PPP, il cinema, la Chiesa, di Gianfranco Angelucci

Papa Francesco abbraccia l’apostolo Pasolini

di Gianfranco Angelucci

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La forte riabilitazione da parte della Chiesa di Papa Francesco del film pasoliniano Il Vangelo secondo Matteo sollecita la riflessione di Gianfranco Angelucci, studioso di cinema e grande collaboratore di Federico Fellini. Per gentile concessione dell’autore, qui di seguito questo  acuto  contributo, apparso il 24 luglio su “La voce di Romagna”.

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La Santa Chiesa abbraccia Pier Paolo Pasolini, il poeta maledetto, l’apostata, il peccatore dissoluto che si dichiarava ateo e comunista. Il suo film ispirato al Vangelo di Matteo diventa all’improvviso un capolavoro da preservare, da restaurare, e infine da riproporre con i toni esaltanti della scoperta, in un evento imperdibile, in quella stessa Matera in cui fu in parte girato mezzo secolo fa. Il poeta di Casarsa innalzato infine a profeta religioso, al punto che sull’”Osservatore Romano”  Emilio Ranzato senza mezzi termini parla della “più bella vita di Gesù della storia del cinema”. Da questi toni sovreccitati si capisce soprattutto che in questo deserto morale, in cui non soltanto la gente comune ma la stessa Cattedra di Pietro si sta dibattendo apparentemente senza uscita, anche un Cristo rivoluzionario alla Che Guevara può servire a scuotere le coscienze,  sorde ormai a qualsiasi richiamo che non sia quello dell’immediato appagamento dei bisogni primari. Il papa sudamericano appassionato del cinema italiano (ha dichiarato di amare La Strada  di Fellini e di Giulietta Masina), forse in questa ‘morta gora’ si è ricordato di quel film sconcertante visto quando era ancora un giovane prete in Argentina; e dell’effetto dirompente che deve aver suscitato dentro la sua anima.

Gesù, il Cristo, per la prima volta non veniva rappresentato con i capelli d’oro e gli occhi cerulei del Nazareno, ma con i tratti bruni e aggressivi di un giovane ribelle di duemila anni fa, un prescelto, un illuminato, che cercava di cambiare gli uomini e il mondo trascinandoli verso un’utopia che in breve, dopo la sua morte in croce,avrebbe conquistato stati e imperatori fino ai confini del mondo conosciuto. Pasolini ateo? E’ poco credibile; la mostra appena conclusa al Palazzo delle Esposizioni di Roma è stata una vetrina eccellente; ogni gesto del poeta, ogni suo verso, ogni immagine, era una sfida a Dio, un disperato tentativo di tirarlo su questa terra. Come tenta di fare papa Bergoglio stravolgendo intoccabili equilibri. La spiritualità non vive soltanto dentro il colonnato di Bernini, anche se di quell’abbraccio nessuno di noi vorrebbe fare a meno. Schiacciato, esecrato, perseguitato da “clerici rossi e neri”, come definiva Eugenio Montale le due cupole che si spartivano l’Italia, Pier Paolo Pasolini poteva cercare di sopravvivere soltanto tra gli esclusi, portando loro la poesia, la spiritualità,  l’idealismo di cui egli stesso viveva fino alle estreme conseguenze. Nel film Gesù era lui stesso, sovrapposto al personaggio storico tramandatoci da Matteo; e non era un caso, non era un vezzo da regista convocare sua madre Susanna sul set a interpretare Maria anziana. Da lì a dieci anni Pier Paolo sarebbe stato un “ecce homo”, straziato all’Idroscalo di Ostia. Ed era perfettamente consapevole della fine che lo attendeva: “Amo la vita così ferocemente, cosi disperatamente, che non me ne può venire bene:  dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n’è un abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro … Come andrà a finire non lo so.”

Pasolini predicava, anzi proclamava un “cinema di poesia”, cioè un cinema in cui le immagini, con la medesima funzione delle parole nei componimenti poetici, riuscissero a recuperare la purezza originaria, una nuova “semanticità”, e dunque la capacità di comunicare il primo significato del loro manifestarsi. Il Vangelo  è stato in questo senso il suo film più riuscito, dove tra propositi e risultato non esistevano margini incerti. Pasolini prima ancora che cineasta era infatti un poeta, le inquadrature gli servivano a comporre una partitura visiva, un affresco, in cui non era importante la ‘storia’ (alla quale si interessava pochissimo), ma la narrazione nella sua immediatezza; come possiamo supporre dovessero apparire ai fedeli le rappresentazioni sacre, le tavole dipinte con le allegorie dei miracoli dei Santi o delle Sacre Scritture. Scriveva di sé: “Per il resto – che volete – / sono vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso”.

