Un ricordo di Leonida Rèpaci, anima del “Viareggio”, a 30 anni dalla morte

Fu molto ricca l’edizione 1957 del “Premio Viareggio”, capitanato da Leonida Rèpaci, che lo aveva fondato nel 1929 e, nel dopoguerra, ne fu l’anima battagliera per decenni, fino alla morte avvenuta il 19 luglio 1985. 
Per ciascuna sezione del Premio 1957 vennero premiati infatti ben tre autori, sia pure ex aequo: per la narrativa, Italo Calvino condivise la gloria con Natalia Ginzburg e Arturo Tofanelli; per la poesia, la spuntarono invece Sandro Penna, Alberto Mondadori e Pier Paolo Pasolini con le sue Ceneri di Gramsci. In quella occasione Pasolini superò  gli ostacoli che invece erano stati insormontabili per il “Viareggio” del 1955, quando al suo Ragazzi di vita venne preferito Metello di Vasco Pratolini. Ostacoli che si ripresentarono anche nel 1959 quando invece del romanzo pasoliniano Una vita violenta furono  premiate Tutte le novelle di Marino Moretti. A nulla era servito allora  il ritiro strategico di Alberto Moravia, che era dato per favorito con i suoi Nuovi racconti romani e che con quella rinuncia aveva voluto agevolare l’amico Pier Paolo. La giuria si divise accanitamente tra i pasoliniani (Ungaretti, Debenedetti, Antonicelli, Paone, Gallo, Sbrana) e gli antipasoliniani (Colantuoni, Titta Rosa, Schiaffini, Ravegnani, Jahier, Flora e Conti), mentre Rèpaci, grande sostenitore di Moretti, tentò invano la mediazione di un premio ex aequo.
Bocciato in agosto a quel “Viareggio”, Pasolini si rifece qualche mese dopo con la vittoria al Premio “Crotone”, in cui Rèpaci, membro della giuria insieme a Bassani, Gadda, Moravia, Sansone, Ungaretti, Rosario Villari, Debenedetti e Cantoni, riuscì a ricucire lo strappo con Pasolini. Il quale, non per nulla, entrò nel 1960 a far parte della giuria viareggina, restandovi fino al 1963.
Sono le splendide storie, con retroscena,  della vitalissima Italia letteraria degli anni Cinquanta-Sessanta, di cui si può ricostruire il fertile e arroventato dibattito dei primi anni con il libro di Aldo Santini  Breve, curiosa, avventurosa storia del Premio Viareggio (Il Cavalluccio Marino, Viareggio 1961). Storie che giustificano anche il ricordo del vulcanico animatore del Premio, Leonida Rèpaci, di cui ricorrono nel 2015 i trent’anni dalla morte.
Di Rèpaci, calabrese (nacque a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, il 5 aprile 1898) ma legato a filo doppio a Viareggio e al Premio, traccia di recente un ritratto Adolfo Lippi, che ne fu segretario per alcuni anni.

Pasolini e Rèpaci all'Hotel Excelsior di Viareggio ( Archivio fotografico "l'Unità")
Pasolini e Rèpaci all’Hotel Excelsior di Viareggio ( Archivio fotografico “l’Unità”)

Quando Rèpaci fece a pugni con Moravia e Pasolini.
Un ricordo del  “Viareggio” e del suo fondatore a 30 anni dalla sua scomparsa
di Adolfo Lippi

