“Ritratti italiani”, Pasolini secondo Arbasino

Sabato 6 settembre, nel corso del Festivaletteratura di Mantova, Alberto Arbasino ha presentato Ritratti italiani (Adelphi, 2014), il suo ultimo libro in cui traccia i profili di tanti protagonisti della storia italiana del Novecento con molti dei quali l’autore ha coltivato duraturi rapporti d’amicizia.

Con inconfondibile graffio di umorismo, Arbasino vi ha raccolto  uno zibaldone di osservazioni e ricordi, intrecciati  con la storia del sistema culturale e del milieu che attorno a quel sistema gravitava. Tutti i protagonisti della letteratura e dell’arte sono passati  così sotto la lente ad alta definizione di questo cronista dal passo ormai classico, i cui ritratti potremmo idealmente collocare nelle nostre librerie accanto alle Vite di Vasari o a Plutarco.
Ma le vite raccontate da Arbasino non sono quasi mai parallele; somigliano piuttosto ad affluenti di uno stesso fiume, che convergono lentamente, fino a confondersi in un punto preciso, che spesso coincide con brevissime, efficaci epifanie. Un gesto, un tic, un lapsus: è in questi “scarti” che Arbasino coglie al meglio l’essenza dei suoi osservati speciali, e spesso in quelle istantanee pare di riuscire a percepire quello che Roland Barthes chiamava “punctum”. L’aspetto emotivo, cioè, che trascende l’impostazione razionale dell’opera, o la maschera indossata pubblicamente dal personaggio.

Ritratti italiani è un tassello importantedella bibliografia arbasiniana, presentando una galleria eterogenea di numi tutelari dell’Italia dal secondo dopoguerra in avanti. È un’Italia per la quale non si può non provare una certa nostalgia, tanto appare evidente la sproporzione fra gli italiani che sono chiamati a rappresentarla e un’immaginaria, analoga operazione che fosse ambientata solo ai giorni nostri.

Gadda, Longhi, Cecchi, Calvino, Soldati, Eco, Einaudi, Pasolini e tantissimi altri sono osservati con partecipe ironia, ma mai con sarcasmo. Sembra quasi di vedere Arbasino prendere appunti sui loro tic, in un angolo, leggermente discosto, con un sorriso mai beffardo o irridente; un sorriso del quale sa metterci a parte, per cercare una complicità col lettore che è forse la vera, più autentica cifra del suo stile. Le debolezze di questi arcani maggiori, artisti, scrittori, politici e personaggi pubblici sono svelate con una bonomia e un gusto per l’aneddoto che spesso sconfina nel pettegolezzo;  ma qui la parola va intesa nella sua accezione più bella, quasi settecentesca, e – pur avendo Arbasino inventato la proverbiale figura della casalinga di Voghera – mai provinciale. 

A Mantova, durante la conversazione con il critico Marco Belpoliti, Arbasino si è lasciato andare ad una rievocazione di ricordi corredati tutti da postille sincere e graffianti che certamente hanno tenuto viva l’attenzione del pubblico. Particolare attenzione è stata rivolta a Pasolini, splendido ritratto tra i più complessi della galleria, tanto che gli sono dedicate 25 pagine, ben più che agli altri “biografati”. Un Pasolini tormentato e misterioso  cui Arbasino non manca di guardare a distanza con ammiccante severità. Ma Pasolini rimane sempre Pier Paolo, un amico febbrile di cui, con affetto sia pure caustico,  continuare a rievocare la profonda complicità letteraria.

 

Per gentile concessione della redazione di www.doppiozero.com,  rivista culturale online dalle antenne sempre acute, pubblichiamo qui  il resoconto di Marco Belpoliti sul dialogo intrattenuto con Arbasino, a latere del Festivaletteratura di Mantova.

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Arbasino parla di Pasolini

di Marco Belpoliti

 

www.doppiozero.com

Lui c’era. Lo incontrava, gli parlava, in un novero di anni non poi tanto breve. Pasolini era una presenza usuale nelle tavolate dell’epoca, quelle in trattorie e pizzerie romane, che Alberto Arbasino descrive nel suo libro, capolavoro della sua post-maturità, Ritratti italiani (Adelphi). Con Moravia, la Morante, gli altri amici romani, si discuteva, si litigava, ci si divertiva parecchio, racconta. Nelle venticinque pagine che Alberto Arbasino dedica al più famoso intellettuale italiano della seconda metà del XX secolo, uno dei più lunghi ritratti, si comincia con un’intervista del 1963, in precedenza pubblicata in Sessanta posizioni, libro uscito nel 1971.

