Riflessioni sulla forma breve nella narrativa di PPP, di Giorgio Nisini

Racconti, anti-racconti, romanzi fallimentari.

Riflessioni sulla forma breve nella narrativa di Pier Paolo Pasolini di Giorgio Nisini

Bollettino ‘900 – Electronic Journal of ‘900 Italian Literature
http://www3.unibo.it/ – Giugno-dicembre 2005, n. 1-2

I. Premessa

Il risvolto di copertina dell’unica raccolta di racconti che Pier Paolo Pasolini pubblicò in vita, Alì dagli occhi azzurri (Milano, Garzanti, 1965), offre al lettore alcune indicazioni sullo statuto compositivo dell’opera, di cui mette in risalto i suoi aspetti non compiuti, oscillanti tra l’intenzione e la rinuncia:

«Se volessimo identificare in questa lunga e tormentata parabola un punto di partenza e un punto d’arrivo, potremmo dire che i racconti compresi in questo volume partono come racconti “da farsi” per arrivare, con gli ultimi, come racconti “non fatti”».

La particolare inclinazione al “non fatto”, che coinvolge la stessa categoria del “da farsi”, si interseca con la parallela storia di un fallimento romanzesco: in diverse occasioni, a partire da un altro risvolto di copertina – quello delle prime edizioni di Una vita violenta – l’autore annuncia la futura pubblicazione di un terzo romanzo romano, Il Rio della Grana, immaginato come ultimo capitolo di una trilogia inaugurata da Ragazzi di vita. Tra il 1958 e il 1963, anno in cui l’accenno al progetto viene eliminato dalle ristampe di Una vita violenta, Pasolini parla del Rio della Grana più volte e in più sedi, anticipandone anche un brano sul «Punto» del 14 novembre 1959. Nel giro di poco tempo, però, la vicenda redazionale del romanzo si mischia fino a confondersi con quella di Alì dagli occhi azzurri: abbandonato il proposito originario, lo scrittore trasforma il testo in una «raccolta di racconti» – come annuncia a Corrado Stajano in un’intervista su «Il Tempo» del 3 giugno 1965 -, e con un tratto di penna ne modifica il titolo nella cartella in cui sta raccogliendo il materiale preparatorio. [1] Così, quando Alì dagli occhi azzurri viene dato alle stampe, non solo si configura come un libro dallo statuto formale ibrido, dal momento che simultaneamente raccoglie poesie, racconti, rielaborazioni di sceneggiature, “ballate”, esperimenti in prosimetron, ma anche e soprattutto come un romanzo mancato. Dunque come radiografia, solo apparente, di un insuccesso.
Letta secondo questo punto di vista la scelta della “forma racconto” potrebbe sembrare un’opzione di ripiego: un insieme di idee, abbozzi, situazioni, a partire dalle quali lo scrittore cerca di costruire, senza riuscirci, un progetto romanzesco più esteso, lasciando dietro di sé solo relitti e frammenti, segmenti di storie possibili che rimangono sospese sul nulla. Ad alimentare una sensazione simile intervengono almeno altri due casi di romanzi naufragati dai quali Pasolini tenta di “riciclare” brani indipendenti. Del primo di essi, un ambizioso Romanzo del Mare a cui lavora tra il 1947 e il 1951, restano solo uno strano testo cosmogonico dal titolo Coleo di Samo e un’Operetta marina, che egli invia come racconto a sé stante al premio Taranto del 1951 e dal quale, in seguito, trae altre due brevi narrazioni (tra cui Primavera sul Po apparso nel 1953 su «Galleria»). [2]
Dal secondo invece, Il disprezzo della provincia, che lo impegna tra il 1951 e il 1952, l’autore estrae, ma senza pubblicarli, due racconti singoli, di cui uno interrotto (Una notte in Friuli). Eppure, nonostante questa tecnica di recupero, le motivazioni che conducono Pasolini ad adottare la narrativa breve sono più complesse: dietro alle centinaia di pagine dattiloscritte, nella circolarità con cui personaggi e ambientazioni si ripropongono e attraversano le varie opere (anche poetiche, teatrali, cinematografiche), si nasconde una causa di secondo grado, che consente non solo di inquadrare i racconti da un’altra prospettiva, ma di comprendere, nel particolare, la ragione per cui venne pubblicato, diversamente dai precedenti, uno scritto così informe e provvisorio come Alì.
Ripartiamo dalle premesse. Ripercorrendo l’itinerario di ideazione della raccolta del ’65 – itinerario che prende avvio, cronologicamente, almeno dal 1950, ovvero dall’anno di stesura di brani come Squarci di notti romane, Il Biondomoro, Gas ecc. – emerge un dato paratestuale significativo: originariamente il libro prevedeva, come si può desumere dall’analisi del materiale preparatorio conservato nell’Archivio Bonsanti di Firenze, [3] numerose introduzioni e premesse che dovevano integrare e accompagnare la lettura dei racconti, e di cui resta, nell’edizione a stampa garzantiana solo l’Avvertenza finale. Una di queste prefazioni espunte, che approfondisce i concetti già espressi nel citato risvolto di copertina, viene pubblicata da Pasolini su «Paese Sera» il 23 marzo 1966:

