Susanna Mater dolorosa. Un ritratto di Cesare Catà

Sull’eco della poesia Supplica a mia madre di Pasolini, Cesare Catà disegna uno struggente ritratto di Susanna Colussi, immaginandone l’abisso di dolore pochi giorni dopo la morte del figlio amatissimo.

Susanna e Pier Paolo
di Cesare Catà

www.huffingtonpost.it – 11 novembre 2015

Secondo alcuni racconti proibiti, quando l’Arcangelo si parò di fronte alla Vergine per portarle la notizia inaudita, alle spalle della giovane Maria si materializzò un’immensa croce nera. Si fosse voltata un istante, la ragazza di Nazaret l’avrebbe visto quel segno del male lacerante che il miracolo dell’Incarnazione si portava dentro. Ma Maria non ha bisogno di voltarsi; percepisce chiaramente, dentro la luce sfavillante della voce di Gabriele, l’abisso agghiacciante della Croce. Lei presente in sé, inestricabile dalla vita, la morte del suo amore. Piena di grazia, Maria chiuse allora gli occhi chiari e, dicono le narrazioni apocrife, lacrime calde come sangue le bagnarono le guance. Rimaneva sola e muta, cercando invano, con lo sguardo, orme angeliche lasciate nel silenzio; ma l’Arcangelo ormai se n’era andato. Tutto taceva.
In un identico tacere sconfinato, una mattina, qualche minuto prima delle otto, ticchettii di macchina da scrivere, dolci come voci di grillo, rimbalzano negli orecchi di Susanna Colussi, vedova Pasolini. Non mangia quasi niente da quattro giorni. I libri ammonticchiati sul tavolo, l’andirivieni degli amici, le stanze non spolverate dell’appartamento, il frastuono di Roma, le voci: per lei, ora, tutto è niente, ombre di fantasmi. E nella mente le si rimestano i ricordi. Improvvisamente, nel mattino nuvoloso del 6 di novembre del 1975, lei non è più la vedova friulana, né la maestra traslocata a Roma; non più la donna a cui hanno massacrato Pier Paolo: non più la madre che per la seconda volta, dopo l’uccisione del secondogenito Guido, pativa il dolore terrificante di vedere assassinato un figlio.
Ora, digiuna, afasica, smunta come un’alba di città, nella sua mente lei ritorna bambina: è solo Susanna, cui la nonna, nell’ultimo mese dell’Ottocento, porge dei giocattoli, sorridendo, prendendoli da un baule di legno. Per anni, nel chiuso della sua stanza, Susanna ha scritto la storia della propria famiglia, con precisa leggerezza narrativa, dai tempi di Napoleone sino alla Prima Guerra Mondiale, nei giorni in cui lei ragazza incontrava il futuro marito, Carlo Alberto Pasolini, ufficiale di fanteria del Regio esercito.

