nell’Ancien Régime, bensì il suo collaborazionismo col nemico giapponese, che autorizzò l’invasione del proprio paese, provocando la morte di venti milioni di cinesi (secondo le fonti occidentali) in una guerra durata dodici anni.
Così, la parte del film dedicata alla creazione dello Stato fantoccio del Manciukuò, dove Pu Yi fa l’errore fatale di risalire sul trono del Drago offertogli nel 1933 da Hiro Hito, è stata l’occasione per Bertolucci di tornare a visitare, proseguendo l’Asse Roma-Berlino-Tokyo, il clima del ventennio nero che faceva da cornice a Il conformista e a Novecento. Anche in questo caso sarà comunque una fonte italiana a fornire agli sceneggiatori la descrizione più dettagliata di quell’episodio storico quasi sconosciuto in Occidente, cioè le Memorie di Amleto Vespa, alias il “comandante Feng”[7], un avventuriero abruzzese finito in Manciuria durante la prima guerra mondiale, poi assunto dai servizi segreti nipponici fino al 1936.
Ma se il filo rosso degli interrogatori di Pu Yi, ne L’ultimo imperatore, rammenta gli interrogatori ricorrenti dei vari sospetti ne La Commare secca, l’autocritica del sovrano decaduto ci riporta più precisamente ancora all’esame di coscienza del personaggio di Puck, il vecchio padrone rovinato, in Prima della rivoluzione. Inoltre, Bertolucci ha voluto associare l’esperienza stessa della rieducazione cinese alla psicoanalisi, per le analogie che queste discipline presentano nel lavoro svolto a livello dell’inconscio, scegliendo di mostrare il direttore del penitenziario seduto alle spalle di Pu Yi, esattamente come fa l’analista nelle sedute freudiane[8].
Allo stesso modo che le mura color di vino della Città Proibita echeggiano la scenografia naturale della fattoria dei Berlingieri, in Novecento, chi ha visto Strategia del ragno avrà subito identificato nel palazzo di Pechino un doppio della cittadina immaginaria di Tara[9], “città-teatro” e “città-prigione” nelle cui strade vuote ed erbose il tempo sembra essersi fermato da secoli. Bisogna però precisare che, avendo appena iniziato l’analisi nella primavera del 1969, Bertolucci ideò Tara come una specie di rappresentazione surreale dell’inconscio, rifacendosi all’atmosfera delle vedute “ideali” della Scuola di Urbino, come pure a certi quadri metafisici di Giorgio de Chirico. Si sa poi che alla fine di Strategia, il giovane Athos, forse in risonanza con L’angelo sterminatore di Buñuel, non riuscirà a scappare da questo luogo incantato, rimanendo prigioniero della ragnatela del passato.
Non sarà un caso che, in una scena ripristinata nella versione lunga de L’ultimo imperatore, Pu Yi citi una poesia dedicata a «un ragno preso nella tela da lui tessuta». Insieme alle suddette somiglianze tra Tara e la Città Proibita, tali giochi di specchi fanno assai chiaramente del palazzo imperiale un’altra visione architettonica dell’Es, nel cui labirinto Pu Yi – incarnazione per eccellenza della Vecchia Cina – appare a sua volta prigioniero del passato e del proprio inconscio[10].
Ritorna così a galla la figura del Pasolini corsaro, vittima anche lui della “forza del Passato”, il quale dichiarava, ai tempi della Trilogia della Vita, che «il [suo] amore per il passato [era] ormai una sfida al nuovo potere consumistico che [voleva] disfarsene.» Dalla sua nota diffidenza nei confronti della terapia freudiana risultò poi un rapporto quasi impossibile col principio di realtà e l’accelerazione della Storia, mentre la “carriera” analitica del suo discepolo e caro amico Bernardo Bertolucci, doveva portare questi, invece, a sottoporre il passato al setaccio, per intenderci, almeno se voleva continuare a guardare al futuro.