«Questi racconti, dal ’50 al ’65, finiscono, apparentemente, come sono cominciati. Racconti “da farsi” i primi, racconti “non fatti” gli ultimi. A differenza che nei racconti centrali, eseguiti nel cuore degli anni cinquanta, nei primi e negli ultimi, le tecniche del “da farsi” e del “non fatto” servono a mascherare la difficoltà della ricerca neonaturalistica. […] Il “da farsi” come impossibilità di fare, nelle prime pagine del ’50, ’51, è dovuto a mancanza di massa d’esperienza; nella seconda fase (’64, ’65) a sfiducia nella massa d’esperienza». [4]

Si torna alla conclusione di prima: il racconto si presenta come il paradigma di un’impasse narrativa, «maschera» di una difficoltà di «ricerca neonaturalistica». Ma ora c’è qualche indicazione in più: il Pasolini che manda alle stampe Alì dagli occhi azzurri, e dunque anche i racconti dell’insuccesso, quelli del ’50-51, nati da una «mancanza d’esperienza», è il Pasolini del 1965, ovvero l’autore che ha ormai sfiducia nell’«esperienza» stessa, quella così duramente conquistata sul campo con i due romanzi romani e la revisione del Sogno di una cosa. È il Pasolini, insomma, che si sta proiettando verso lo sfaldamento definitivo della struttura romanzesca, lo scrittore che presto pubblicherà Teorema (1968) e che sta già immaginando un’opera decostruita, “infernale”, provvisoria come La Divina Mimesis. La provvisorietà, però, diventa ora precisa scelta stilistica; o meglio unica possibilità compositiva: è la poetica dell’appunto, del commento paratestuale, del collasso; la poetica su cui si strutturerà Petrolio, la sola, cioè, in grado di avvicinare criticamente un mondo (neocapitalistico) su cui nessun naturalismo sembra avere più presa.
Vale la pena rileggere alcune considerazioni di Walter Siti presenti nella postfazione conclusiva ai dieci volumi pasoliniani della collana dei Meridiani Mondadori:

«Ma c’è una data che rappresenta una soglia di non-ritorno, un crinale oltre il quale niente è più come prima […]. Questa data è il 1965, o forse meglio il periodo compreso tra il 1964 e il 1966. Fino a quel momento nel sistema pasoliniano (nonostante tutte le crisi, o magari grazie ad esse) il rapporto tra Poeta e mondo aveva mantenuto una buona differenza di potenziale: il Poeta esprimeva la realtà. Gli uomini la vivevano in purezza – c’era una complementarietà tra Poeta e umili che si reggeva sul riconoscimento delle rispettive identità e sull’identificazione di un comune nemico». [5]