Appena un anno prima, imitando i colori del Pontormo nei costumi accesi di Danilo Donati, il regista aveva messo in scena ne  La ricotta  una Passione di Cristo con cui s’era attirato i fulmini della censura. Girò infatti la morte per indigestione di una povera comparsa, Stracci, proprio nel momento in cui nei panni del ladrone veniva legato ai legni della croce per essere innalzato accanto al Salvatore. Pier Paolo fu accusato di vilipendio alla religione (condannato a quattro mesi e poi assolto), la Curia romana lanciò l’anatema, i benpensanti invocarono la ‘sua’ crocefissione.

Federico Fellini sul set di "Amarcord"
Federico Fellini sul set di “Amarcord”

Federico Fellini ne prese le difese durante un pubblico drammatico dibattito. Pier Paolo rispose ai suoi detrattori usando ancora semplicemente lo schermo e realizzando in bianco e nero la vita di Cristo. Decise di rinunciare allo sfondo della Palestina, che non corrispondeva più alle sue attese, per immergersi tra i Sassi di Matera; scelse facce, non attori, a recitare accanto a un interprete di diciannove anni, Enrique Irazoqui, spagnolo dalla barba nera color carbone e gli occhi allungati, levantini, da rondone; gli diede la voce pastosa e fremente di Enrico Maria Salerno, i gesti imperiosi e dolci del capopopolo. Accanto a sua madre Susanna, una Madonna rugosa, chiamò volti anonimi non ancora ‘omologati’ e persino amici scrittori, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Ninetto Davoli: incarnavano Maria di Betania, Andrea, Simone e un semplice pastore. Rodolfo Wilcock era Caifa. A sorpresa volle inserire prima dei titoli di testa un’affermazione personale: “Questo film è dedicato alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”. Sentimento autentico di affetto, ma sospinto, caldeggiato da padre Angelo Arpa, il gesuita amico di Fellini che temeva per lui e voleva coprirgli le spalle. Arpa aveva difeso Le notti di Cabiria, e poi La Dolce Vita, maledetta dall’”Osservatore Romano”, subendone terribili conseguenze. Per la sua disubbidienza era stato obbligato al silenzio, era stato minacciato della sospensione ‘a divinis’ (cioè la proibizione a celebrare messa) e fu persino allontanato dal proprio ordine religioso. Eppure non smise mai di difendere gli artisti, non contro la Chiesa bensì per amore della Chiesa. Perché gli artisti sono come apostoli in terra di nessuno, che parlano di Dio spesso senza saperlo. C’è ancora da dubitare che Pasolini, dirigendo il suo film, fosse Gesù e Matteo insieme?

Ora un altro gesuita salito al Soglio pontificio, Josè Mario Bergoglio, rimedia a quelle assurdità di una chiesa arcigna che sembrano appartenere a un remoto medioevo, e non sono trascorsi che cinquanta anni. Il Vaticano ha riesumato dal buio della cineteca di stato una copia del film in 16 mm, l’ha restituita all’originale splendore, l’ha affidata alle nuove tecnologie trasformandola in uno splendido DVD che tutti possono acquistare, ammirare, su cui riflettere, commuoversi. L’”Osservatore Romano”  asserisce a gran voce che Pasolini con quel suo film “ha conferito un rigore nuovo al verbo cristiano”. Concordiamo: ma è singolare che in Italia se ne fossero già accorti in tanti, se non proprio tutti,  oltre la cinta delle mura leonine.

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scrittore, regista, giornalista, docente d’Accademia, vive e lavora a Roma dove alterna l’attività letteraria a quella cinematografica. Laureato all’Università di Bologna con una tesi sull’opera di Federico Fellini, è stato suo amico e collaboratore per più di venti anni, firmando anche la sceneggiatura del  film  del 1987 del grande regista Intervista  (Premio Speciale della Giuria a Cannes e Primo Premio al Festival di Mosca). Dal 1997 al 2000, per incarico della famiglia e del Comune di Rimini ha diretto la “Fondazione Federico Fellini”, attuando un intenso programma di acquisizioni, convegni, pubblicazioni e mostre per onorare la memoria e la figura dell’artista.  Ha  pubblicato numerosi libri sui film del Maestro,  un “romanzo verità” dal titolo Federico F. (Avagliano, 2000)  e di recente il saggio Segreti e bugie di Federico Fellini  (Pellegrini ed., 2013).
Nell’ambito della narrativa ha anche firmato L’amore in corpo (Sperling & Kupfer, 1994) e Tra un anno al Caffè della Plaka (Abramo Ed., 2007).

 

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