 Lì c’è una frase che esprime la situazione di Pasolini all’epoca, frase che suona anni Settanta e non Sessanta, come è datata nei Meridiani, dove è riportata: “L’Italia è un corpo stupendo, ma dovunque lo tocchi o lo guardi, vedi, attorcigliate, le spire viscide e nere di un serpente, l’altra Italia. Come si può fare l’amore con un corpo avvolto da un serpente? Così comincia la castità”. Mancano solo quattro anni alla sua barbara uccisione. Anni cupi per il poeta.

 Siamo a Mantova, in un albergo, parlo con Arbasino di Pasolini. A Venezia è stato proiettato il film di Abel Ferrara dedicato a PPP, che ricostruisce l’ultimo giorno di vita dell’autore di Salò-Sade. Non l’abbiamo visto né io né lui. Su “The Observer” è uscito poche settimane fa un articolo di Ed Vulliamy, che da giovane fu a Firenze nel 1973, membro di “Lotta Continua”, dedicato al film di Ferrara. Si parla ancora dell’uccisione di PPP per ragioni politiche: a causa del romanzo che stava scrivendo, Petrolio, per la connessione tra la morte del poeta e l’uccisione di Mattei, con servizi deviati, neofascisti, bombe, oro nero.

 Questa estate è uscito sul supplemento culturale de “il Sole-24 Ore” un articolo di Graziella Chiarcossi, la nipote di Pasolini, che spiegava a chiare lettere che non c’è stato nessun furto del manoscritto di Petrolio, una delle prove proposte negli ultimi anni per sostenere la vicenda dell’uccisione politica di PPP. Certo, ci sono ancora molte cose oscure nella vicenda. Pelosi, l’assassino reo confesso, non ha detto tutta la verità, e ha più volte parlato ingarbugliando la storia di quelle ultime ore. Parlo ancora una volta di Pasolini con Arbasino perché nelle sue pagine ci sono due o tre cose che meritano di essere riprese e commentate.

Perché tanto spazio a Pasolini? Non ne dai così tanto neppure a Calvino, molte volte citato nel libro.

Perché Pasolini è stato un’icona. E lo è diventato soprattutto grazie ai film, così visti all’estero, mentre invece per quello che riguarda Ragazzi di vita o Una vita violenta erano considerate delle narrazioni dialettali, romanesche, né più né meno come i racconti milanesi di Testori. Bisogna pensare a cosa faceva Gadda, il nostro indiscusso maestro, che nello stesso giro di frase includeva il sublime e il pecoreccio, il linguaggio tecnico e ingegneresco, demodé o aggiornato. Pasolini e Testori si limitavano a tradurre i loro linguaggi.

Vuoi dire che ti sembra più riuscito il cinema della narrativa. Non è un giudizio da specialista, da addetto ai lavori? Non lo leggono in tanti?

No, non credo. Mi domando quanti siano oggi i lettori di quei due libri.

Lo scandalo di Ragazzi di vita, il processo lo avevano aiutato molto ad affermarsi come autore.

Certo, ci furono tanti scandali, denuncie e processi, un’infinità che hanno accresciuto la sua fama, processi spesso intentati per ragioni pretestuose.

Quanto ha contato e ancora conta lo scandalo nella costruzione dell’icona?

Moltissimo, uno scandalo che riguardava allo stesso tempo i cattolici, i comunisti e persino i lettori del “Corriere della Sera”. Uno scandalo divulgatissimo. Riusciva a provocare scandalo con i costumi prevalenti, così come lo suscitava con la religione di Stato e con ideologie alla moda. Turbare e scandalizzare i praticanti con le loro stesse pratiche, come ho scritto nel libro.

 La frase che riporti nella tua intervista, quel fare l’amore con il corpo dell’Italia, fa pensare ai ragazzi con cui andava Pasolini a Roma …

Beh, allora, negli anni Settanta i ragazzi avevano soldi e automobili, oltre che ragazze. L’arrivo di una Alfa Romeo in una piazzetta o strada non era più un avvenimento, l’offerta di una pizza faceva sorridere. Senza dubbio era disperato.

Oggi alla presentazione del libro hai detto che Pasolini si sentiva invecchiare …

Certo, invecchiare era un dramma per lui. Non aveva più la prestanza di prima. Non giocava più a calcio con i suoi coetanei, ma con ragazzi che avevano la metà dei suoi anni; il corpo che invecchia era diventato certamente un problema.

Nel libro ricordi che i temi della mutazione antropologica, gli articoli in Scritti corsari e prima su “il Corriere”, derivano da questa delusione per la perdita di seduzione, dalla perdita dei ragazzi di vita con cui andava nelle sue notti.