Susanna Colussi e Pasolini
Susanna Colussi e Pasolini – © Vittorio La Verde

Da giovane, Susanna scriveva nel pomeriggio, di ritorno da scuola. Poi, a Roma, dove si era trasferita con Pier Paolo, scriveva di mattina, la porta della sua stanza dischiusa per sentire, quasi palpitasse tra le mura, il respiro di suo figlio, tra i ticchettii della macchina da scrivere, segno della sua presenza. Un suono lieve, capace di placare il clamore sudicio del traffico romano, di quella città dove lei ha seguito Pier Paolo nel 1950, dopo che a casa loro, a Casarsa, l’avevano accusato e denunciato perché corruttore di giovani, immorale. Perché omosessuale. Susanna, a Roma, sente forte dentro il cuore la nostalgia della campagna pordenonese, della gente semplice che vive sulla sponda del Lemene. Ma assolutamente più forte è la volontà di rimanere accanto a quel figlio ostracizzato. Lo vede uscire, ogni sera, al tramonto; e Roma, come la bocca buia di un mostro, lo inghiotte. Spesso, Susanna resta a letto insonne, finché non lo sente rincasare. Perché a volte il giorno dopo lo scopre ferito – sul corpo, nell’anima, sul viso.
Lei non sa cosa vi sia là, nel buio romano che ogni notte le fagocita Pier Paolo. Lui non ha parole di figlio per dirglielo. Lui, che negli occhi di lei vede la forma buona di un mondo perduto, che il male ha corrotto. E allora ogni sera esce, redentore inconscio e perverso delle storture dell’universo, e va a sfidare lo squallore, lo schifo, la pena delle borgate della Capitale, cercando amore come uno sparviero in mezzo ai ratti.
Perché più Pier Paolo si immerge nella violenza, più sente di restituire il mondo alla sua purezza: di farlo somigliare al volto e al cuore carissimi, accoglienti di Susanna; più discende laggiù, a farsi male, più sfida suo padre, il militare. Che non ha mai saputo amare sua madre.
Il mondo che Pier Paolo Pasolini bramava, e che sapeva irrimediabilmente scomparso, è il mondo che somiglia alla carezza che Susanna gli fa sulla nuca, ogni mattina, mentre lui compone seduto alla scrivania: un’Italia accordata al tempo della natura, prima che lo sviluppo tecnocratico-borghese stuprasse l’incedere ingenuo delle cose. Pasolini scrive. E, mentre scrive, prima e più di uno scrittore è un insegnante, un pedagogo. Quando arriva a Roma disoccupato e senza un soldo, tanto quando è uno dei cineasti più celebrati al mondo, Pier Paolo Pasolini, il poeta, il polemista, il traduttore, il regista, il romanziere, resta sempre un insegnate – e la lezione che porta ai suoi studenti, che sono l’insieme dei suoi lettori e del suo pubblico, è una lezione durissima. Profetica in modo terrificante, come le parole di Cassandra in una tragedia antica. Nella sua complessità, tra gli apici e i tonfi, le genialità e i torti che costellano ogni suo tratto, l’opera di Pasolini è uno strillo, entusiasta e disperato, di una creatura che si ribella al suo stato. Stato italiano: l’Italietta corrotta nell’essenza, prigione subdola per i suoi figli; e stato esistenziale: la contraddizione insopportabile di dover e non poter amare.

