Due contributi su “Teorema”

Teorema e la classe borghese

di Gherardo Fabretti

Teorema delinea la radiografia singolare e impietosa di una classe borghese incapace di reggere lo scontro con le rivoluzionarie e trasgressive tematiche dell’erotismo, visto in chiave contestataria, ed elevato a segno distintivo del cambiamento sociale.
Milano, primavera del ‘68. Una famiglia borghese riceve un ospite inatteso. Il suo arrivo condizionerà progressivamente la vita dei cinque componenti – marito, moglie, un figlio maschio, una figlia femmina e la serva – avvolti dal grigiore esistenziale del loro sopravvivere. L’Ospite avrà rapporti sessuali con ognuno di loro e un giorno se ne andrà, lasciando un vuoto non più colmabile che sfocerà in un progressivo atto d’auto-annientamento degli stessi.
Per Teorema, presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, piovvero su Pasolini critiche feroci sia da parte della sinistra, che sostenne che si trattava di un film reazionario, oltre ad accusare Pasolini di misticismo, sia dalla destra, che proclamò il suo disgusto per il modo in cui nel film si affrontava il tema della sessualità. La verità era che né la destra né la sinistra compresero allora, neppure marginalmente, gli intenti dell’autore: rappresentare la totale e irrimediabile perdita di identità della borghesia nel momento in cui essa si avvia – dopo essere entrata in contatto con un “Altro”, del tutto estraneo alle certezze prefabbricate, indelebili e indistruttibili dalla “ragione dominante” – a una presa di coscienza che non può che svelare drammaticamente il “vuoto”, l’impotenza, la “non esistenza” che costituiscono l’essenza stessa della borghesia.
Una perdita d’identità, d’altronde, che non offre alla borghesia alcun motivo di riscatto, ma che le crea intorno soltanto il “deserto”, il nulla. «Lo sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che irrazionalista, tutt’altro che reazionario o mistico – scrive il Serafino Murri – Infatti, va a toccare le basi concettuali di una cultura che del proprio mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente, con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi antagonismi tutti interni ad essa.»
Teorema era nato come tragedia in versi, si era trasformato poi in un libro (romanzo / racconto) molto frammentario che mantiene alcuni capitoli, o meglio “frammenti” in versi, per raggiungere infine la forma della sceneggiatura cinematografica nella quale Pasolini riduce drasticamente la presenza del “parlato”, cioè dei dialoghi o della narrazione per mezzo di una voce fuori campo, riservando principalmente alle immagini, e secondariamente alla musica – qui incentrata su citazioni dal Requiem di Mozart – la narrazione degli eventi e delle mutazioni dei propri personaggi.
L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto intravvedere. È semplicemente il suo essere “Altro” rispetto alla logica borghese su cui si fonda il teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabile “deserto” che ne consegue.
Secondo lo stesso Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione. Pasolini presentò Teorema sulla rivista francese «Quinzaine littéraire» dicendo del suo film tra l’altro: “Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.
Teorema (il libro) è stato per me il ‘primo incontro’ con Pasolini scrittore e poeta: un incontro che ha rappresentato una vera e propria ‘scossa’ spirituale; un messaggio che ancora oggi considero prezioso, se non fondante, per prendere coscienza dei problemi e degli squilibri sociali e politici, che può fortemente aiutare a scoprire regioni e ragioni inesplorate dell’animo e del pensiero umano.

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“Teorema”, la recensione del film

di Andrea Ferrario

«Milano Internazionale»

Oltre a essere uno dei film simbolo del 1968, Teorema di Pasolini è anche una dissacrante parabola sulla borghesia e un film lucidamente milanese. Il film prende avvio dalla situazione paradossale di un padrone che regala la sua megafabbrica agli operai e si svolge poi con un lungo flash back con cui si ripercorrono gli eventi che lo hanno portato a questa decisione.
Nella lussuosa villa del padrone Paolo (Massimo Girotti) giunge un ospite bello e taciturno (Terence Stamp), che i protagonisti del film evidentemente conoscono, ma di cui lo spettatore non saprà nulla dall’inizio alla fine del film. La sua irruzione nella famiglia tipicamente borghese del padrone porta allo sconvolgimento dei singoli membri. Il misterioso ospite fa l’amore prima con la domestica Emilia, poi con il figlio Pietro, la moglie Lucia (Silvana Mangano), la figlia Odetta e, infine, con lo stesso Paolo. La gabbia borghese che racchiudeva la famiglia si infrange: Emilia diventa una santa che levita nell’aria, Pietro si dà alla pittura d’avanguardia, Odetta diventa pazza, Lucia si dà al sesso con giovani ragazzi e Paolo si incammina nudo verso l’ignoto con un grido di terrore.
La Milano che compare nella prima parte del film è quella canonicamente borghese: dal Liceo Parini di via Goito, ai dintorni di via XX Settembre e ai giardini della Guastalla, fino alla lussuosa villa di San Siro, recintata e chiusa da un imponente cancello. Quest’ultima è il luogo principale dell’azione di Teorema e Pasolini la descrive molto efficacemente con alcune semplici inquadrature: il giardino con un verde e un silenzio che a Milano solo i grandi borghesi si possono comprare, gli interni padronali lussuosi ma rigidamente sobri, la cucina enorme e gelidamente azzurrina in cui è confinata la domestica Emilia, la deserta strada antistante.
Con l’arrivo del misterioso ospite nel film irrompe però un’altra Milano. Prima la campagna piatta a sud della città, con i suoi canali, i suoi filari di pioppi e i campi coltivati. Poi la cascina tipicamente lombarda in cui torna Emilia già in odore di santità, e di seguito l’attico da artisti in una casa di ringhiera in cui si rifugia Pietro, i borghi popolari e i caseggiati anonimi delle peregrinazioni ninfomani di Lucia (significativo in particolare lo sguardo esterrefatto e incredulo di Silvana Mangano all’uscita dalla casa di un suo amante su alcuni scorci di una Milano popolare e informe che probabilmente non aveva mai visto prima).
L’ultima scena milanese è quella notissima di Paolo che nei grandi spazi interni della Stazione Centrale (il grande nodo del sistema di trasporti da cui transitano l’uno accanto all’altro tutti, dai borghesi ai proletari immigrati) si spoglia completamente nudo per dirigersi verso il proprio urlo disperato che chiuderà il film. La metropoli lombarda è quindi a tutti gli effetti una protagonista di Teorema, alla pari del misterioso ospite e dei membri della rigida famiglia borghese.
Un’ultima annotazione, che è d’obbligo in era di barbarie culturale leghista: Pasolini, che oltre a scrittore e regista, di professione era anche immigrato, prima in Friuli e poi a Roma, e che di quella che i leghisti chiamano volgarmente “Roma ladrona” è stato uno dei più profondi conoscitori e più partecipi abitanti, è riuscito a dipingere come nessun altro alcuni dei lati più intimi di Milano. Teorema dimostra quindi tra le altre cose che la milanesità autentica è un patrimonio aperto a tutti, e che vive anche del contributo di chi viene da fuori.