Un episodio della vita di Pasolini, alle nozze della nipote Margherita (1975)

Nel maggio 1975, Pasolini insieme alla madre fu invitato a Perugia al matrimonio della nipote Margherita Mazzon, sposa di una antica famiglia aristocratica umbra. Il notaio Francesco Duranti, lui pure partecipe a quell’elegante cerimonia nuziale, rievoca nel libro di memorie Il Nastro Azzurro, edito nel 2000, quell’episodio poco noto e soprattutto si sofferma sullo spiazzante incontro con il poeta esecrato e “scandaloso” da cui tutto lo divideva. Ma al contrario Pasolini  sorprese il suo prevenuto commensale, lo disarmò e infine lo conquistò per la sensibilità spirituale, la vasta cultura e il tratto di una squisita dolcezza.
Il libro e l’episodio ci sono stati segnalati dalla stessa famiglia Mazzon, che ringraziamo. (af)

Francesco Duranti
Il Nastro Azzurro. Racconti a memoria
ed. Guerra, 2000, pp. 27-33

"Il Nastro Azzurro" di Francesco Duranti. Copertina
“Il Nastro Azzurro” di Francesco Duranti. Copertina

Un magico mattino domenicale di maggio, a Montefreddo, nei dintorni di Perugia. Il limpido paesaggio , nei simmetrici dislivelli, incorniciati da cipressi o da querce, nel silenzio mistico, sembra dover partorire una qualche misteriosa rivelazione.
Due ragazzi di Milano si sposavano e avevano scelto per la “festa” liturgica i dintorni di Perugia. Erano giovani di bellissime speranze, cattolici, praticanti attivi, convinti portatori di new age e di  progresso.
Lo sposo era figlio di una aristocratica di Perugia, che viveva a Milano. Il castello di famiglia, era ancora comune con i fratelli di essa. La sposa, semplicissima, senza fronzoli e “inutilità”, era nepote di Pier Paolo Pasolini.
La messa fu celebrata all’aperto, nello spiazzo di un giardino all’italiana del ‘600, da un gruppetto di giovani sacerdoti, amici degli sposi. Tutta in italiano, come la recente riforma liturgica permetteva: gli sposi avevano scelto la messa cosiddetta “dell’amore”, con l’epistola famosa di San Giovanni evangelista, che riflette una divina realtà.
Tutto fu bello, di una bellezza non consueta e ne restammo tutti commossi.
Gli invitati erano quasi tutti di Perugia, amici della famiglia materna dello sposo. Di Milano solo una ristretta cerchia della sposa: i parenti più prossimi e tra essi  una coppia singolare, di una somiglianza impressionante, piccoletti e modesti, nonostante l’audace cappello della signora, erano Pier Paolo Pasolini e sua madre.
Per il pranzo un tavolo centrale d’onore per una dozzina di persone, tavoli di quattro coperti ciascuno, tutt’intorno.
Pasolini e sua madre si trovavano un po’ isolati e la marchesa che aveva il compito di mettere tutti a loro agio e lo assolveva con una cura squisita, mi venne a dire: “faccia un tavolo insieme a sua moglie coi Pasolini” e passando all’azione li invitò a sedersi al tavolo  che era a me vicino, non senza le presentazioni di rito accompagnate da tanta signorile cordialità.
Non sarebbe stata la mia scelta, ma non potevo che obbedire.
Più che rammarico ebbi un attimo di paura: di me stesso; il timore cioè che la nostra conversazione, che si prospettava assai vivace, potesse degenerare.
Non avevo alcuna simpatia per Pasolini, avevo letto un suo libro  Ragazzi di vita, la sua scelta di campo politico in piena guerra fredda era per il partito della violenza, pur proclamandosi pacifista. Le cronache – non solo letterarie – parlavano di lui continuamente, sconfinando più volte nella cronaca nera. Mi trovavo all’opposto della sua posizione: a 360 gradi. Mi si presentava una valida occasione per prendermi qualche soddisfazione, che più che legittima mi pareva doverosa.
Ma non era garbato. Dopo quella bella funzione religiosa, la polemica personale era di cattivo gusto, oltreché inopportuna. “Et nos credidimus caritati”.
