PPP e “Salò”: i ricordi del regista Pupi Avati

In una recente intervista del 20 aprile 2016, il regista Pupi Avati (Bologna 1938) ha raccontato il suo rapporto d’amore per i libri, soprattutto i classici, e i progetti futuri di lavoro. Immancabile il ricordo di Pasolini, per il quale Avati lavorò alla sceneggiatura di Salò. Ne ha raccolto le confidenze letterarie Lidia Lombardi, già  responsabile dal 2001 al 2013 del servizio Cultura e Spettacoli del “Tempo”, nella cui redazione ha lavorato 35 anni.
All’intervista aggiungiamo anche un altro articolo, uscito il 2 novembre 2015, in cui il regista scende in maggiori dettagli sulla sua collaborazione al  film 
Salò e sulle ragioni per cui il suo nome non compare nei titoli di coda della pellicola. 

Pupi Avati: io dantista convinto, vorrei raccontare in tv la vita dell’Alighieri
di Lidia Lombardi

 www.maridacaterini.it – 20 aprile 2016

«Eh già – racconta il regista [….] quando andavo a scuola mi tenevo alla larga dai libri, perché in classe non li fanno amare. I classici imposti ai ragazzi si rovinano. Letti a sessanta anni, invece, annientano il pregiudizio e donano un estremo piacere a chi li affronta. Insomma, Virgilio e Omero si condividono in età avanzata».

Ma insomma, Avati, quando ha rotto l’inimicizia con i libri?
Intorno ai 27 anni, a ridosso dal mio matrimonio, ho cominciato a rendermi conto quanto la lettura regali in termini di conoscenza del mondo, delle persone. Così ho cominciato un percorso da autodidatta che mi ha reso un bibliofilo maniacale, compulsivo. Ho comprato migliaia di volumi, li ho sparsi in tutta casa: librerie nello studio, nell’ingresso nella sala da pranzo. Confesso, quei volumi non li ho letti tutti, mi sono fermato al 20 per cento, e poi molte sono opere di consultazione, ora un po’ accantonate per l’uso di Internet. Però la lettura è il mio appuntamento serale preferito A fine giornata mi stimola pensare che leggerò un libro che mi piace.

E se non le piace, Avati?
Non lo metto da parte, anche se è ostico. E’ successo per molti capolavori. Per esempio con la Recherche di Proust. Mi manca di leggere solo il settimo e ultimo volume, Il tempo ritrovato. E anche se molte volte sono stato tentato di lasciare, ho resistito e ho compreso che è l’insieme delle pagine a gratificarti . Lo stesso processo avviene con la musica classica o con il jazz: i brani che ti danno di più sono quelli che al primo approccio si presentano difficili. Poi ascolti, ascolti, ascolti e riesci a condividere i suoni.

Immagino dunque che neanche ai suoi figli ha consigliato di leggere?
No, però loro sono persone acculturate e amano gli autori contemporanei. Invece io li conosco poco, preferisco i classici, anche se ho fatto un’eccezione per Daniele Del Giudice, che apprezzo molto.

E quali scrittori l’hanno emozionata di più?
Faulkner mi ha davvero folgorato. Poi i russi: Dostoevskji, Tolstoi … Li considero dissuasivi.

Che vuol dire?
Che chi affronta per esempio Guerra e Pace non può non chiedersi come sia stato possibile realizzarlo. E’ un’opera così complessa che sembra impossibile possa essere entrata tutta in una sola mente.

"Salò". Manifesto
“Salò”. Manifesto

Lei ha conosciuto Pasolini, con il quale ha sceneggiato Salò o le 120 giornate di Sodoma. Un intellettuale dalla cultura sterminata.
Il Pasolini che ho visto io era il Pier Paolo quotidiano, a casa sua con la madre, Sergio Citti, la nipote: in un interno piccolo borghese, senza compiacimenti. Anche se la cosa che stavamo scrivendo, appunto Le 120 giornate di Sodoma, era terribile, atroce. Io ho forzato molto me stesso in quell’impegno, anche se ero sedotto dalla collaborazione con Pasolini.

Ma poi se ne è pentito?
No, anche se ho visto soltanto un pezzo del film, poi sono uscito dalla sala. In quella pellicola c’è qualcosa di mortuario, per questo non riesco a guardarlo. Però il rapporto con Pasolini è stato bello. Lui si mostrava molto paterno nei miei riguardi. Mi trovavo in un passaggio difficile della mia vita, egli mi incluse nel trio – io, lui e Citti appunto – e mi aiutò a traghettare quel periodo duro.         

Quale altra amicizia con scrittori?
Claudio Magris. Un legame felice, gli faccio leggere le mie cose. Cominciò così: la moglie, Marisa Madieri, si è cimentata con la storia del loro matrimonio. Attraverso quelle pagine capii Magris. Gli scrissi, ci incontrammo e da lì è cominciata l’intesa.

E quali scrittori avrebbe voluto conoscere?
Non Alberto Moravia, perché non mi ha mai incuriosito. Sì invece Carlo Emilio Gadda, persona davvero suggestiva e sfaccettata.

A che cosa sta lavorando ora il prolifico Pupi Avati?
Alla collection di film tv ispirati al Vangelo. Ambientato nel presente però. Il fil rouge è come sia necessario oggi, in quale modo vada vissuto, come instaurare un rapporto con gli altri, intesi come fratelli. È già andato in onda Le nozze di Laura che rimanda alle nozze di Cana. Altri due episodi, girati tra Pisa e Bologna e in attesa del via della Rai per la trasmissione che avverrà entro l’anno, sono ispirati al perdono e alla misericordia.