Mutatis mutandis, la prospettiva rivoluzionaria portata avanti da Mao funziona secondo lo stesso principio. E qui giungiamo all’allegoria della “pagoda”: la Cina, la più vecchia e duratura civiltà del mondo, è anche una delle più conservatrici, dedita per millenni al culto degli avi, all’archiviazione del sapere, alla burocrazia. Ora immaginiamo una pagoda di una quarantina di piani. Ogni piano corrisponde a un secolo, e contiene tutti i tesori accumulati negli ultimi cento anni. Così, ogni cento anni viene aggiunto un altro piano. Finché, dopo quattromila anni di Storia ininterrotta, sia per l’altezza che per il peso, la pagoda-Cina si mise a pendere sempre più paurosamente, un po’ come la Torre di Pisa. Intanto, le maggiori potenze straniere aspettavano che crollasse per poter raccoglierne i tesori e dividere quel terreno tra di loro. Durante la guerra col Giappone, negli anni Trenta, venne fuori un giovane intellettuale visionario, il quale decise nientemeno che di ristrutturare le fondamenta dell’edificio in previsione dei piani successivi. Era Mao. E così come il successore dell’imperatore insegnò a Pu Yi a stare saldo sui propri piedi, così raddrizzò la pagoda, compiendo a modo suo una “psicoanalisi coatta” a livello di un’intera civiltà, il cui esemplare risorgimento viene oggigiorno considerato da tutti gli economisti il faro del secolo venturo.

Nella stessa maniera in cui un Eisenstein, un Coppola o un Forman ci raccontano di loro stessi pur appoggiandosi alla biografia del primo zar (Ivan il terribile), dell’ingegnere Preston Tucker (Tucker, un uomo e il suo sogno) o di W. A. Mozart (Amadeus), il “compagno imperatore” era una maschera ideale per la mise en abyme di Bertolucci, come lo indicano i resoconti di un’infanzia fuori dal comune vissuta in un ambiente protettissimo[11]. Tra i tanti particolari che andrebbero segnalati in merito, basti pensare alla relazione tra il giovane Bernardo e il fratellino Giuseppe, che echeggia i giochi di Pu Yi con Pu Chieh, o alla passione atavica per Verdi, e specialmente per il Rigoletto, che lo porterà a popolare di gobbi i suoi film[12].
Quanto al “koutou”, la prosternazione in uso nella Cina feudale, chi leggerà le ultime righe dell’appendice a questo contributo capirà come questa mossa coincide visualmente con un antico rituale religioso della Bassa Padana, ben conosciuto dal regista[13].
Forse anche memore del fatto che Parma possiede la più ricca collezione di arte cinese esistente in italia – il Museo di Arte Cinese e Etnografico, fondato dai missionari saveriani –, non c’è dubbio che l’autore de L’ultimo imperatore faccia ormai la figura di un nuovo Marco Polo, all’alba dell’età planetaria. Non solo il primo capitolo della trilogia che sappiamo fece riscoprire la Cina al resto del mondo, ma l’impatto del film ha contribuito a rompere l’isolamento culturale della Celeste Repubblica, favorendo l’imprevedibile slancio del cinema cinese sul piano internazionale. Va notata la presenza attiva sul set de L’ultimo imperatore di registi oggi confermati quali Chen Kaige o Ning Ying, mentre l’anno successivo Il sorgo rosso di Zhang Yimou – allora del tutto sconosciuto al di qua della Grande Muraglia – vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino. Seguiranno i clamorosi successi di Le lanterne rosse, di Addio mia concubina, de L’aquilone azzurro, senza dimenticare i premi d’interpretazione di Gong Li a Cannes e a Venezia, nonché l’esplosione delle produzioni di Hong Kong e Taiwan, con l’esordio di Ang Lee, di Wong Kar-wai, di Hou Hsiao-hsien, di Tsai Ming-liang.