Era disperato per questo, ma è anche stato frainteso, perché chi rimpiangeva all’epoca l’Italia frugale del passato sembrava allora un nostalgico del fascismo. Le motivazioni autobiografiche delle sue anacronistiche invettive contro la società dei consumi e del benessere rendono ancora più straziante la tragica fine di Pier Paolo.

C’è un passo del tuo ritratto che mi ha colpito. Là dove tu parli del vittimismo masochistico genuino e profondo di Pasolini, “ostentato e strumentale per la carriera ma molto autentico, presentandosi insieme come capro espiatorio e agente provocatore – o come capro espiatore, sempre più eretico e martire; e poi aggiungi che tutto questo in ambienti dove il sesso e soprattutto la sodomia venivano vissuti come commedia e non come tragedia”.

Pier Paolo col suo temperamento drammatico e ferito visse la sodomia come tragedia e non come commedia. Non poteva certo fare il capro espiatorio nella letteratura, all’epoca ricca di vecchie zie delicate e velate, in trepida attesa di cose osé. E anche non poteva fungere da vittima o dissacrante scandalizzatore in quei set pieni di elettricisti e o macchinisti romaneschi trascinati allora da romantiche figure dietro i cespugli o fra le quinte …

Da dove nasce questa propensione al vittimismo?

Forse nasce in Friuli, nell’infanzia. Se si pensa che Casarsa è poi diventata Casarsa della Delizia, ed è il luogo dove ha subito il processo per comportamenti lascivi, come si diceva un tempo.

Nel libro parli degli ultimi tempi della vita di Pasolini, della delusione di questo mondo cambiato.

I ragazzi non lo davano più, se non a pagamento. Scompare l’Eden trovato a Roma. Pasolini aveva ragione parlando di omologazione che metteva insieme al terrorismo, poi il terrorismo passa di moda e l’omologazione si estende e diventa omogeneizzazione.

Tu hai scritto in un articolo, che qui nel libro non c’è, che nel caso di Pasolini che va coi ragazzi si trattava di pedofilia.

Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c’era. Si tratta di un termine usato dopo.

 Tu dici che a prenderlo sul serio erano solo le due chiese, i comunisti e i cattolici: scandalizzati ma anche attirati da lui.

Ma certo. Nel caso dei comunisti soprattutto erano attirati dal suo non conformismo, perché era controcorrente. I comunisti erano affascinati da questo.

Ma i comunisti erano dei puritani rispetto al sesso.

E i cattolici non erano forse scandalizzati dall’omosessualità di Pasolini, dalla sua pedofilia? In un articolo che ricordo, hai parlato dei preti, dei monsignori in Friuli, pedofili, che facevano lo stesso, ma allora non se ne parlava.

Lo si faceva normalmente nelle canoniche, perché una grande maggioranza dei preti così toccavano il sedere dei bambini.

La personalità masochista di Pasolini faceva vedere tutto questo come tragico, scrivi.

Virava in tragedia quello che era stato commedia nelle chiese e nei seminari.

Perché diventa una tragedia, ne aveva i motivi per questo?

Questa era la sua personalità. Pasolini, come Testori, erano tesissimi e inquietissimi. Afflitti dal senso del peccato, trasformavano in sfida quello che altri ambienti indulgenti e ironici vivevano la sodomia come divertimento e non come tormento: monsignori mondani, diplomatici sorridenti, signore con villa, grandi borghesi con yacht, letterati in blazer, la società gin-and-tonic.

In un paio di articoli comparsi in Scritti corsari, e prima in rivista o rotocalco, Pasolini spiega che lui non è gay, anche se non usa quel termine, e non credo neppure avrebbe amato molto i matrimoni omosessuali.

Neanche per sogno. Figurarsi, non avrebbe amato neppure quelli che si chiamavano i giovani mariti che allora si sfogavano prima di andare a casa dalle giovani mogli. Andava solo con i ragazzini, si faceva picchiare dai gruppi di ragazzini.

 Il tema della sua uccisione trattato da film di Abel Ferrara. Si parla della sua morte come un delitto politico. Non ti pare che questo sia un modo per non prendere in considerazione questi aspetti sessuali di Pasolini?

Certo. Il fatto delle mancanza di documenti… Tanti a dire: Io so, io so, io so … Ma allora dillo, allora scrivilo.

Tu pensi come Nico Naldini che il delitto sia avvenuto in un contesto sessuale?

Allora scrissi un articolo sul “Corriere” poco dopo la morte di Pier Paolo, dopo la disgrazia, dove si diceva che ci sono molti aspetti oscuri nella sua morte, ma forse ha ragione Naldini nel dire che hanno a che fare con quello.