E quale lavoro vorrebbe realizzare per il piccolo schermo?
Un progetto ambizioso che si ricollega a quanto le ho detto sulla complessità disarmante di certe opere letterarie. Parlo di quella di Dante. Vede, io sono un dantista, posseggo un numero enorme di testi sull’autore della Commedia. Ma constato che la vita di Dante non è per niente chiara. Si sa che amò Beatrice, che partecipò alle lotte politiche, che finì in esilio. Niente di più. Addirittura alcuni anni fa si inscenò un processo per capire le ragioni per le quali fu condannato al rogo e al taglio della testa. Condanna inattuata, e derivata dall’accusa di baratteria, vale a dire di corruzione di pubblico ufficiale. Ne parla anche nel poema, spedendo all’Inferno e al Purgatorio suoi nemici. Ecco, sogno di raccontare la vita di Dante attraverso la biografia che ne scrisse il Boccaccio, il quale si recò a Ravenna per risarcire la figlia dell’Alighieri, Antonia, che si era fatta monaca col nome di Sorella Beatrice, ed effettuò molte ricerche sul sommo poeta. Un uomo tanto complesso e fondamentale per la nostra civiltà che mi sembra doveroso che la Rai, usa a realizzare biopic su tanti personaggi non solo della storia ma della cronaca, se ne faccia carico.

Pasolini sul set di "Salò" (1975)
Pasolini sul set di “Salò” (1975)

 

Pupi Avati: io che scrissi “Salò” non l’ho mai visto fino in fondo
di Franco Giubilei

www.lastampa.it – 2 novembre 2016

«Quando andai a vedere Salò riuscii a guardare l’inizio e poi uscii, perché venivo restituito alla sofferenza delle notti in cui ci avevo lavorato e mi sentivo violentato da una storia di un’atrocità senza limiti». Pupi Avati è autore della sceneggiatura dell’ultimo, terribile film di Pasolini, anche se il suo nome non compare nei crediti a causa delle complicate vicende produttive.
A 40 anni dalla morte del poeta, il regista bolognese racconta come nacque il progetto di ricavare una pellicola dal libro di De Sade, e di come si trovò a scriverne i dialoghi con Pasolini: «L’idea venne a Enrico Lucherini, il press agent, che propose a Euro International di produrre un film da Le 120 giornate di Sodoma sulla scia del successo dei vari Decameron di allora. La regia sarebbe stata affidata a Vittorio De Sisti, la sceneggiatura a me, Claudio Masenza e Antonio Troisi».
Nonostante gli addolcimenti e le limature alle scabrosità del testo di De Sade, Avati si rendeva conto che la sceneggiatura sarebbe stata indifendibile in sede di visto-censura, e così pensò di coinvolgere indirettamente il regista friulano: «Se il film fosse stato girato da Sergio Citti, di cui proprio allora usciva Storie scellerate, avremmo avuto la protezione di Pasolini. Gli portammo il copione, che non gli piacque. Era invece incuriosito dal libro, che all’epoca era introvabile. Andai con la mia copia nella sua casa in via Eufrate, all’Eur. Mi fece qualche domanda e poi mi disse: “Se dovessimo riscrivere la sceneggiatura, lo faresti?”. Naturalmente accettai, con l’imbarazzo di dover raccontare di quell’offerta ai miei sodali».
È il 1972 quando comincia il lavoro di scrittura: due volte alla settimana Avati si reca all’Eur per incontrarvi Citti e Pasolini. «I primi cambiamenti ci furono con lo spostamento delle ambientazioni dal Settecento alla Repubblica di Salò. Poi l’impresa si complicò, perché Pier Paolo aggiungeva versi tratti da Les fleurs du mal di Baudelaire, che sommavano violenza a violenza. Lui era di un grande nitore nelle spiegazioni, ma voleva andare sempre oltre: c’era qualcosa di funereo, mortuario, tremendo, e io mi ritrovavo a scrivere di quell’inferno di notte, da solo. Ma naturalmente ero molto lusingato dal fatto di lavorare per Pasolini».
Avati ricorda anche il contrasto fortissimo fra l’atmosfera familiare della casa di via Eufrate, dove il regista viveva con la madre e la nipote, e la cupezza dell’adattamento dell’opera di De Sade: «Capitava magari che, mentre approfondivamo tematiche di coprofagia, si affacciava sua mamma a chiedere se a cena lui voleva mangiare la cotoletta».
Poco tempo dopo la casa di produzione fallisce e il film salta, ma all’inizio del 1974 Avati incontra Pasolini in un ristorante romano a pranzo con Laura Betti: «Mi disse che aveva in mente di fare un film su San Paolo, e io gli dissi: “Ma perché non lo fai tu, Salò?”. Mi rispose che non aveva più la sceneggiatura, mi offrii di portargliela: lo feci il giorno dopo e fu l’ultima volta che lo vidi».
Un paio di mesi più tardi, i legali della nuova produzione lo avvertono che, a causa del fallimento del primo produttore, Avati dovrà rinunciare ad apparire fra gli autori, e così fu. «Lavorando con Pasolini ho avvertito una premonizione: c’era disperazione, una sensazione di buio, di baratro. Pier Paolo era lucido, una persona di grande genio, per me fu un’esperienza formativa. Salò somiglia a com’era lui in quel momento della sua vita».