Può darsi che la maggioranza degli spettatori occidentali sia rimasta principalmente abbagliata dall’esotismo dei costumi e delle scenografie de L’ultimo imperatore, compatendo magari col destino tragico di un altro “uomo ridicolo” ingannato dalla Storia. Però, malgrado l’equivoco che sappiamo attorno alla fama hollywoodiana del “Signor Oscar”[14], il regista così poco conformista de Il conformista non poteva dimostrarsi più fedele, in questa sua ambiziosa impresa “internazional-popolare”, al proprio concetto di cinema d’autore, superata l’esperienza rigorista del “monologo” che lo caratterizzò fino agli ultimi anni Sessanta[15]. Vale a dire un cinema che mira al grande pubblico, sforzandosi sempre di aprirgli poeticamente gli occhi sulle realtà del suo tempo.

* * *
[1] From Emperor to Citizen. The Autobiography of Aisin-Gioro Pu Yi, Pechino, Foreign Languages Press, 1964 (trad. it. Sono stato imperatore. L’autobiografia dell’ultimo sovrano della Cina, a cura di Francesco SABA SARDI, Bompiani, 1987).
[2] GERARD F.S., Ombres jaunes. Journal de tournage du ‘Dernier Empereur’ de Bernardo Bertolucci, Parigi, Editions Cahiers du cinéma, 1987.
[3] MORAVIA Alberto, La Rivoluzione culturale in Cina, Bompiani, 1967.
[4] Vedi ANTONIONI Michelangelo, Chung Kuo/Cina, Einaudi (“Nuovi Coralli”), 1974.
[5] Essendo il tema de L’ultimo imperatore, appunto, il cambiamento, la mutazione dell’intero paese come del singolo Pu Yi, si tornerà più avanti sull’interesse di Bertolucci per il saggio pasoliniano attraverso l’allegoria della “pagoda-Cina”, ideata durante le riprese per spiegare l’utopia maoista.
[6] Vedi Secret Agent of Japan. A Handbook to Japanese Imperialism, Londra, V. Gollancz Ltd., 1938 (trad. it. Comandante Feng, Spia in Oriente, O.E.T. [Organizzazione Editoriale Tipografica] / Edizioni Poli- libraria, s.d. [1947]).
[7] Vedi il documentario La rosa bianca (1990) di Franco GUARESCHI.
[8] Utilissima durante la preparazione del film fu anche, a questo riguardo, la lettura di RICKETT Allyn & Adele, Prisoners of Liberation, New York, Cameron Associates, 1957 (trad. it. Prigionieri della Liberazione. Quattro anni nei carceri cinesi, Mazzotta, 1976); PASQUALINI Jean, Prisoner of Mao, a cura di Rudolph Chelminski, New York, Coward, McCann & Geoghegan, 1973 (trad. fr. Prisonnier de Mao. Sept ans dans un camp de travail en Chine, Parigi, Gallimard, 1975); FYFIRLD J.A., Re-educating Chinese Anti-Communists, Londra/New York, Croom Helm/St. Martin’s Press, 1982.
[9] Nella realtà, Sabbioneta, vicino a Mantova, edificata di sana pianta per volontà di Vespasiano di Gonzaga, durante la seconda metà del Cinquecento.
[10] Sui rapporti de L’ultimo imperatore col passato e l’inconscio, si veda l’analisi del film nel libro di T. Jefferson KLINE, Bernardo Bertolucci. Cinema e psicoanalisi, Gremese, 1993; L’ultimo imperatore. Storia di un viaggio verso Occidente, a cura di Marcello GAROFALO, Istituto Tipografico e Zecca dello Stato/Libreria dello Stato, 1991; Bertolucci’s ‘The Last Emperor’: Multiple Takes, a cura di Bruce H. SKLAREW, Detroit, Wayne State University Press (“Contemporary Film & Television Series”), 1998.
