PPP su “Maurice” di Edward Morgan Forster

Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni

Recensione di Pasolini del 26 novembre 1972 a Maurice, di Edward Morgan Forster
In Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull’arte, Meridiani Mondadori, Milano 1999

Maurice è stato scritto da Edward Morgan Forster nel 1913-14, ma pubblicato solo dopo la sua morte, per sua volontà. Questo, a proposito di Maurice, è stato l’unico errore di Forster. Errore morale, perché Forster doveva avere il coraggio di pubblicarlo subito, ed errore pratico, perché Maurice è un capolavoro, e sui capolavori de­ve sedimentarsi il tempo di lettura giusto, perché essi possano prendere e tenere il loro posto nelle storie lette­rarie (se ciò ha importanza). I capolavori scoperti o pub­blicati in ritardo, forse non riusciranno mai ad «agire» come tali nelle coscienze. E anche il caso di Osip Mandel’stam, il poeta ebreo-russo conosciuto solo di recen­te, che pure essendo probabilmente più grande degli stessi Majakovskij ed Esenin, mai più potrà essere tenu­to presente in quanto tale: diventare cioè quel nome mi­tico che fa parte dell’elenco indiscriminato dei maestri che costituiscono i cardini delle ingenue informazioni letterarie dei figli. Ma queste son chiacchiere, che hanno valore solo se suonano come esasperata condanna della società puritana che ha obbligato Forster a un atto di viltà (lui così meravigliosamente lucido e coraggioso), e contro la società comunista staliniana che ha relegato Mandel’stam prima nei campi di concentramento e poi nel ghetto dei grandi poeti dimenticati.

Forster, in una prefazione al libro da pubblicarsi po­stumo, nel 1960 aveva scritto che esso era «datato», data l’evoluzione del costume, la maggior tolleranza ecc. (aggiungendo però amaramente che si è passati «dall’igno­ranza e dal terrore» «alla familiarità e al disprezzo»). In realtà il libro non è datato – perché malgrado appunto la tolleranza che crea i «liberi» ghetti – la storia di Maurice è una storia che potrebbe ripetersi identica nell’Inghil­terra di oggi, e non solo, ma anche nelle nazioni dove abbia sempre avuto vigore il codice napoleonico (che non prevede l’omosessualità in quanto tale come un delitto). La piccola borghesia non può che essere razzista: odierà sempre e comunque ebrei, zingari, omosessuali o gente del genere che «vive vite indegne di essere vissu­te» (Himmler – che non è inglese): o cesserà apparentemente di odiarli solo nel caso che diventino «marrani» cioè neghino socialmente se stessi.

Per molte pagine, fino a quasi metà libro, Maurice rie­sce a tener segreta la propria reale funzione: sembra dapprincipio un libro di ricordi sulla propria infanzia e la propria giovinezza: lo si legge come tale, ed è affasci­nante già così. L’umorismo inglese – che infastidisce tal­mente, in quanto, direi, privilegio di classe, in tanti ro­manzi inglesi – è così discreto da manifestarsi come stato d’animo generale, piuttosto che manifestarsi nei to­poi che gli sono sacri: tanta leggerezza è la classicità del libro, rifinito senza apparirlo, perfetto ma non simmetri­co e «chiuso», pieno di una raggiante vitalità espressiva, dominata e compressa, che non permette a niente di re­stare oscuro o in penombra. Si crede per un bel pezzo, di trovarsi a leggere una deliziosa opera classica, di quel­la particolare classicità del primo Novecento, che com­prende in un terreno comune di chiarezza e leggerezza, Proust e Apollinaire, Cocteau e i formalisti russi… Inve­ce il libro è destinato a dare due successive grosse ed emozionanti sorprese.

Quando il rapporto tra Maurice – uscito dalla valle dell’infanzia oscurata dall’ombra di alte montagne – e Clive, si chiarisce, e viene chiamato nel suo esplicito ter­mine di amore, sia pur platonico, secondo la suggestio­ne del Convito – il libro non è più un libro di memorie, ossia delle memorie di Maurice. C’è infatti un autore, Forster, che si distingue dal protagonista con cui si era così identificato da fare dell’intero mondo – il collegio, la famiglia – una soggettiva: ed esamina oggettivamente la storia del secondo personaggio, di Clive. Ma non, si badi, «come supposta» da Maurice, bensì vista come un fatto reale, che si oppone alla realtà di Maurice. Il libro da analitico – sia pure analitico in modo deliziosamente riassuntivo – diventa sintetico: assume cioè la forma di «oggetto» del romanzo, col suo artificio principe, cioè l’equidistanza dell’autore da tutti i personaggi. Ed è a questo punto che intervengono anche elementi molto evidenti di tecnica romanzesca: per esempio, in un capi­tolo vengono descritte le pure e semplici azioni di un personaggio, indecifrabili e ontologiche (tali da far di­sperare di supposizioni ed equivoci l’altro personaggio che le subisce), e nel capitolo successivo vengono «spie­gate», come appunto se l’autore fosse testimone sia dell’intimità del protagonista che dell’antagonista.