 www.iltirreno.gelocal.it –  9 agosto 2015

Ricorre il 30° della morte di Leonida Rèpaci, poeta, drammaturgo, scrittore, notissimo per aver fondato nel 1929 il “Premio Letterario Viareggio”, nella bella città della Versilia dove,a Marina di Pietrasanta, morì. Viareggio era stata per lui la sua seconda patria, seconda all’amatissima Calabria, in specie Palmi dove egli visse la prima tempestosa parte della propria vita e dove edificò una magnifica villa, “La Pietrosa”, dove anch’io ebbi a passare qualche vacanza.
Rèpaci è un nome alto della letteratura italiana. Il suo romanzo più noto è I fratelli Rupe [Premio Bagutta nel 1933, ndr.], storia di una dinastia socialista, antifascista, che traversò l’intero Novecento. Ma di Leonida Rèpaci, giornalista da sempre, si devono anche ricordare la direzione di “Epoca”, del romano “Il Tempo” , nonché centinaia di articoli di critica teatrale che lo videro firmare su “l’Unità”, “L’Avanti”, “L’Illustrazione italiana”, “Paese sera”. Interessanti nel suo Taccuino segreto (Fazi ed., 1967) sono le rievocazioni del suo soggiorno viareggino, da quando venne al seguito dalla moglie Albertina, proprietaria dell’hotel “Margherita” in piazza Puccini, alle vicende del dopoguerra coi “roventi” premi, quando “il Viareggio”, che il regime fascista gli aveva tolto, gli venne riconsegnato.
Rèpaci aveva fondato il Premio sotto l’ombrellone dello stabilimento Lidino dei fratelli Barsanti al Marco Polo. Erano con lui due altri noti intellettuali, Salsa e Colantuoni; soprattutto, però, furono con lui, sostenitori efficaci, Lorenzo Viani, il poeta Elpidio Jenco (che sarebbe divenuto preside alle scuole medie), Moses Levy, l’attore Leopoldo Fregoli, lo scrittore Enrico Pea. Tutti si tassarono per dotare il Premio di una “borsa”, per far uscire un indimenticabile numero unico, per mandare in porto una riuscitissima festa da ballo dove convennero, elegantissime, le più belle dame della Versilia.
Oltre a Pirandello, Petrolini, Zacconi. Scrive Rèpaci: «Ci fu da batter la spiaggia col rotolo dei giornali sotto il braccio e i blocchetti dei biglietti in tasca da vendere a gente che non sapeva neppure il nostro nome, che di libri ne masticava pochissimo, che di premi letterari non ne aveva sentito parlare». Rèpaci diresse il “Viareggio” per quattro anni. Poi duellò con Ciano, lui socialista che aveva scritto per “Ordine nuovo”di Gramsci, e la presidenza gli fu tolta. Fu esiliato, fu spiato, venne al “Margherita” in vacanza, ma restò lontano, per parecchi anni, dalla sua creatura. Dopo la guerra, già nel 1946, Rèpaci, ora di nuovo socialista attivo con Nenni, poi con Saragat, poi vicino ai comunisti (fece parte del Congresso degli Intellettuali voluto da Stalin in Varsavia), infine libertario, tornò Presidente. E nella prima edizione premiò con Umberto Saba, poeta raffinato, esemplare, il viareggino Silvio Micheli autore di Pane duro. Questo ex aequo gli costò polemiche accesissime. La destra lo accusò d’essersi piegato al Pci. Ma lui resistette ben coadiuvato da un segretario di ferro, Leone Sbrana, scrittore impegnato e fedele militante. E poi attorno a Rèpaci vi era una fitta rete di “compagni di viaggio” straviareggini. Scrive Rèpaci: «Le autorità locali, il sindaco, il presidente dell’Azienda Autonoma, la Società di Cultura, non hanno simpatia per noi. Ci considerano foresti venuti qui a mieter allori». Così il “Viareggio” resistette con gli amici di sempre. Aggiunge Rèpaci: “Falciato dalla morte Viani, esule a Londra Parenti, ritiratosi a Firenze Conti, forastico Mario Marcucci, occasionale e malinconico Moses Levy, fuori giro Santini, Pardini, Catarsini, mi restano Jenco, Pea, Giancarlo Fusco, Delfini, Onorato, Bonetti, una bella compagnia che il Viareggio ha sempre avuto intorno».
Nel 1946, il “Margherita”, come altri alberghi, è occupato dagli americani. Dice Rèpaci: “Non posso alloggiare al Margherita …è la quarta occupazione. Prima l’albergo fu requisito dalla marina tedesca che aveva una base per sommergibili a La Spezia e mandava qui a riposo i suoi ufficiali. Successero gli sfollati che trasformarono l’albergo in un’arnia piena di cacatine di topo. Vennero terzi i neri americani ch’erano soliti scaldarsi facendo falò nel giardino di porte, finestre, scuri, tavoli, armadi, cassettoni, sedie, mentre vendevano al mercato nero la legna che forniva loro il comando».
Ma il Premio, nonostante le traversie, si “alleonò”. E l’anno dopo, nel ‘47, a giuria unanime, lo vinse Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci con una giuria dove comparivano, tra gli altri, i “lumi” della cultura nazionale, da Concetto Marchesi a Manara Valgimigli, da Massimo Bontempelli a Giacomo Debenedetti, Leonello Fiumi, Alberto Moravia. Intanto Rèpaci, aitante e saetta vulcanica, come al solito, girava per la “Settimana Incom”, mentre entrava in onda, con una bella straniera alla quale aveva misurato, sfacciatamente, le prosperose curve del seno. Così nacque la leggenda dell’ultimo Rèpaci, il Casanova dei bagni. E’ il Rèpaci che ho conosciuto da vicino. Per cinque anni sono stato un suo “compagno di viaggio” (me lo scrive in un autografo). E sono stati gli anni delle sue ultime spericolate avventure: venne a pugni con Moravia e Pasolini sotto lo scalone del Royal (ero presente) perché loro volevano premiare Antonio Delfini (istigati da Cesare Garboli) e lui voleva premiare Piovene; cacciò Sbrana dalla segreteria. Si lasciò cullare da Rizzoli e mise in giuria i letterati di “famiglia”, da Porzio a Spagnoletti a Michele Prisco (il premio andò a Giuseppe Berto), bilanciandoli con una sinistra tipo Guttuso e Zavattini. Restando dentro poeti come Eugenio Montale e Ungaretti.
Insomma, prima che giungesse Gabriella Sobrino, nuova segretaria, io feci a Rèpaci da assistente. Volle che lo conducessi a “La Bussola”, facemmo gite e scorpacciate di cocomero al ghiaccio. Andammo ospiti alle feste di villa Mondadori a Camaiore. E Rèpaci apparve anche ne La dolce vita di Federico Fellini come l’intellettuale principe dei salotti romani. L’ultima fase della sua vicenda viareggina e della sua vita fu l’accordo con il comune, sindaco Federico Gemignani (Dc). Lo procurò il dottor Gianfranco Tamagnini che a Rèpaci, ormai ammalato, s’era fatto amico devoto. Così il “Viareggio” tornò ai finanziamenti pubblici.
Ma fu comunque un’eredità malgestita. Che poco aveva a che fare con il carattere, il puntiglio, la smania di successo e protagonismo, l’ambizione di questo grandissimo operatore culturale calabrese (romano e milanese) che, amando Viareggio, la fece appartenere alla sua intensissima vita spericolata e produttiva di opere.

[idea]Info[/idea]
Per notizie  e approfondimenti ulteriori
www.premioletterarioviareggiorepaci.it