Un fantasma ridotto a «logo», di Franco Cordelli

Un fantasma ridotto a «logo», di Franco Cordelli

Dall’archivio storico del “Corriere della Sera” – 11 novembre 2005

Un fantasma sfuggente ridotto a merce. Ma siamo tutti figli, e nipoti, della sua opera, che non dà scampo per i suoi difetti.

In verità, io credo, il meglio di Pasolini è questo: egli non dà scampo proprio a causa dei suoi difetti, proprio perché lo ammiriamo, o perché diciamo di ammirarlo essendo a lui così simili (siamo figli e nipoti suoi) e ne siamo in realtà così lontani, non abbiamo un centesimo dell’energia che egli aveva e ci vantiamo di impugnarne il vessillo, che senza pudore sventoliamo in faccia a chi non ne faccia uso, con discrezione, con modestia, allontanandosene, in punta di piedi.
Nell’ultimo e forse più poderoso, più importante contributo, tra i mille, tra i troppi, su Pasolini si legge questa frase, ovvero questo giudizio:

Poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore incapace della grandezza espressionistica di un Volponi e dell’abilità di costui nel governare e dare forma compiuta sulla pagina al tumulto della scrittura e al disordine del mondo; saggista istintivo e ossessivo, e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione (troppo spesso prossima a un’invisibilità o a un immiserimento del senso) di un Calvino; scrittore incompiuto, Pasolini è ciononostante, o forse proprio per questo, l’autore più emblematico della sua generazione.
Perché le sue scelte espressive e i suoi ripensamenti, i suoi stessi errori, sono quelli di chi nasce e si forma in una civiltà (l’Italia sotto il fascismo), si afferma come scrittore in un’altra (l’Italia di una modernizzazione improvvisa e imperfetta), muore in una terza (l’Italia postmoderna del neocapitalismo), e perché più di altri autori egli crede di dover adeguare la propria opera a questi passaggi epocali, così rendendola precaria e incapace di classicità in quanto pienamente comprensibile solo se messa in relazione a un preciso contesto storico e culturale.

Mi si perdoni la lunga citazione, tratta da Sull’opera mancata di Pasolini, un libro pubblicato da Carocci, e di cui è autore il trentenne Antonio Tricomi: egli stesso dichiara d’ esser nato nell’anno della morte di Pasolini. La tesi di Tricomi mi pare chiara e indiscutibile. Ma è una tesi drammatica. Essa dice che tra breve l’opera di Pasolini sarà incomprensibile. È un miracolo che ancora oggi lo sia, la si legga, la si discuta. È cioè un miracolo che dal 1975 ad oggi l’Italia o il mondo siano cambiati così poco che si possa citare Pasolini come, in un qualche modo, esemplare. Ma è una tesi ancora più drammatica se si riflette su un punto: per Tricomi l’opera di Pasolini è la più «emblematica della sua generazione»: il che, in fondo, coinvolge un mondo espressivo più ampio di quello scaturito dall’opera di un solo autore. Ma nel merito di questa parte della tesi di Tricomi non voglio entrare.
Ciò che oggi ci interessa è: perché Pasolini, in modo tambureggiante, ossessivo? Perché continuiamo a discutere, o rievocare un autore la cui opera sappiamo «mancata» e forse, in parte o tutta, destinata all’oblio, all’incomprensibilità? O, detto in altri termini, che cosa davvero resta di Pasolini? Non già, dunque, che cosa resterà, questo non lo possiamo dire, se già supponiamo che non ne resterà l’ essenziale; ma proprio che cosa resta in questo momento, se nei nostri anni non si fa altro che evocare il fantasma suo, e dico fantasma non a caso, dico fantasma poiché penso al suo nome, alla sua presenza-assenza, alla vita che fu, alle testimonianze che ne restano; dico fantasma in quanto entità contrapposta a ciò che di reale, di materiale, di non leggendario dovrebbe sussistere di un autore: la sua opera. Non l’ opera di Pasolini viene evocata, chiamata in causa, letta e discussa (studiosi a parte); ma l’ alone che la circonda: lì passò Pasolini, Pasolini disse, Pasolini fece, Laura Betti diceva, Moravia scriveva, Enzo Siciliano ha detto, i fratelli Citti ne sono testimoni ecc.
Ciò che davvero resta, così sembra, è che questo alone, appunto il suo fantasma, il fantasma di Pasolini. Esso appare sugli spalti di quel castello che è la nostra Danimarca, ci ammonisce con il suo esempio, buono o cattivo che lo si reputi. Ma poiché i figli e i nipoti di tanto ammonitore, per quanto di sé dubitosi, o addirittura amletici, Amleto non sono, essi non sembrano affatto disponibili al gesto risolutivo, ecco che questo già antico fantasma, benché sfuggente, intoccabile, inverificabile, inverificato, non più neppure sfiorato (con le mani, con gli occhi), o proprio per tutte queste ragioni, come ogni altra porzione di realtà, viene ridotto a merce. Altro non è Pasolini che una merce, vale a dire una marca, un logo. È l’ indice di ciò che promette l’ immortalità anche se la propria opera è imperfetta. È la garanzia che una buona (o cattiva) vita, purché vissuta non già al cinque per cento (come Montale, per citare un anti-Pasolini), è ben più che ogni opera classica e quindi duratura. È il marchio di fabbrica con cui tutti i filistei del mondo si proteggono laddove nello stesso Pasolini scoprono, o pensano sarebbe possibile scoprire, come attesta un analista al di sopra della parti, il nostro Tricomi, che un movente cruciale è la convinzione di «dover adeguare la propria opera» ai passaggi epocali del proprio tempo, della propria vita.