È questa la parte del romanzo che si legge con una an­goscia sottile, resa tollerabile solo dalla grazia dell’autore (con quella primavera a Cambridge): ciò che angoscia è l’amore non consumato tra i due ragazzi che pure «dico­no» di amarsi, e ne sono felici; il sentimento di una giovi­nezza buttata senza godere ciò che in essa c’è di meglio, il rapporto sessuale: tanto è vero che quando Clive, ormai sulla china discendente dell’amore, dice che sta comin­ciando a perdere i capelli, non si ha quasi più voglia di proseguire una lettura così atroce, che dà, forzatamente, per stupendo e realizzato un rapporto d’amore in realtà ottuso e represso. Poi Clive torna alla normalità, riscopre le donne, cui era destinato (e va a riscoprirle proprio sull’Acropoli, luogo deputato dell’amore greco – abilità suprema e diabolica da grande autore), e Maurice, inver­tito ma semplice e sano come il più normale dei ragazzi, resta di nuovo solo.

A questo punto, con estrema lentezza – con mano che pare non avere nervi, come dice l’Ascoli del Manzoni – Forster fa entrare il romanzo nella sua terza fase, riser­vandoci la seconda e ancora più emozionante sorpresa.

Piano piano la descrizione della borghesia inglese – così amabile da principio – comincia a farsi sempre più feroce: finché, alla fine, i personaggi, a cui avevamo sem­pre perdonato (e quasi ammirato) il controllo, l’adesio­ne al codice di comportamento, il terrore per la verità, il distacco dalle cose, il rigore sociale quasi ascetico, fini­scono col diventare dei mostri. Anne, l’amata e poi la moglie di Clive, è quasi la caricatura di un mostro ridi­colo; la famiglia di Maurice, madre e due sorelle, diven­ta una piccola tribù di pazze, ecc. Cosa succede? Forster, che per i primi due terzi del libro aveva descritto il puritanesimo e l’ipocrisia della sua perfetta società quasi con amore, d’improvviso, senza cambiare stile, descrive quella stessa società con un disprezzo che suona con­danna definitiva e totale. Ed è a questo punto che com­pare il terzo personaggio del dramma, Alec.

Di colpo, comprendiamo perché con tanta ostinazio­ne – anche se con altrettanta logica – Forster aveva fatto di Maurice un così accanito conservatore, quasi un rea­zionario: perché lo aveva fornito di tanto aristocratico e quasi invasato disprezzo verso le classi povere e di un così alto e assoluto concetto della propria classe e della sua appartenenza ad essa.

Nel momento in cui egli vede Alec – e il suo conscio non lo realizza, mentre lo realizza il suo profondo – que­sto suo «fascismo all’inglese» si irrigidisce e si fa più du­ro e inflessibile: per poi – d’incanto – vanificarsi, crolla­re, non esistere più, diventare quella cosa priva di realtà che è sempre stato.

Alec appartiene all’altra classe sociale: è figlio di un macellaio (orrore!) che momentaneamente fa il guardia-caccia della villa di Clive e si accinge a emigrare in Ar­gentina. È un povero. Sia l’intuito di Alec nel compren­dere l’amore non detto, non ammesso, di Maurice, sia il successivo abbandono di Maurice di tutto il suo mondo ideologico, vengono taciuti da Forster, ma parlano solo magicamente i fatti.

Alec porta con sé una sincerità sacrilega, la sua roz­zezza e la sua sfacciata ingenuità (che si manifesta in due stupende letterine di ricattatore) sono senza equi­valente nel mondo di Maurice, e quindi dapprincipio mancano della possibilità di interpretazione. Il corpo stesso di Alec è impossibile, è altro. E Alec vive la pro­pria classe sociale nel proprio corpo. Maurice, amando il corpo di Alec, ama in esso la sua classe sociale. E poi­ché è la prima volta che accetta e ammette di amare un corpo, ecco che la classe sociale che da quel corpo è vis­suta, viene accettata e ammessa, come una rivelazione. Alec irrompe nella vita classista di Maurice, non solo come un vento misterioso d’amore sfacciato, meravi­gliosamente ingenuo e carnale, ma come una forza rivo­luzionaria. La storia della borghesia inglese avrebbe in seguito fagocitato il socialismo che, quando Forster sta­va scrivendo questo stupendo libro terrorizzava come un fantasma le buone coscienze inglesi, e la rivoluzione – da lì a quattro anni – sarebbe esplosa altrove. Eppure Alec, con la sua stessa presenza, o, meglio, ripeto, col suo stesso corpo, è rivoluzionario: pur accettando le convenzioni e i condizionamenti (a lui profondamente estranei) della classe dominante, ad Alec non ci vuol niente a ridurli a quell’irrealtà che sono, e a sostituirli di prepotenza con qualcos’altro, comunque, di reale. In questo caso è il sesso. Ma nel sesso si concentra, come in un simbolo, tutta l’alterità di una vita ignorata dalla classe dominante, che ne è sgominata e dissacrata fino alla dissoluzione. Nel libro di Forster queste cose non sono scritte, ma non si possono non pensare: a meno di non essere sessualmente repressi e razzisti – anche se progressisti! – e quindi di essere così incapaci di pensa­re da prendere questo libro per un’elegante confessione o una denuncia superata dallo stile delizioso con cui è scritta.

Maurice_(film)

Maurice è anche un film – tratto da Edward Morgan Forster – del 1987 diretto da James Ivory, con James Wilby e Hugh Grant.