La data chiave di cui parla Siti è il 1965, l’anno di Alì dagli occhi azzurri; da quel momento Pasolini «mette in gioco anche il proprio regno, cioè il tavolo di lavoro», [6] adotta «esplicitamente il non-finito», [7] trasforma l’esibizione del processo compositivo, ma soprattutto le sue imperfezioni, in una tecnica di sperimentazione letteraria. Lungo questa traiettoria, allora, si ha la tentazione di leggere il racconto pasoliniano come un modello di “anti-racconto”, ovvero come una forma narrativa di cui volontariamente viene esposta la parzialità, l’inadeguatezza gnoseologica, la struttura inesorabilmente difettosa, e che, tuttavia, proprio in virtù di tale consapevolezza, riesce a recuperare una valenza conoscitiva di secondo grado. E così, ad esempio, se i testi del 1950-51 di Alì, all’altezza cronologica della loro stesura, venivano interpretati da Pasolini come esiti imperfetti – tanto che molti risultano nel 1965 ancora inediti -, successivamente l’autore riconsidera i loro deficit come una ragione di forza. Roma, ora, ovvero alla metà degli anni Sessanta, può essere vista solo per “squarci” notturni, per “studi”, per “appunti”, per “relitti”; non più tramite una storia architettonicamente organizzata e tipizzata come quella dedicata a Tommasino Puzzilli, e neanche tramite le tante storie – nella loro frammentarietà comunque riconoscibili – come quelle dei ragazzetti di vita del primo romanzo romano.