[11] Oltre al primo capitolo del volume di conversazioni curato da Enzo UNGARI & Don RANVAUD, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri (“I Libri Quadrati”), 1987, vedi specialmente LEONCINI Leonida, Fiori all’ombra de La capanna indiana. Nella freschezza dei suoi 11 anni, un bimbo si specchia in una polla di poesia, «Il Giornale dell’Emilia», 24 marzo 1952 (ora in Bernardo Bertolucci: Interviews, a cura di F.S. GERARD, T.J. KLINE & B.H. SKLAREW, Jackson, University Press of Mississippi, “Conversations With Filmmakers Series”, 2000, pp. 3-5). MARAINI Dacia, E tu chi eri? Interviste sull’infanzia, Bompiani, 1973, pp. 165-176 (ried. Rizzoli, 1998, pp. 195-209); BIAGI Enzo, Dicono di Lei. Le interviste che avreste voluto fare voi, Rizzoli (“BUR”), 1978, pp. 51-56; GARIBALDI Andrea, GIANNARELLI Roberto, GIUSTI Guido, Qui commincia l’avventura del Signor…, La Casa Usher, 1984, pp. 150-162.
[12] Il “Gobbetto” de L’ultimo imperatore si rifaceva in partenza, però, alla presenza di un eunuco afflitto della stessa deformità nell’entourage del vero Pu Yi.
[13] MARAINI, cit., p. 172 (ried., p. 205).
[14] Dalla copertina di «Time Magazine», 25 aprile 1988.
[15] CONSIGLIO Stefano & DAL BOSCO Francesco, Un ‘miura’ infiltrato a Hollywood, «Script/Leuto» n. 7/8, gennaio 1995 (ora in Bernardo Bertolucci: Interviews, cit., pp. 228-230).

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Appendice
Dal diario di lavorazione de L’ultimo imperatore

Beijing Film Studios, giovedì 28 agosto 1986

Eccoci insediati nella hall scarlatta degli appartamenti imperiali ricostruiti da Ferdinando Scarfiotti nel Teatro 4 degli Studi cinematografici di Pechino, per girare una paginetta aggiunta a giugno nella settima e penultima stesura della sceneggiatura. Si tratta della scena della mosca cieca, in cui due file di eunuchi disposte faccia a faccia, da ogni lato di un lunghissimo pezzo di seta teso attraverso lo stanzone, devono riconoscersi a vicenda col solo tatto.
“Anjing !… Yubei !… Kaishe !” Silenzio !… Motore !… Azione ! Maestosa ripresa dall’alto del dolly lungo il drappo che viene dispiegato, per finire sul giovane Pu Yi arrivando in cima alle scale, il viso mascherato da una testa di re delle scimmie, mentre una lancinante litania dell’Opera di Pechino fa da musica di fondo. Dopo il primo brivido della giornata, il regista vuol andare avanti a qualsiasi costo, preoccupato per le ore che scorrono precipitose fino ai fatidici tocchi delle 11. Però la solita corsa contro il tempo sembra svolgersi stamane sulle sabbie mobili. Il senso stesso di questo gioco iniziatico è quasi impalpabile, e non risulta facile intuire quanto lo spettatore capirà da ciò che si svolgerà sullo schermo.
Seduto accanto al produttore Jeremy Thomas, Bertolucci ha la pressione bassissima. Una sinologa dell’università di Venezia si offre di massaggiargli la schiena. Eletto a Gunga Din di turno, un assistente fiammingo con la bandana sempre in testa va a preparare una tazza di “tè cinese” – un tonico scozzese che ha del tè solo il colore. Il maestro ha un bell’esortare la sua corte a rifiutargli invece ogni minima sigaretta, venuto il momento critico salta sempre fuori qualche mano disposta a cedere. Segno d’incertezza forse, le carrellate danno l’impressione di accumularsi da tutti gli angoli possibili del telone bianco. All’ora di pranzo, spossato dall’alternanza dei sonniferi e degli eccitanti inghiottiti negli ultimi giorni, Bernardo errerà per una decina di minuti nel labirinto del set, prima di trovarne l’uscita.
L’atmosfera febbrile va crescendo dopo la pausa. La preziosa stoffa appositamente comprata a Nanchino, impregnandosi del sudore delle comparse, è ormai zuppa. I nostri eunuchi cominciano finalmente a godersela! Spetta a Wang Biao tradurre le parole del “daoyen”, per dirlo con i tecnici locali designando il regista, il quale insiste perché si muovano di più mentre si toccano. Li vorrebbe più sensuali, almeno quanto i cinesi, notoriamente riservati, sono capaci di esserlo nella privacy. Finché, ridendo come bambini, alcuni di essi si baciano addirittura sulla bocca dopo aver pizzicato il naso della sagoma anonima che sta loro di fronte.