Non è stato ucciso solo da Pelosi, questo sembra oramai probabile. Ma parlare del complotto politico …

Bisogna vedere se aveva l’abitudine di andare in quei luoghi più o meno spesso, se sono stati seguiti. Su questo si possono fare delle congetture. Non lo so.

Tu sei stato amico di Pasolini. Era un’amicizia fondata su che cosa?

Su un’affinità letteraria. Come con Parise e Calvino, ad esempio, è stata un’amicizia che non c’entrava nulla con storie di sesso.

Cosa ti manca di Pasolini?

I film, perché avendo visto Salò, sono rimasto perplesso. Un film che mi convince poco.

Oggi Pasolini riuscirebbe a capire qualcosa del gran caos in cui viviamo immersi?

Dubito che riuscirebbe a ricavarne una qualche spiegazione o interpretazione. Tutto è diventato complesso.

Arbasino è visibilmente stanco. Ne ha ben donde. Ha ottantaquattro anni e oggi ha parlato per quasi un’ora al Festival della Letteratura, poi ancora in radio, e un’altra intervista, prima di sederci qui nella stanzetta dell’albergo a riparlare di Pasolini. Tuttavia le sue risposte su Pasolini sono sempre pungenti e insieme affettuose e tenere, come nelle pagine del libro. Leggetele, troverete davvero un autore che non è solo un grandissimo stilista, come ha scritto, per altro giustamente, qui Giancarlo Leucadi – lo è, per fortuna, perché Arbasino è prima di tutto come lo dice e non quello che dice.  Le pagine sul poeta, sull’autore di Petrolio, sono stupende, come quelle su Gian Giacomo Feltrinelli, altra figura discussa, ma senza dubbio straordinaria della nostra storia recente. Leggete tutto questo libro, perché non solo c’è un’Italia scomparsa, e poi personaggi incredibili, ricordi, tanto gossip acuto e spietato, affascinante e brillante, ma perché questa di Ritratti italiani è l’autobiografia di uno dei nostri maggiori scrittori, e insieme il manuale su cosa deve e non deve fare un intellettuale (l’ha detto un acuto amico la sera stessa con lui). Insomma, un libro che è destinato a restare per qualche generazione almeno. Non ultimo il fatto che è uno dei libri più venduti (e probabilmente letti) di Arbasino. Va da Agnelli Gianni a Zeri Federico. Non tutta l’Italia, dal 1960 al 2010, ma molta. Autoritratto italiano.

[info_box title=”Alberto Arbasino” image=”” animate=””](Voghera, 1930) è narratore e saggista eclettico. Ha dato nei suoi scritti, da Le piccole vacanze (1957) a Fratelli d’Italia – del quale ha pubblicato tre differenti stesure (1963, 1976, 1993) – a Mekong(1994), un ritratto caustico e impietoso della società italiana del secondo Novecento. Assertore della ‘gita a Chiasso’ come antidoto al provincialismo culturale italiano ereditato dal fascismo, fu tra i sostenitori del Gruppo 63. Eccentrico, colto e curioso cronista della realtà sociale e culturale degli anni Sessanta e Settanta, ne lasciò un vivo ritratto nelle prime opere, che tendono a una giocosa mescolanza di generi letterari: dalle impressioni di vita fermate nelle pagine di Parigi o cara (1960), Grazie per le magnifiche rose (1965), Sessanta posizioni (1970), Un paese senza (1980) ai romanzi di formazione L’anonimo lombardo (1959), Fratelli d’Italia (1963) e della prima maturità Super-Eliogabalo (1969), La bella di Lodi (1972). Cosciente continuatore dello spirito illuminista lombardo e della linea letteraria che ha i padri nobili in Carlo Dossi e Carlo Emilio Gadda, ne è stato spregiudicato e ironico interprete in tutta la sua copiosa produzione. Tra le sue ultime opere il volume di poesie Matinée (1983) e i saggi Lettere da Londra (1997), Passeggiando tra i draghi addormentati (1997) e Paesaggi italiani con zombi (1998), Rap! (2001) e Rap 2 (2002), raccolta di poesie, ritornelli, scritti in versi, canti nella quale – prendendo a prestito la ritmica della musica rap – mette ancora una volta alla berlina atteggiamenti, mentalità e comportamenti degli italiani. Del 2004 è Marescialle e libertini(Adelphi). Tra 2009 e 2010 sono usciti i due volumi dei Meridiani Mondadori che raccolgono i suoi romanzi e racconti. Del 2011 America amore (Adelphi) che racconta il suo periodo americano tra la fine dei Cinquanta e i primi anni Sessanta.[/info_box]