II. Tra romanzo e racconto

Alì dagli occhi azzurri è in realtà un’opera più complessa: non è solamente il risultato di un romanzo che non riesce a trovare un’identità, non è semplicemente un’antologia di racconti o di anti-racconti, ma è un insieme di testi distribuiti in un arco temporale lungo (quindici anni), un mosaico di forme e generi distinti, soprattutto un territorio letterario non chiuso, collegato a doppio nodo con altre opere e progetti. Ma anche limitandosi ad interpretare la raccolta come il paradigma di un romanzo fallito, di cui i suoi elementi rappresentano gruppi di scorie residue, schegge di un’unità non più possibile, subito dopo ci si accorge che proprio la scoria, anzi, solo la scoria, può avere ancora l’opportunità di esprimere il mondo e di penetrare con maggior acume nelle pieghe della vita metropolitana. È quanto aveva capito, in maniera estremamente diversa e altrettanto incisiva, un autore purtroppo dimenticato dalla storia letteraria italiana, quel Juan Rodolfo Wilcock che già nel 1961, con i Fatti inquietanti, aveva provato a raccontare, attraverso pezzi di cronaca paradossalmente rielaborati, una realtà altrettanto grottesca e sfuggente, costruita su notizie secondarie, improbabili, eterogenee, eppure capaci di scavare a fondo «lo sfacelo universale del nostro secolo». [8] Pasolini, che non a caso conosceva ed apprezzava l’opera di Wilcock – su cui però scrisse solo un paio di recensioni nel 1973, di cui una, dedicata a I due allegri indiani, piuttosto critica -, sentiva da sempre la congenialità della narrazione breve, al punto che il suo primo approccio alla narrativa, nel cuore degli anni Quaranta, avvenne non solo attraverso i romanzi della confessione (Amado mio ed Atti impuri), [9] ma anche per mezzo di una prolifica, almeno quantitativamente, produzione di racconti.
Eppure in Pasolini il racconto, come genere letterario, fin dalla produzione friulana tende sempre ad uscire da sé, a rimandare a qualcos’altro, a porsi, appunto, come segmento, scoria, stralcio di un tessuto narrativo più ampio. Difficilmente, cioè, esso si presenta come storia conclusa, autonoma, non interattiva con un progetto ulteriore, così come, d’altronde, tutta la sua produzione narrativa ha una continua e incessante circolarità e propensione all’osmosi. Molti dei testi contenuti in Alì, soprattutto quelli dei primi anni Cinquanta, mostrano chiaramente i contatti esistenti con il cantiere narrativo di Ragazzi di vita (si pensi a certi personaggi di Dal vero come il Palletta, oppure ad una figura come la prostituta Nadia di Squarci di notti romane, brano in cui, tra l’altro, ritorna l’espressione belliana posta in epigrafe all’ultimo capitolo del romanzo), così come, per inverso, un testo infernale come La Mortaccia già anticipa l’inclinazione dantesca poi sviluppata nella Divina Mimesis. Ma oltre a ciò, la presenza di sceneggiature e poesie apre l’antologia del ’65 ad un orizzonte ancora più ampio, che da un lato proietta verso l’universo cinematografico, proponendo rielaborazioni di sceneggiature (da Accattone a La ricotta), dall’altro verso i territori della poesia (ad esempio Profezia faceva inizialmente parte di Poesia in forma di rosa e ha legami con Poesia in forma di polemica uscita su «Vie Nuove» il 14 gennaio 1965). [10]
Già nelle prose friulane, quelle raccolte nel 1993 da Nico Naldini in Un paese di temporali e di primule e poi riprese nel primo volume Romanzi e racconti dei Meridiani (1998) – prose che Pasolini aveva pubblicato, salvo qualche inedito, sulle pagine di riviste e quotidiani nel corso degli anni Quaranta – si registra un’apertura di tipo intertestuale. Molte di esse, infatti, rivelano dei palesi contatti con i romanzi maggiori, Atti impuri ed Amado mio, di cui rappresentano estratti o varianti o, quantomeno, per Atti impuri, una comune derivazione da una base diaristica. È il caso, ad esempio, di Quello lì è il mio padrone, apparso il 31 agosto del 1947 sulla rivista «La stretta di mano» della Società Operaia di Mutuo Soccorso Sanvitese, che ha relazioni, per il suo coincidere parzialmente con una delle pagine dei cosiddetti Quaderni rossi, con il passo del trasferimento a Versuta narrato nel primo capitolo del romanzo; oppure, benché si rimanga sul piano delle congetture, di un gruppo di prose uscite tra il 1946 e il 1948, le quali potrebbero trovare origine da pagine di diario perdute (Un mio sogno, Gli angeli distratti, I dispetti, Il coetaneo ideale e perfetto, Topografia sentimentale del Friuli). [11]
A parte le ipotesi, la rete di corrispondenze tra i vari scritti resta fortissima: un racconto dal titolo Amado mio, uscito sul «Mattino del Popolo» l’11 dicembre del 1947, è una variante dell’episodio del cinema di Caorle presente nel romanzo omonimo; Douce, racconto postumo recuperato solo nel 1998, è una trascrizione “quasi letterale” di uno dei Quaderni rossi che Pasolini aveva pensato di connettere ad Atti impuri; D’improvviso soffiò la Sarneghera («Il Quotidiano», 17 ottobre 1950) è un testo molto vicino ad un passo contenuto in una delle redazioni di Amado mio. Un discorso simile riguarda un altro insieme di racconti, usciti tra il 1947 e il 1948, che sono rapportabili ad un testo pubblicato nel 1951 su «Botteghe oscure» dal titolo I parlanti, il quale, a sua volta, è in stretta relazione con l’impianto narrativo del Sogno di una cosa (si tratta di Simili ad Arcangeli, Valvasone, Topografia sentimentale del Friuli, La lingua di San Floreano, Le soglie di Pordenone). Situazione a parte è quella della Rondinella del Pacher («Il Quotidiano», 3 settembre 1950), il cui episodio centrale, il salvataggio della rondine da parte di un ragazzino, ritorna, con modifiche, almeno in altre due occasioni, sia nel finale del primo capitolo di Ragazzi di vita, sia in un trattamento cinematografico del 1959 dal titolo I morti di Roma. [12]
Stessa tendenza, e in misura amplificata, si registra anche per i racconti della fase romana, quelli precedenti la pubblicazione di Ragazzi di vita e riuniti da Walter Siti nel libro postumo Storie della città di Dio (un titolo redazionale che però rimanda sia al progetto del Rio della Grana, che in altri momenti Pasolini indica come La città di Dio, sia ad uno dei paragrafi di Una vita violenta). [13] Anche in questo caso, operando un’attenta comparazione testuale, si scopre che difficilmente un racconto non possiede delle zone di contiguità con altri scritti narrativi, configurandosi ora come variante, ora come amplificazione, ora come ripresa (tematica, contenutistica, ecc.) già sperimentata o destinata ad essere sperimentata altrove. Walter Siti e Silvia De Laude, nella cura dei volumi dei Meridiani, hanno fatto a tal proposito un primo, attento, lavoro di perlustrazione, notando le forti correlazioni esistenti tra i racconti pubblicati a Roma con i romanzi friulani (è il caso di Avventura Adriatica e delle citate D’improvviso soffiò la Sarneghera e La Rondinella del Pacher) e con Ragazzi di vita. Su quest’ultimo versante si dovrebbero ricordare i molti testi individuabili nel flusso narrativo delle differenti redazioni del romanzo – dal cosiddetto Ur-Ragazzi di vita alle due stesure dattiloscritte conservate presso la Biblioteca Nazionale di Roma – che Pasolini, in più tempi e per numerose ragioni, tagliò dalla versione definitiva per pubblicare singolarmente (o, viceversa, che pubblicò singolarmente per poi “incollare” nella versione definitiva). È il caso, tra gli altri, de Il Palombo («La Libertà d’Italia», 20 settembre 1950), La passione del fusajaro («Il Popolo», 18 ottobre 1950), Rievocazioni del Riccetto («Orazio», 3 giugno 1955), Ai Cerchi («Il Caffè», n. 12, dicembre 1955), o ancora di Santino nel mare di Ostia («Il Quotidiano», 11 settembre del 1951), la cui vicenda editoriale-redazionale, con quella di Terracina, si intreccia alla lavorazione dell’Ur-Ragazzi di vita. [14] Mi limito, per il momento, a riportare un brano tratto da Domenica al Collina Volpi, uscito su «Il Popolo» del 14 gennaio 1951, che risulta funzionale a mostrare la forte continuità esistente tra i testi del biennio 1950-51 e il futuro romanzo. La scena – per certi versi topica nella narrativa d’ambientazione romana di Pasolini – è quella di una partita di calcio tra ragazzetti di periferia:

«[…] gli accompagnatori, un po’ più anziani, dei ragazzi di Monteverde, stanchi di sfottere gli sconfitti che stavano rivestendosi, entrarono in un angolo del campo col pallone tra i piedi: formarono un piccolo quadrilatero, elastico come una gomma, e cominciarono a fare del palleggio. Colpivano la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, molto veloce. Dopo poco erano tutti zuppi di sudore, ma non volevano togliersi le giacche della festa – o le maglie di lana celeste con le strisce nere o gialle – a causa del carattere tutto casuale e scherzoso della loro esibizione. La massima preoccupazione loro era quella di non parer fanatici: e poiché – a dire il vero – un poco fanatici lo erano, giocando sotto quel sole, così vestiti, avevano sfoderato un’allegria rumorosa e minacciosa, da togliere qualsiasi voglia di trovar qualcosa da ridire nei loro riguardi. Tra i passaggi e gli stop, chiacchieravano tra loro. “Ammazzalo, quant’era moscio oggi Alvaro” disse un moro, tutto carico di brillantina. “Le donne” aggiunse poi, rovesciando. “Macché donne!” gli gridò un altro, con un espressione da incenerire l’eventuale contraddittore, “quello è suonato, quello”. “A maschio!” gridò poi, a un ragazzino, perché questi rilanciasse loro il pallone rotolato al di là del recinto. Egli infatti, conversando, nel tentare uno sprezzante e audace colpo di tacco, aveva fatto un buco, il cui esito negativo, però, non fu preso in nessuna considerazione». [15]

Rileggiamo ora questo estratto del primo capitolo di Ragazzi di vita:
«[…] quando i ragazzini si erano ormai stufati di giocare, un sabato, alcuni giovanotti più anziani si misero sotto la porta col pallone tra i piedi. Formarono un cerchio e cominciarono a fare del palleggio, colpendo la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, con dei bei colpetti secchi. Dopo un po’ erano tutti bagnati di sudore, ma non si volevano togliere le giacche della festa o i maglioni di lana azzurra con le strisce nere o gialle, a causa dell’aria tutta casuale e scherzosa con cui s’erano messi a giocare. Ma siccome i ragazzini che stavano lì intorno avrebbero forse potuto pensare che facevano i fanatici a giocare sotto quel sole, così vestiti, ridevano e si sfottevano, in modo però da togliere qualsiasi voglia di scherzare agli altri. Tra i passaggi e gli stop si facevano due chiacchiere. “Ammazzete quanto sei moscio oggi, Alvà!” gridò un moro, coi capelli infracicati di brillantina. “‘E donne”, disse poi, facendo una rovesciata. “Vaffanc…”, gli rispose Alvaro, con la sua faccia piena d’ossa, che pareva tutta ammaccata, e un capoccione che se un pidocchio ci avesse voluto fare un giro intorno sarebbe morto di vecchiaia. Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio, e il pallone rotolò lontano verso il Riccetto e gli altri che se ne stavano sbragati sull’erba zozza». [16]