Arriva il momento in cui Pu Yi si getta a sua volta nella mischia. L’euforia raggiunge il suo culmine quando Bertolucci si lascia cadere con gli occhi chiusi in mezzo a questa ondosa “culla” umana per indicare il giusto movimento al suo giovane attore, Wu Tao. Incoraggiato dall’assenza di Peter O’Toole, l’adolescente si mette a “ruggire” di propria iniziativa per scaricarsi i nervi prima di ogni ripresa, proprio come lo aveva fatto ieri, a scuola, l’alto leone biondo dagli occhi azzurri. Wu Tao è dotato, impara subito.
Al fine di riservarsi un’opzione di montaggio, si approfitta dell’accidentale dimenticanza della testa di scimmia in uno dei ciak della mattina, per filmare il seguito del gioco sia con che senza maschera. Viene in mente La Bella e la Bestia di Cocteau, nel momento in cui decine di mani si aggirano selvaggiamente attorno a Pu Yi. Ci saranno volute otto ore per arrivare a questo quadro di una bellezza quasi diabolica, “typique d’une Lune en Scorpion” precisa Suzanne, la segretaria di edizione, che fu la memoria vivente di Buñuel prima di raggiungere la troupe di Ultimo tango.
Girata come in uno stato di trance collettivo, la scena della mosca cieca ha preso forma sull’orlo dell’abisso. Basterà guadagnarsi mezza giornata la prossima settimana per chiuderla con l’irruzione del nuovo precettore, Reginald Johnston, che porta al suo allievo l’imperiale regalo di una bicicletta. Ognuno lascia il Teatro 4 quasi in levitazione. Bernardo manda un sospiro di sollievo. Con un largo sorriso nel profondo degli occhi.

Città Proibita, venerdì 29 agosto 1986

Attorno al “bar” di fortuna piazzato in un vicolo della Città Proibita, le scommesse riguardano il compimento nei tempi della scena 67 – ben quattro pagine di copione – per la quale la produzione ha previsto solo un giorno e mezzo di riprese : finita la lezione nella scuoletta imperiale, Mister Johnston è invitato ad assistere al pranzo di Pu Yi nella veranda aperta sul retro del padiglione dell’Eterna Primavera. Davanti a noi sfila una cinquantina di piatti che evocano certi fiori esotici. Malgrado la straordinaria raffinatezza visiva, non invogliano molto a lungo però: a causa del gran caldo, questi saranno già del tutto immangiabili prima della pausa.
Frattanto, Gabriele, l’aiuto regista, ordina alla bravissima Ning Ying di non perdere d’occhio gli eunuchi che non devono fermarsi di ventilare due vasi riempiti di ghiaccio pestato: un aspetto della climatizzazione al modo cinese prima dell’era industriale, che, come tanti particolari del genere, sfuggirà probabilmente alla massa degli spettatori.
Sfoggiando la sua camicia verde delle grandi occasioni, per la prima volta da un paio di settimane, Bertolucci appare sereno. È pronto ad iniziare la prova alle 10, quando si conferma l’assenza di Peter O’Toole, bloccato alla Porta Ovest per essersi dimenticato il distintivo. Miseria e nobiltà, estasi e agonia della star di Lawrence d’Arabia, fermata per strada perché – per una volta – non l’hanno riconosciuta! Questo imprevisto ci consentirà almeno di girare stamane tutte le inquadrature sull’assaggiatore. Colpito dall’odore fetido che comincia ad aleggiare, non appena l’eunuco ha esaminato le varie portate che passano e ripassano anche sotto il naso della cinepresa, Bernardo gli suggerisce poi di allontanarsi a ritroso “col sorriso amaro di chi è afflitto da un terribile mal di pancia”. Finché Serena invita tutti ad incamminarsi verso la solita cantina. Bon appétit lo stesso!