Intanto esaminavo le caratteristiche fisiognomiche dei miei commensali. Due strutture facciali identiche, salvo la vivacità dello sguardo, gli elementi componenti le due “maschere” tendevano più al brutto che al bello. Il loro comportamento interpersonale stare per dire che era di reciproca “adorazione”. Con tanta dolcezza, quasi affettata, si domandavano l’un l’altro se si trovavano bene, se sentivano fresco, se avessero bisogno di qualcosa e stava per cominciare un pranzo da signori …
Lo spettacolo poteva essere comico. Ma vedendo un Pasolini così disarmato, questo amore materno e filiale da manuale di un antico galateo, mise anche me in posizione di disarmo.
Mia moglie cominciò la conversazione. Ricordava la cerimonia religiosa: la bellezza della liturgia del matrimonio cristiano, la felice scelta della messa con le pagine di San Giovanni, concludendo che tutte le bellezze, i profondi significati del rituale, si erano potuti apprezzare grazie all’applicazione della riforma liturgica e l’adozione della messa in volgare, cioè con l’esclusione del latino.
I nostri commensali tacevano, ma ascoltavano mostrando interesse al discorso e palesemente compiaciuti.
Per me, che ero di parere contrario, la rinuncia al latino era stato un colossale errore: un colpo alla ecumenicità che la Chiesa stava per altro verso incoraggiando e la perdita di grandi e insostituibili valori culturali.
La polemica tra me e mia moglie aveva preso corpo: mia moglie era l’accettazione e la fedeltà della più pura ortodossia;  io, tutto il contrario, ero il conservatore non illuminato, che a difesa dei valori culturali ero quasi un ribelle di Santa Madre Chiesa.
“Quello che tu dici –dissi io- non è esatto. La scelta della messa cosiddetta dell’amore è stata sempre possibile, faceva parte del Messale Romano.
La messa in volgare non era affatto necessaria in una generazione che si sta allontanando dalle pratiche religiose e mostra sempre minor interesse alla liturgia. Tu devi ricordare che tutti noi avevamo il messalino domenicale, che, pur nel formato ridotto, portava il testo latino pronunciato dal sacerdote e a fianco la traduzione italiana. Chi aveva interesse non restava mai all’oscuro e la frase saliente: anche noi abbiamo creduto nell’amore era così tradotta e alla portata di chi non avesse compreso:  Et nos credidimus caritati”.
I nostri commensali sembravano quasi divertiti del nostro dibattito. E Pasolini alla mia ultima frase, in un sussulto che restava da interpretare, con molta vivacità mi disse: “Come ha detto? Lo ripeta per favore.”.
Non mi aspettavo l’uscita e fui immediatamente preso da un forte dubbio. Pasolini era anche un finissimo filologo: conosceva lingue e dialetti, aveva scritto poesie in dialetto friulano (che era il linguaggio di sua madre), aveva studiato e proposto fenomeni di plurilinguismo, vedeva nel contrasto tra lingua e dialetto la conferma di una lotta di classe tra borghesia e proletariato. Tutto questo, nel giro di qualche decina di secondi, martellava la mia mente. Perché dovevo ripetere la frase latina? Ma dovevo rispondere e temendo di averla prima sbagliata, lentamente pronunciai: “Et nos credidimus caritati”.
Allora Pasolini parve trasformarsi in un altro uomo. Aveva preso fuoco e mi disse:
“Ma lei non avverte la profonda differenza nella frase latina? C’è quasi un ritmo nuziale che scompare nella traduzione italiana”.
E giù di questo passo con una varietà di argomenti, fino a concludere che la perdita del latino della Chiesa era un “vulnus” alla cultura e alla bellezza.
Ne restai sorpreso e confuso. Mia moglie, fedelissima alla Chiesa  Materna, tentava qualche flebile argomento. Io mi sentivo dar ragione da chi non mi aspettavo: avevo vinto. Ma non era una grande consolazione, ero d’accordo con Pasolini nell’attacco alla Chiesa e ciò mi creava qualche perplessità, se certo non angosciosa, tuttavia sensibile.