A parte le modifiche linguistiche, che interessano soprattutto la resa lessicale (zuppi > bagnati; maglie > maglioni; quadrilatero > cerchio) o la coloritura di certe espressioni («carico di brillantina» > «coi capelli infracicati di brillantina»; «Macché donne» > «Vaffanc…»), e a parte la trasformazione del personaggio di Alvaro in uno dei giovanotti «più anziani», il confronto tra i due brani evidenzia chiaramente una ripresa diretta, seppur rielaborata, del racconto nel tessuto romanzesco; di più, il primo viene smembrato, tagliato e inglobato nel flusso narrativo del secondo perdendo, di conseguenza, la sua originaria autonomia.
Ma le riprese non si limitano soltanto ad un elemento strettamente contenutistico: c’è un insieme di simboli, di atmosfere, di nomi, che si muovono in maniera circolare anche in altri testi. Basti pensare al motivo del «maglione di lana azzurra» (o delle «maglie di lana celeste») con strisce nere o gialle che compare sia nelle primitive redazioni di Ragazzi di vita, come indumento sognato e poi ottenuto dal giovane Marcello, sia ne La passione del fusajaro, dove, nella versione di un «maglione celeste» con delle strisce gialle, è l’oggetto del desiderio di un personaggio di nome Morbidone. Ma quello delle maglie è un tema ancora più antico: ad esso, infatti, va raccordato almeno l’incipit di Amado mio, nonché il suo primo abbozzo dattiloscritto presentato nei Meridiani col titolo apocrifo Le «maglie», dove una «maglia» apparsa «sopra un rullo di cemento», simbolo metonimico del giovane che la indossa, turba improvvisamente lo sguardo del protagonista Desiderio.
Il discorso si articola ulteriormente se si passa ad osservare i racconti pasoliniani dal punto di vista dei personaggi. Essi, come alcuni nuclei contenutistici e simbolici, sono degli elementi altrettanto mobili: sono individui ben caratterizzati, figure forti o appena accennate, comparse, macchiette, che percorrono gli spazi testuali in una sorta di circolare incoscienza. A volte appaiono sullo sfondo, altre volte sono solamente delle ombre di passaggio, per poi invece altrove, tornare ad essere protagonisti o attori centrali di una scena. E così, nel Domenica al Collina Volpi, vediamo correre sul campetto di pallone il piccolo Agnolo (nome che tra l’altro rinvia a quello di Angelo Dus di Douce o del ragazzo morto dei Colori della domenica), personaggio che riappare in Ragazzi di vita e diretto discendente dell’amico di Luciano nella versione del Ferrobedò uscita su «Paragone» nel 1951. A sua volta Luciano, da identificarsi con una sorta di proto-Riccetto, è il protagonista di Terracina, il racconto inviato da Pasolini al premio Taranto del 1950; ma è anche il protagonista della prima citata versione del Ferrobedò, dal momento che i due brani, insieme al racconto conservato al fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux col titolo Li belli pischelli, costituiscono il nucleo centrale dell’Ur-Ragazzi di vita. Un personaggio di nome Luciano affiora inoltre ne La passione del fusajaro, testo che verrà integrato e poi rimosso dalla trama del romanzo e ripresentato dieci anni dopo, con diverso titolo (Il Cartina), su «Galleria Colonna». [17]
Da questo rapido sondaggio risulta evidente la complessità delle relazioni esistenti tra i racconti pasoliniani, che per alcuni versi fanno pensare agli altrettanto complessi intrecci che si ritrovano nelle storie di un altro autore delle periferie (però milanesi) come Giovanni Testori; persino nel caso in cui personaggi, eventi e situazioni di un racconto non siano dichiaratamente in rapporto con altri scritti, le ricerche d’archivio, l’analisi dei molti indici stilati da Pasolini, la stessa tipologia delle cartelle che raccolgono il materiale, mostrano un loro primitivo, o successivo, inserimento in un progetto più ampio. Per cui, ad esempio, tre racconti tra loro direttamente non collegati come Ragazzo e Trastevere, La bibita e La passione del fusajaro, usciti indipendentemente sui quotidiani nel corso del 1950, nella cartella d’archivio Pezzi esclusi, incerti, doppi per «Il Rio della Grana» vengono rielaborati ed innestati, con differenti titoli, in un trittico denominato Pischelli (nome che richiama il testo dell’Ur); o ancora, in un indice conservato presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, racconti friulani e romani, di cui molti poi confluiti in Alì, vengono accorpati in un unico progetto narrativo il cui titolo, Le notti calde, sarà lo stesso del quinto capitolo di Ragazzi di vita. D’altronde, quando Ragazzi di vita venne dato alle stampe, diversi osservatori – in primis Anna Banti, Emilio Cecchi e Franco Fortini – lo interpretarono, in virtù della relativa compattezza dei singoli capitoli e dell’assenza di un telaio connettivo forte, come un’antologia di racconti. L’osservazione, che nel caso di Banti acquistava una valenza critica, aveva una sua parziale ragione: in fin dei conti già due brani del romanzo – appunto Il Ferrobedò e Ragazzi de vita – erano usciti in forma autonoma sulle pagine di «Paragone», e ancora nel 1958 Giacinto Spagnoletti estraeva senza storture compositive il pezzo Amerigo per inserirlo nel secondo volume da lui curato della Nuova narrativa italiana (Parma, Guanda). Ma non è questo il punto: l’elemento rivelatore sta nel fatto che proprio la struttura frammentaria di Ragazzi di vita, la sua radice antiromanzesca, rappresenta la più autentica ragione di forza narrativa, che al contrario non troviamo in un’opera così attentamente organizzata come Una vita violenta, senza dubbio più organica, più coesa, ma allo stesso tempo inevitabilmente più rigida, anche dal punto di vista ideologico. Ragazzi di vita non è un lavoro chiuso: è piuttosto un pianeta narrativo attorno a cui ruotano decine di racconti satelliti, che a loro volta si completano e si comprendono fino in fondo solo se letti attraverso la rete delle loro interazioni. In tal senso la forma racconto diventa un metodo non solo di avvicinamento al romanzo, di precisazione del romanzo, ma di analisi del reale, mezzo attraverso il quale restituire il reale nella sua disorganicità.