Solo quattro inquadrature in quattro ore. Chissà se si riuscirà ad accelerare il passo nel pomeriggio? “Zampone d’orso, bile di serpente, uova di cent’anni…” : in teoria era Chang, il capo degli eunuchi, che doveva enumerare i piatti destinati a Pu Yi. Ora il regista trova più buffo assegnare il compito a “Gobbetto”, un ruolo secondario tenuto da uno dei traduttori locali di nome Huang. Sia pure parlando l’italiano e il francese alla perfezione, Huang risulta incapace di pronunciare tre parole di seguito nella lingua di Shakespeare, e l’asportazione di una corda vocale, da bambino, non migliora certo la situazione. Eccolo che inciampa ancora e ancora sulla sua battuta, provocando un’imbarazzante risata nel cortile. Perciò il coach suggerisce una registrazione sonora “a vuoto”, a fine ripresa: ogni singola parola verrà così ripetuta più volte, separatamente, per la versione originale in inglese.
Nel frattempo ci ha raggiunto il piccolo Henry Kyi, che riparte domattina per Hong Kong, dopo essere stato per tre settimane il principe Pu Chieh, fratello minore di Pu Yi. Ultimi bacioni per la posterità insieme alle sarte, davanti alla macchinetta del nostro generoso paparazzo, Angelo, conosciuto tra i tecnici cinesi come “Babbo Natale”. Prima della separazione però, Henry è stato richiesto per completare in una viuzza vicina il suo close up nella scena del corteo, rimasto indietro da giorni a causa di un herpes. Invece, è appena sbarcato da Baltimore Alvin Riley Jr, per sostituirlo come Pu Chieh adolescente. Crisi di pianto quando Alvin ha realizzato ieri che non recita la parte dell’imperatore (per la quale fece un provino sei mesi fa), bensì quella più discreta del secondogenito. Tocca adesso al parrucchiere convincerlo a lasciarsi radere il capo al modo manciù. Dall’accettazione del ragazzo dipenderà il cast del “terzo” Pu Chieh, dovendosi assicurare la continuità fisionomica del personaggio fino all’età adulta.

Città Proibita, sabato 30 agosto 1986

Un sorso di caffè mandato giù alla garibaldina basta a tirare su Cinzia, Bruno e Osvaldo, Robertino e Luciano, per rimettere a posto l’arredamento della veranda entro le 9. Secondo il copione, Pu Yi, durante lo stesso pranzo di ieri, si accinge ad interrogare Johnston sull’assassinio del “figlio” dell’imperatore Francesco Giuseppe, a Sarajevo. Un ospite polacco provvidenzialmente ammesso ad assistere alle riprese della mattina esprime il suo stupore a Giulietto, che riferisce nell’orecchio di Serena, la quale contatta subito Nicoletta sul talkie-walkie. Nel giro di pochi minuti, l’ufficio ottiene conferma presso l’ambasciata austriaca: l’arciduca Francesco Ferdinando era in realtà il nipote del Kaizer. «Dieci frustate allo sceneggiatore!», lancia maliziosamente Bernardo. Meno di mezz’ora più tardi si passa alla seconda inquadratura. La giornata parte in quarta.
I piatti preparati per la scena del pranzo infetidano ormai la veranda: come si ferma il motore dell’Arriflex 35 BL-III, Peter O’Toole e Wu Tao si affrettano a sputare puntualmente i cibi che hanno appena portato alla bocca con gusto davanti all’obiettivo. Il brodo di tartaruga, in particolare, nausea a dieci metri di distanza. Tanto per rinfrescarsi le idee, l’attore inglese approfitta del fatto che sta replicando fuori campo a Pu Yi per tenere la sigaretta tra due bastoncini di avorio, quando non si diverte ad abbozzare, nella sua vestaglia di seta bianca, un’azzeccata imitazione del protagonista di Rocky.