Pasolini e Susanna Colussi
Pasolini e Susanna Colussi – © Vittorio La Verde

Nella sua faccia, nella sua magrezza, Pasolini ha i tratti rimbauldiani del poeta-guerriero. Del cavaliere che si porta dietro una missione assoluta, basata su un codice d’onore segreto. In cuor suo, nella parte più profonda di sé, lui crede che il mondo che lo celebra e lo perseguita, in ultima analisi, non lo comprenda; Pasolini sente che a comprenderlo è solo lei, Susanna. Lei che sa, del suo cuore, ciò che è stato sempre, prima di ogni amore. Se Pier Paolo è lontano, e la sua ulcera gli causa dolori, anche Susanna, a casa, sente una fitta nel ventre; e a lui viene mal di testa, se lei ha l’emicrania. Telepatici, quasi fossero una creatura sola. Quasi Pier Paolo non potesse essere mai davvero con qualcun altro, perché sempre con lei. Lui, il poeta solo contro il mondo, è solo perché con lei. Per questo, è dentro la grazia di Susanna che nasce la sua angoscia. E lei, piena di grazia, è ricolma d’ansia, quando di notte esce dalla stanza, entra nel salone dell’appartamento e apre la finestra e guarda fuori: e vede l’oscurità zannuta della grassa e violenta notte romana; e Pier Paolo, perso in essa, a gridare, come di giorno fa con i versi e il coraggio delle idee, il bisogno di amore che deve cercare in corpi senz’anima. Perché l’anima è in lei; in lei alla finestra, in ansia, che lo aspetta. Nel 1964, diventato ormai il nome più celebre e dirompente, scomodo e originale della cultura italiana, Pier Paolo Pasolini affida a Susanna Colussi il ruolo della Vergine Maria nella sua rilettura cinematografica del Vangelo di Matteo. E lo sguardo di Susanna, nelle inquadrature mantegnesche e caravaggesche che riescono al regista nella scena della crocifissione, è quello che lei ha ogni sera, in attesa alla finestra. Quando lui è uscito, e la notte di Roma ulula.
Anche la sera tra il primo e il secondo giorno di novembre del 1975 Susanna attende alla finestra. Attorno alle 2 del mattino, ha avuto una sensazione orrenda, e un brivido gelato le ha percorso la schiena. All’alba troveranno il corpo morto di Pier Paolo Pasolini lasciato come spazzatura in un angolo dell’Idroscalo a Ostia, tra gli orinatoi a cielo aperto di una baraccopoli. Un branco di quei mostri che Susanna sentiva risuonare nella notte romana, e che lui scelleratamente bazzicava, aveva ammazzato il poeta. Lo ritroveranno con la cassa toracica spaccata, il volto tumefatto, il corpo martoriato in più parti, il sangue sparso come un intruglio nauseante nel terriccio sudicio.
Passano tre giorni, Susanna attende ai piedi della croce. Ma lui non risorge. Allora la lucidità le abbandona la mente. Lacrime calde come sangue le scendono sulle guance. Il mattino del 6 novembre è sicura di sentire ancora, nella stanza adiacente, la macchina da scrivere ticchettare ripetutamente. Raggiunge il salone. Sulla sedia vuota davanti alla scrivania di Pier Paolo, rotea la mano nel vuoto, convinta di carezzare la nuca del figlio. “Ti supplico” – gli sussurra in un orecchio – “Ah, ti supplico: non voler morire. Resta qui, con me, ancora, in un futuro aprile”.

 [info_box title=”Cesare Catà” image=”” animate=””]è nato a Fermo, nelle Marche, nel 1981. Dottore di Ricerca in Filosofia dal 2008, è professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata. Ha collaborato con vari centri di ricerca a livello internazionale, tra cui la University of Hawai’i a Honolulu (USA), dove è stato Visiting Scholar; il Cusanus Institut di Trier (Germania), in qualità di Gastforscher; l’EPHE di Paris (Francia), dove ha portato avanti un progetto di post-dottorato sul tema della città ideale nel Neoplatonismo; e l’Istituto Italiano di Cultura di Dublin (Irlanda), dove nel 2013 ha curato seminari e workshop su temi di letteratura comparata. Ha pubblicato saggi e articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali. I suoi principali ambiti di ricerca sono legati alla cultura del Rinascimento in relazione all’epoca contemporanea (l’idea di uomo tra arte e letteratura); alla filosofia neoplatonica (per la tradizione che va da Eriugena, a Eckhart, a Nicola Cusano, Marsilio Ficino e Charles de Bovelles, sino alla moderna psicanalisi di Carl Gustav Jung); al teatro di William Shakespeare; e alla letteratura anglo-irlandese (ha scritto su Jane Austen, William Butler Yeats, Dylan Thomas, Lady Augusta Gregory, Virginia Woolf). Si è occupato di Fiabe e Mitologia nel volume Filosofia del Fantastico (Il Cerchio, Rimini), nel quale si indaga il concetto filosofico di fantasia, attraverso uno studio comparativo delle leggende dei Monti Sibillini, delle fiabe irlandesi e dell’opera di Tolkien. Direttore del Teatro di Porto San Giorgio dal 2010 al 2013, è autore di numerose riduzioni sceniche di testi letterari e di lavori drammaturgici in lingua italiana e in vernacolo marchigiano più volte rappresentati. Collabora regolarmente con vari giornali e webzine su temi relativi al teatro, al cinema, e alla cultura tradizionale marchigiana. Ha lavorato come copywriter e responsabile della Corporate Communication per aziende del territorio. Ha curato e tradotto testi dal latino, dall’inglese e dal francese per varie case editrici.[/info_box]

*Foto in copertina: © Vittorio La Verde