III. Conclusioni

L’interazione tra romanzo e racconto, dunque, seppur sotto il sigillo della decostruzione formale, non è solamente costitutiva dell’iter redazionale di Alì dagli occhi azzurri, ma si qualifica come una marca specifica di tutta la produzione di Pasolini. [18] Ci sono però delle distinzioni da fare. In alcuni casi il processo d’interazione è etimologicamente decostruttivo, nel senso che il racconto si genera dalla scomposizione di un romanzo – per lo più di un romanzo lasciato in sospeso – di cui rappresenta una parte, un estratto, una variante dotata di autonomia. È quanto accade per i racconti nati dal Romanzo del mare, dal Disprezzo della provincia, o per un racconto come Amado mio.
Nel caso di Alì, al contrario, il meccanismo di decostruzione acquista una valenza più apertamente letteraria, nel senso che la raccolta di racconti deriva sì da un romanzo non riuscito, ma nei termini di una volontaria esposizione dei dispositivi dell’insuccesso: i brani sono esplicitamente presentati come “non fatti” o “da farsi”, i loro titoli insistono spesso sul valore provvisorio o parziale (squarci, relitti, studi, appunti), l’esibizione del laboratorio si fa scelta poetica. Non solo, ma il libro non riutilizza testi del romanzo fallito, che in realtà non era mai stato scritto (fatto salvo il pezzo omonimo Il Rio della grana), ma testi ibridi, antichi e recenti, protesi anche verso i territori del cinema.
Con le prose legate al cantiere di Ragazzi di vita, invece, il discorso assume una diversa modulazione: qui la dinamica è inversa rispetto a quella registrata per Alì, poiché non si ha una raccolta di racconti da un romanzo abortito, ma un romanzo riuscito da una raccolta di racconti. L’andamento è in pratica costruttivo, assemblante, selettivo: Pasolini, all’inizio degli anni Cinquanta, comincia a scrivere brevi narrazioni, che in parte pubblica, in parte abbandona, in parte dilata e connette tra loro immaginandole come base per un proto-romanzo che poi diventerà Ragazzi di vita. Il romanzo deriva da questo percorso progressivo, cioè da un itinerario fatto di addizioni, eliminazioni, spostamenti, rimontaggi, che lasciano attorno a sé un pulviscolo di storie correlate e sovrapponibili, personaggi, trame intrecciate e spezzate e poi nuovamente ricongiunte.
Ecco, dunque: la forma racconto in Pasolini sembra un’entità fluttuante, di forte carica sperimentale, che lambisce i territori del romanzo e si integra ad esso, costituendone ad un tempo il segmento genetico della sua formazione o il residuo del suo affondamento, oppure scivola verso i territori del cinema, confondendosi con l’abbozzo di sceneggiatura, che altrove (in un pezzo uscito su «Nuovi Argomenti» e poi raccolto in Empirismo eretico, Garzanti, 1972) l’autore definisce come «tecnica autonoma», ovvero come «struttura che vuol essere altra struttura». Ma soprattutto il racconto, come propone la sua stessa definizione, racconta storie: e in Pasolini sono storie di ragazzi e di diseredati, di amori eretici e proibiti, di uomini che si muovono in un mondo – quello dell’Italia tra gli anni del dopoguerra e del boom – che la letteratura stenta a riconoscere, nonostante cerchi disperatamente di fotografare ed afferrare. Un mondo veloce, frantumato, a cui la misura rapida e spezzata della forma breve, con i suoi meccanismi spesso difettosi, riesce a dare, forse, delle risposte più adeguate. Seppur parziali.