Dopodiché, era previsto che, a colazione finita, il topo bianco dell’imperatore – il suo compagno segreto – sbucasse dalla sua borsa, in eco alla scena della scuola filmata tre giorni fa. Il caso vuole che, alla quinta ripresa, il piccolo animale continui a salire lungo il braccio del padrone, poi sulla spalla, per fermarsi infine sotto l’orecchio. Nutriti applausi per “Topolino”, ovviamente poco propenso a ripetere un exploit del genere.
Il pomeriggio è dedicato invece all’inquadratura probabilmente più elaborata dell’intera settimana. Per evitare di sciupare la veste di seta gialla tagliata su misura per Wu Tao, Serena sostituisce ben volentieri l’attore sotto il mirino del regista, mentre la “famiglia” Storaro si affaccenda a montare il binario e a sistemare l’illuminazione. Pu Yi nota un insolito vocìo proveniente dalla “città dei suoni” che sta oltre le mura della sua gabbia dorata. Improvvisa apertura dello spazio : una carrellata lunga quindici metri segue l’imperatore dalla veranda sin nel mezzo del cortile… Come egli si inginocchia, l’orecchio premuto al pavimento, la macchina fissata sul dolly lo scavalca a volo radente. Viraggio di 180 gradi abbracciando il cielo al di sopra dei tetti di tegole color grano maturo, e ritorno dall’alto su Johnston, che esce a sua volta dalla penombra della veranda per raggiungere Pu Yi nell’accecante luce meridiana e informarlo della manifestazione nella quale si è imbattuto in macchina la stessa mattina. Legittimo motivo del furore degli studenti : la cessione ai giapponesi, in virtù del Trattato di Versailles, dei territori del Nord precedentemente occupati dai tedeschi.
L’inquadratura dura più di tre minuti. Sembra che ogni mossa dei personaggi, ogni svolta della cinepresa siano stati sognati da Bernardo durante la scorsa notte. Certi deliri freudiani trovano subito spazio tra i presenti, e un quarantenne teenager dai fitti capelli d’argento non manca di sottolineare come l’adolescente sembra offrire il fondoschiena al torbido maestro, prima di lasciarsi sedurre dalla mdp! Comunque, l’inginocchiarsi per ascoltare la terra che parla sta molto a cuore al regista : torna in Novecento, e si sovrappone qui alla triplice prosternazione del “koutou”, assai ricorrente ne L’ultimo imperatore. Ma non ricorda per primo lo spettacolo di quei bambini parmensi che, la domenica di Pasqua, dopo aver baciato tre volte il suolo, porgevano l’orecchio a terra al modo dei pellerossa per sentire vibrare sotto terra tutte le campane della Bassa slegate in contemporanea? La poesia, è stato detto, consiste tra l’altro nella ricerca di certe segrete immagini sepolte in fondo alla memoria. Così, nel presente, il poeta non farebbe che riprodurre in altra forma le emozioni più intime dell’infanzia.
Orario ridotto del sabato. Ultimo cut alle ore 16, mentre gonfie nuvole si profilano all’orizzonte. Secondo l’ordine del giorno distribuito al volo da Manuela, bisogna che il sole sia all’appuntamento lunedì per terminare la scena 67. Quasi impallidiscono a veduta d’occhio le mani dell’ansiosissimo “padrino” Mario Cotone, cui incombe la gestione di tutta la lavorazione. Bernardo non l’ha ancora avvertito che ha appena deciso di fare a meno invece della scena 68, dove Johnston scorgeva un branco di eunuchi accovacciati in un cortiletto di servizio, mangiando con inquietante voracità gli avanzi del pranzo di Pu Yi. Un mese esattamente dopo il primo giro di manovella, tra alti e bassi, veglia e sonno, anticipi e ritardi, L’ultimo imperatore perde e ritrova giorno dopo giorno il battito del proprio cuore.

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Per l’Appendice. Dal diario di lavorazione de L’ultimo imperatore, vedi: Fabien S. Gerard, Ombres jaunes, Journal de Tournage “Le dernier empereur” de Bernardo Bertolucci, Editions Cahiers du Cinéma, octobre 1987.