Pasolini e Susanna Colussi
Pasolini e la madre Susanna Colussi. Foto Vittorio La Verde

Tuttavia il ghiaccio era rotto e tutti, meno la mamma di Pasolini, avevamo tanta voglia di parlare.
Pasolini, fatto un elogio alla bellezza di Perugia e al suo fascino, profondo e misterioso, mi disse che Perugia  aveva uno dei più grandi poeti viventi del nostro tempo.
Restai sorpreso e non ebbi la parola pronta per dirgli che avevo indovinato e che condividevo l’alta collocazione.
Cioè mi trovai in qualche imbarazzo.
Pasolini prontissimo mi disse: “Non c’è dubbio oggi i nostri maggiori poeti sono Eugenio Montale e Sandro Penna”.
Non ero e non sono un conoscitore della poesia contemporanea. Conoscevo e apprezzavo Montale, completamente oscuri mi erano di Sandro Penna non solo l’opera, ma addirittura anche il nome; e mentre Pasolini, profittando del mio silenzio, motivava la grandezza e la bellezza, nella novità dello stile, di Sandro Penna, io, nato a Perugia, cresciuto e vissuto sempre a Perugia, dove nei tempi passati tutti ci conoscevamo, andavo cercando un Penna sul quale potessi dire qualcosa.
Un piccolo processo mentale, rapidissimo e silenzioso: la famiglia Penna aveva un negozio a Perugia in via Mazzini, centralissimo. Era l’unico negozio di Perugia che vendeva soltanto giocattoli e ne aveva di bellissimi. Le memorie felici della mia fanciullezza mi tornarono subito alla mente: i Penna non esistevano più, era gente strana, vissuta sempre e solo nell’ambito del negozio, senza una cerchia di amicizie come è facile in una città di provincia; avevano un figlio, molto più grande di me, che preso il diploma di ragioniere, andò a lavorare a Roma. Avevo sentito vagamente parlare di questo “esule”  un po’ strano e forse dedito alla filosofia, che operava in Roma. Doveva essere quello il poeta che mancava alla mia conoscenza. Ed era grave.
Dopo l’incontro con Pasolini cercai tra i miei libri qualche informazione su Sandro Penna e vidi che questi si trovava nell’Olimpo dei poeti, anche se non nella posizione presunta e definita da Pasolini. Questi si era occupato del Penna fin dal 1950 (in un saggio ripubblicato dall’editore Garzanti nel volume Il portico della morte, 1988). Per Pasolini, Penna era la scoperta di un “dolce stil novo”, e la profezie di un nuovo grande poeta:

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.

Il pranzo di nozze era finito con gli sposi che avevano distribuito i confetti ricordo.
Ci alzammo per salutarci. Ciascuno di noi tornava al proprio mondo, alla propria vita di ogni giorno. Ma tra noi c’era quasi un patto di amicizia, che peraltro non ebbe alcun seguito.
Ma l’esecrato Pasolini, il fiero polemista, era nel tratto e nel comportamento  accattivante e quasi di grande dolcezza. Ne restavo sorpreso anche se non conquistato. Glielo lasciai immaginare congedandomi da lui con l’aforisma di un Santo del XVI secolo, ma moderno nel pensiero, Francesco di Sales: «Tutto conoscere per tutto amare».

[info_box title=”Francesco Duranti” image=”” animate=””]nato a Perugia, laureato in legge, affermato  notaio prima a Chianciano e poi nella città natale, si è occupato del cattolicesimo liberale, in particolare del Risorgimento. Impegnato in vari incarichi pubblici, legati alla sua professione cui ha dedicato anche molti studi giuridici, è stato anche bibliotecario dell’Università per Stranieri. Ha consegnato inoltre  la testimonianza della sua vita a vari libri autobiografici in cui, a futura memoria, ha rievocato con penna affabile vicende, situazioni e personaggi. [/info_box]