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Note:
1 Su tale cartella, infatti, ora conservata presso il Fondo Pasolini dell’Archivio Bonsanti di Firenze, il titolo Alì dagli occhi azzurri sostituisce, con una cassatura, il precedente Il Rio della Grana. Cfr. Nota ad Alì dagli occhi azzurri, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 1998.
2 In relazione allo stesso progetto marino si dovrebbe citare anche un romanzo incompiuto dal titolo Il Re dei Giapponesi, pubblicato postumo in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 1998.
3 Cfr. Nota ad Alì dagli occhi azzurri, cit.
4 Si legge ora sempre nella Nota ad Alì, cit., p. 1956.
5 W. Siti, L’opera rimasta sola, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. II, Milano, Mondadori, 2003, p. 1931.
6 Ivi, p. 1935.
7 Ivi, p. 1921.
8 J.R. Wilcock, Roma, in Fatti inquietanti, Milano, Adelphi, 1992, p. 247.
9 Tra l’altro Pasolini, in uno dei tanti indici da lui stilati, aveva ipotizzato di raccogliere Amado mio ed Atti impuri, insieme ad altri testi, sotto la comune denominazione di Racconti. Cfr. P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit., p. 1735.
10 Cfr. P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. II, cit., pp. 1970-71.
11 Cfr. Nota ai Quaderni rossi, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit.
12 Per un approfondimento su tutte queste relazioni intertestuali cfr. note ai relativi testi in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit.
13 Cfr. Nota al testo, in P.P. Pasolini, Storie della città di Dio, Torino, Einaudi, 1995.
14 Vedi nota 12.
15 P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, cit., pp. 1414-15.
16 Ivi, pp. 528-29. Sul confronto tra questi due brani si veda anche Z.G. Baranski, Pasolini, Friuli, Rome (1950-1951): Philological and Historical Notes, in Id., Pasolini Old & New: Surveys and Studies, Dublin, Four Courts Press, 1999, pp. 259-263
17 Cfr. ivi, p. 1712. L’episodio narrato nel racconto è infatti presente nella prima redazione di Ragazzi di vita e poi cassato in quella definitiva.
18 Questa interazione coinvolge in realtà anche altre zone della produzione pasoliniana. In diversi racconti si registrano infatti contatti significativi sia con l’opera in versi (un solo esempio: Spiritual è la versione narrativa del Biel zuvinìn della Meglio Gioventù), sia con quella cinematografica e teatrale (si veda il casoTeorema, i soggetti presenti in Alì, ecc.).